Politica Internazionale

Politica Internazionale

Cerca nel blog

martedì 31 maggio 2011

I danni dei bombardamenti USA

La recente sciagura provocata in Afghanistan dall'errato bombardamento della NATO, ha suscitato pesanti critiche da parte del governo Karzai. Errori del genere rischiano di vanificare tutti gli sforzi compiuti dalla politica di Obama nella nazione con capitale Kabul. Il metodo della presente amministrazione si è differenziato dalla gestione Bush per un approccio meno militare ma più impostato sul dialogo con la società afghana, si sono costruiti ospedali e scuole in modo da concorrere con la presa sulla società, tradizionalmente favorevole agli esponenti talebani. Tuttavia l'esercito NATO è sempre e comunque sentito come una forza straniera, anche se ampi settori della società afghana sono grati al ruolo di portatore di democrazia e di stabilizzazione nazionale, la sua presenza è percepita, giustamente, come temporanea. Si tratta solo di lavorare affinchè questa presenza sia effettivamente vissuta dalla popolazione come non invasiva. Storicamente gli afghani hanno da sempre mal sopportato la presenza di forze armate straniere sul loro territorio, questo è il primo caso di permanenza così lunga. Le relazioni extra militari intrecciate hanno favorito contatti proficui che hanno determinato successi sia politici che sul campo di battaglia, permettendo alle forze armate NATO di mettere in grossa difficoltà la macchina bellica dei talebani e sopratutto di avere contribuito alla costruzione di un sistema politico il più somigliante possibile ad un sistema democratico. Questa affermazione è essenziale nel piano di contrasto al terrorismo islamico, perchè parte dalla società civile e non si fonda sulla esclusiva forza militare. La condivisione, in questo quadro, costituisce un fattore determinante, perchè permette di fare penetrare nel modo più profondo possibile i valori democratici, che devono costituire gli anticorpi fondamentali contro il terrorismo. Ora vanificare questo enorme lavoro perchè un aereo sbaglia il bersaglio, a parte la tragedia umana, non è concepibile. La normale avversione che si scatena a seguito dell'uccisione errata di civili, con diversi bambini tra le vittime, rappresenta una facile e potente arma per gli avversari della NATO, più degli attentati kamikaze. Rompere i legami creati tra USA e società civile afghana può creare una arretramento delle posizioni conquistate molto pericoloso, la macchina di Obama deve stare sempre più attenta ai particolari e rinunciare a qualche bombardamento per non perdere quegli obiettivi sociali tanto faticosamente conquistati.

lunedì 30 maggio 2011

Riflessioni sul possibile ingresso della Serbia nella UE

La questione dell'ingresso della Serbia nell'Unione Europea va confrontata con il caso turco ed il suo esito negativo. Di tutti gli stati ammessi alla UE, solo la Turchia avrebbe consentito uno sviluppo dell'economia comunitaria verso oriente, uno stato con delle contraddizioni interne da sanare certamente, ma comunque uno stato in espansione che avrebbe consentito di non pesare sul bilancio comunitario, inoltre uno stato dove la componente convinta dell'ingresso in Europa costituiva la maggioranza. Alla fine, fondamentalmente, hanno prevalso le ragioni religiose, si è ritenuto cioè che la differenza di credo potesse minare l'unità dell'Unione. La Turchia si era impegnata non poco, compiendo grossi progressi nell'ambito della democratizzazione, anche se gli standard raggiunti non avevano completamente soddisfatto i gradi richiesti da Bruxelles. L'interruzione del negoziato per l'ammissione ha indirizzato la Turchia verso l'area immediatamente confinante ed ha generato un ruolo da protagonista nell'area, che comprende tra l'altro una buona parte di Mediterraneo, di fatto l'esclusione ha generato un avversario, seppure pacifico, ai confini dell'Europa. La domanda da porsi è sulle modalità di ingresso nell'Unione, perchè accogliere stati euroscettici fin dall'inizio del loro percorso all'interno dell'istituzione comunitaria, che di fatto hanno generato divisioni dentro le istituzioni europee? Il processo inclusivo non sembra essere stato abbastanza selettivo ed ora la UE si trova spesso a che fare con spinte endogene che possono portare valori contrari allo spirito fondativo dell' unità europea. E così veniamo alla Serbia, la manovra della cattura del generale Mladic e della immediata richiesta di ingresso in Europa sono collegate a filo doppio; la UE si può fidare di uno stato e di un governo che agisce fuori dai parametri di legalità che la UE pretende? E sopratutto è conveniente dare corso alle richieste di una nazione dove le spinte nazionaliste ed antieuropee sono così forti? La richiesta pare soddisfare soltanto un bisogno economico e politico, che ponga la Serbia sullo stesso piano delle nazioni circostanti, più che un reale sentimento europeista. Già in precedenza sono state ammesse nazioni con scarso entusiasmo per la UE, ma Bruxelles ha continuato le inclusioni basandosi sul principio che un aumento dei componenti dell'Unione fosse l'unica garanzia per renderla più forte. In sostanza si è scelta la quantità a scapito della qualità, non si sono cioè preferite soltanto quelle nazioni con autentici sentimenti europeisti. La Serbia, per il proprio recente passato, è rimasta ai margini della UE più di altri paesi dell'area, ma i dubbi sull'opportunità di un suo ingresso devono essere valutati attentamente e senza fretta alcuna: non vi è alcun bisogno di membri non sicuri.

domenica 29 maggio 2011

Obama in Polonia

La strategia internazionale che Obama continua a costruire mette l’Europa sempre al centro. La recente visita nel centro del vecchio continente ha avuto come fulcro delle discussioni l’aspetto militare, con la nuova disposizione, in territorio polacco, di una forza aerea, in grado di garantire una versatilita’ maggiore delle precedenti dislocazioni. Questa decisione, di portare un distaccamento di forze USA, cosi’ vicino alla Russia, portera’ sicuramente un raffreddamento nelle relazioni tra le due superpotenze. L’aspetto deve essere stato valutato attentamente dall’entourage del presidente americano, perche’ sembra una decisione da vecchia guerra fredda. Cosa porti a cercare un confronto con la Russia non pare chiaro, dato che ultimamente il principale avversario su scale mondiale degli USA e’ la Cina. Tuttavia se si guarda alla scala locale, probabilmente la decisione e’ dettata dal fatto di preservare il centro europa da un possibile ritorno dell’influenza russa sulla regione. Ultimamente, infatti l’azione dell’Unione Europea non e’ sembrata godere della condivisione necessaria da parte dei governi dell’Europa centrale e non a caso Obama ha ribadito che un’Europa unita ed integrata e’ funzionale all’azione degli Stati Uniti. Obama sembra, quindi mettere le mani avanti temendo uno sfaldamento nel centro del vecchio continente della UE. La possibilita’ pare francamente remota, ma la necessita’ e la scelta della Polonia appare quasi simbolica per la propria storia. Nelle intenzioni del Presidente degli USA occorre trarre lezione dalle vicende della instaurazione della democrazia nei paesi ex socialisti per trasferire queste esperienze nei paesi arabi oggetto di transizione, per favorire una rapida ascesa del metodo democratico. La lezione che Obama vuole trarre e preservare e’ quella di paesi ex dittature che si dotano di un sistema democratico ed entrano a fare parte del sistema occidentale, anche se nei paesi arabi vi e’ la differenza rilevante della religione.

venerdì 27 maggio 2011

La Clinton in Pakistan

Hillary Clinton in missione in Pakistan per ricomporre la difficile situazione diplomatica tra i due paesi, seguita alla azione militare USA, che ha portato alla morte del leader di Al Qaeda, Bin Laden. La missione è stata mantenuta segreta fino alla effettuazione a causa della delicata situazione in Pakistan, dove la morte di Bin Laden ha portato a diverse azioni di ritorsione contro obiettivi delle forze armate pakistane, per cui è la presenza della Clinton è stata ritenuta come un possibile bersaglio da parte di attentatori filo qaeddisti. L'obiettivo è riallacciare i nodi della alleanza tra i due paesi dato che il Pakistan viene comunque ritenuto un alleato strategico, per la propria vicinanza all'Afghanistan, nella lotta contro i talebani. Entrambe gli stati hanno riconosciuto i propri errori gli uni verso gli altri in maniera da instaurare un clima più disteso. Il Pakistan ha riconosciuto che ci sono state senz'altro protezioni per Bin Laden da settori deviati dell'amministrazione statale ma gli USA hanno ammesso di non avere prove tangibili per incolpare funzionari pakistani della protezione del leader di Al Qaeda. La necessità di una distensione è comune ai due paesi: il Pakistan anche per risolvere i propri problemi interni, rappresentati da una sempre maggiore azione del terrorismo islamico, per cui una più forte alleanza con gli USA può garantire mezzi e sistemi da impiegare in una lotta più serrata all'estremismo islamico, esigenza complementare per gli stessi Stati Uniti, che hanno l'interesse a dialogare con un paese più stabile e meno gravato dalla minaccia terroristica.

giovedì 26 maggio 2011

La cattura di Mladic e la richiesta serba di entrare nella UE

La cattura di Ratko Mladic significa che la volontà di entrare in Europa ha prevalso in Serbia, sui tentativi di nascondere il proprio recente e tragico passato. Il criminale di guerra, come si sospettava da tempo, viveva indisturbato sotto falso nome in una località del nord del paese. Ricercato con il capo di imputazione di genocidio per il massacro dei musulmani bosniaci di Srebrenica, avvenuto nel luglio del 1995, Mladic è sempre sfuggito alla giustizia della Corte Internazionale dell'Aja, che ha più volte lanciato sospetti sulla Serbia, circa la supposta protezione garantita al generale. La UE stessa ha posto come requisito all'entrata nell'unione della Serbia, la cattura del pluri ricercato, incolpandola, tra le righe, di coprirne la latitanza. Significativa è stata la quasi simultanea dichiarazione, da parte del governo serbo, dell'arresto di Mladic e della richiesta di entrare in Europa. Del resto le necessità economiche imposte dalle crisi mondiali hanno imposto alla Serbia la scelta di sacrificare il suo ricercato più importante per entrare dalla porta principale nell'area dell'euro. Ma questo passo non sarà indolore, sopratutto sul fronte interno, la cattura e la consegna di Mladic imporrà alla Serbia una revisione della propria storia recente, che non sarà scevra di duri contrasti politici. I forti movimenti nazionalisti ed anche di destra, presenti nel paese non saranno certo d'accordo sulla consegna del generale alla corte dell'Aja e potrebbero alimentare l'avversione all'entrata in un'Europa che ha contribuito ai bombardamenti NATO. La questione dovrà fare riflettere attentamente Bruxelles, se da un lato vi è l'interesse ad allargare il territorio dell'Unione Europea, le recenti affermazioni dei partiti di destra, come il caso Finlandese, ed in generale dell'euroscetticismo presente in numerosi movimenti localistici, che hanno portato notevoli crepe nell'unitarietà del continente, fanno temere che se la Serbia entrerà nell'Unione non sarà un membro sufficientemente convinto. La UE dovrà valutare attentamente i nuovi ingressi, le esperienze negative fatte con paesi entrati senza la piena convinzione hanno minato le fondamenta istituzionali ed il processo di selezione dei nuovi soci dovrà avvenire necessariamente con maggiori requisiti di adesione ai principi comunitari.

Netanyahu al parlamento USA

La partita a scacchi della situazione palestinese si sta contraddistinguendo per una serie di mosse di pura interdizione, schermaglie dialettiche che non possono portare ad una rapida conclusione. Netanyahu di fronte al congresso americano, non ha fatto altro che ribadire le proprie posizioni, in una stanca ripetizione delle condizioni più volte espresse: impossibile il ritorno alla situazione del 1967, perchè Israele ritiene non più militarmente difendibili quei confini, richiesta di riconoscimento, praticamente senza condizioni, dello stato israeliano da parte dei palestinesi, smilitarizzazione del territorio palestinese. I concetti sono stati espressi in un parlamento USA, che ha più volte interrotto con applausi le tesi del premier israeliano, particolare che fa riflettere sulle percezioni dell'assemblea statunitense in aperto conflitto con Obama, perchè a maggioranza repubblicana. Le offerte di Netanyahu rivelano ancora una volta la tattica attendista di Israele, che non prendendo una decisione percorribile, tiene di fatto fermo il processo di pace. Le reazioni palestinesi di sdegno puntano sempre alla richiesta di riconoscimento ufficiale da parte dell'ONU dello stato palestinese, richiesta avversata e vista come il fumo negli occhi da Israele. Se si arrivasse ad una conclusione positiva per i palestinesi con una risoluzione in favore dello stato di Plaestina sarebbe un duro colpo, sul piano internazionale per Israele, tuttavia la possibilità che si verifichi questa ipotesi è molto difficile per l'avversione USA, sempre che Obama non riesca a fare cambiare indirizzo. Ma il solo fatto di riuscire a portare davanti all'assemblea delle Nazioni Unite il caso, dovrebbe riuscire a fare qualche cambio di strategia per Israele, portando proposte concrete ed attuali in un processo non più rinviabile.

martedì 24 maggio 2011

Per il Pakistan situazione sempre più difficile

Il recente attacco talebano alla base navale, sede del quartier generale dell’aviziazione della marina pakistana, pone Islamabad sempre piu’ al centro della lotta al terrorismo islamico e, nel contempo mette il governo pakistano in una posizone di sempre maggior debolezza. La posizione pakistana e’ chiaramente a meta’ del guado, tra opposizione interna talebana, preda delle pulsioni piu’ violente di antioccidentalismo religioso e Stati Uniti e NATO, che si muovono ormai, aldila’ della facciata, in maniera indipendente dal governo di Islamabad anche per operazioni sul territorio, che richiederebbero almeno accordi preventivi. Ma quello che sta segnando queste giornate che seguono alla morte di Bin Laden, e’ il l’innalzamento del livello operativo messo in campo dai talebani, che si sono spinti ad attaccare, per la prima volta, direttamente obiettivi NATO. La situazione si sta aggravando pesantemente per il Pakistan, che sta dimostrando nettamente di essere ostaggio di un terrorismo con elevate capacita’ militari. Quello che sembra e’ che stiano venedo fuori tutte le mancanze governative pakistane per non avere messo in campo una efficace lotta al fenomeno, ma di averci, invece convissuto, per non intaccare equilibri di fondo. Ma questa tattica sta scoprendo tutti i suoi limiti, giacche’ il fenomeno che pareva potere essere controllato e’ oramai sfuggito dalle mani degli apparati governativi. Il Pakistan rischia di trasformarsi in un paese in pieno caos, che rischia di perdere pezzi di territorio dalla propria giurisdizione per diventare veri e propri centri nevralgici del terrorismo islamico. Tutto questo deve fare rivedere alla NATO la propria strategia cercando di coinvolgere i settori dell’ammministrazione ancora non intaccati dal fenomeno del terrorismo islamico.

lunedì 23 maggio 2011

La UE sanziona la Siria

La UE si muove sul problema siriano e dichiara il dittatore Assad persona non grata e ne congela i beni presenti sul territorio europeo. Le brutali repressioni alle rivolte popolari, represse anche con spari sulla folla dopo la celebrazione di un funerale, hanno praticamente obbligato l'Unione Europea a prendere posizione, sebbene con la consueta lentezza. Siamo di fronte comunque ad risposta che ha valore politico ma poco pratico, nulla a che vedere con la risposta data a Gheddafi, che operava repressioni analoghe sulla popolazione libica. La lecita domanda che faceva chi chiedeva se in Libia la risposta militare è stata dovuta alla presenza di petrolio si riaffaccia prepotente osservando la reazione che la UE mette in campo. Tuttavia la presenza del petrolio giustifica solo in parte la diversa misura presa a carico di Assad, infatti la causa ostativa principale ad un nuovo intervento armato è la necessità di non coinvolgere in un ipotetico conflitto, il principale alleato della Siria: l'Iran. Peraltro anche Teheran risulta oggetto delle sanzioni UE per il problema nucleare, Bruxelles teme che gli sviluppi della tecnologia iraniana portino alla costruzione dell'atomica degli ayatollah. Questa paura è condivisa con i principali stati del mondo, ben rappresentati dal gruppo dei 5+1 (USA, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania) che temono l'atomica in mano al governo iraniano. Tornando alla Siria, l'obiettivo UE è di investire l'ONU per emettere sanzioni a carico del regime di Assad, pratica non facile da sbrigare per l'opposizione di Cina e Russia già rimaste scottate con la risoluzione per la Libia. L'evoluzione della situazione siriana non pare volgere al peggio per il regime vigente, l'apparato militare siriano ha dimostrato di potere contenere le proteste, sebbene con l'uso della violenza ed un intervento esterno appare al momento molto improbabile, quindi la mossa della UE rappresenta il primo passo della strada da percorrere per fare vacillare la dittatura. L'applicazione di sanzioni economiche e commerciali pare dunque, al momento l'unica via per cercare almeno di condizionare il governo della Siria.

domenica 22 maggio 2011

India e Pakistan: il terrorismo motivo in più per la divisione

Uno degli effetti della morte di Bin Laden in Pakistan è stato quello di dare un argomento in più all'India nell'annosa questione dell'inimicizia fra i due paesi. Infatti spesso Nuova Delhi ha accusato Islamabad di dare ospitalità a terroristi che periodicamente attaccano il suo territorio. La questione non è nuova e si può inquadrare nel più ampio dibattito sul terrorismo islamico e l'ospitalità che trova in Pakistan; per questo motivo con gli USA si sono verificati già diversi contrasti, pericolosi per la condotta della guerra afghana. Per quello che riguarda i già burrascosi rapporti tra India e Pakistan la prova della presenza di Bin Laden sul territorio di Islamabad rischia di compromettere quei pochi passi avanti che si erano fatti sulla strada della pace. Le due nazioni sono distanti anche sui rapporti internazionali: il Pakistan ha scelto come partner principale la Cina nell'intento di sollevare la propria economia, scelta che va a contrastare con gli obiettivi dell'India, in prima fila nella competizione economica con Pechino come paese emergente. La scelta del Pakistan è stata vissuta da Nuova Delhi come l'ennesimo sgarbo da parte del paese vicino, che incrementato la tradizionale e storica rivalità. L'India ha subito rinforzato i propri rapporti con gli USA, approfittando anche della inimicizia strisciante tra Washington e Pechino, per affiancare gli Stati Uniti. Nonostante, però la presenza di questi sgarbi continui, entrambi i paesi sono consci della necessità di riannodare i fili del processo di pace, interrotto dall'India dopo l'attentato di Bombay del 2008, nel quale persero la vita 116 persone, della cui responsabilità Nuova Delhi ritiene il Pakistan come mandante. Islamabad ha il problema di essere preda di troppi poteri alternativi a quello statale e di non riuscire a controllare l'interezza del proprio territorio nonostante un esercito di mezzo milione di persone e con la bomba atomica nel proprio arsenale. Questi problemi hanno limitato uno sviluppo economico in linea con gli avanzamenti regionali, specialmente quelli indiani, a causa, sopratutto di una cronica mancanza di infrastrutture, dovuta proprio alla mancanza di investimenti dirottati sul capitolo della difesa. Questo mancato sviluppo ha creato un rapporto diseguale tra i due stati, che invece hanno, sopratutto lungo la frontiera, molte similitudini negli ambiti sociali. Questo fattore economico ha di fatto aumentato la profonda divisione tra i due paesi, con l'India in vantaggio sul Pakistan grazie al suo exploit produttivo. Alla fine il fattore terrorismo è soltanto un elemento in più entro il conflitto dei due stati che risulta un fattore culturale di difficile superamento.

La Lega Araba analizzerà la questione palestinese

Il presidente ANP Abu Mazen ha richiesto in via ufficiale una riunione urgente della Lega Araba per analizzare il discorso di Obama, dove è stato proposto il pripristino dei confini vigenti prima del 1967, tra Israele e Palestina. L'analisi richiesta da Mazen vuole coinvolgere la Lega Araba per focalizzare il più possibile l'attenzione sul problema palestinese, che non ha mai goduto di un livello così alto e favorevole da parte dagli Stati Uniti. L'entrata in campo direttamente dell'organismo sovranazionale arabo più importante potrebbe aggiungere un attore di grande spessore politico nella questione palestinese. Ancora più rilevante sarebbe una riunione della Lega Araba che riguardasse, oltre al problema palestinese, anche le crisi libica, yemenita e siriana. E' quello che ha sostanzialmente prospettato Amro Musa, segretario della Lega Araba, che vuole mettere nell'ordine del giorno dei lavori, proprio i tragici fatti che si stanno svolgendo in paesi arabi e che stanno interessando il mondo intero. Una riunione che dovesse trattare tale ordine del giorno avrebbe la priorità assoluta nell'informazione e sarebbe al centro dell'interesse di tutto il mondo diplomatico. Mai come ora la Palestina ha la necessità di restare al centro dell'attenzione mondiale per riuscire a coronare il sogno di essere una nazione indipendente, la strategia del presidente ANP punta a mantenere vivo il tema, per costringere Israele a subire la pressione internazionale; il momento è favorevole ai palestinesi perchè mai nessun presidente USA si era spinto così in la per avallare la costituzione della Palestina come nazione. Siamo in un momento storico in cui le esigenze di USA, almeno quelli di questa amministrazione, e Palestina sono convergenti ed obbligano Israele sulla difensiva, ma questo non vuole dire che Tel Aviv possa cedere così facilmente.

sabato 21 maggio 2011

Obama spinge Israele ai confini ante 1967

La strategia di Obama nel medioriente aggiunge un altro tassello al puzzle, che il presidente americano sta costruendo. Israele non è più visto come elemento singolo della politica estera USA, ma diventa una parte di un quadro più grande e complesso. Obama, infatti lo ha inserito come elemento particolare e, forse più importante, nel grande insieme che va dalla Tunisia, fino alla Siria. Si capisce, che, per la qualità dei rapporti privilegiati tra i due paesi, Israele, sia tenuto in grande considerazione; ma il potere di Washington su Tel Aviv fa risaltare in maniera ancora più pesante le parole del presidente USA. La direzione indicata da Obama non può che dispiacere la parte al governo in Israele ed in generale l'opinione pubblica conservatrice dei due paesi, ritornare ai confini del 1967, significa rinunciare a pezzi considerevoli di territorio dove, nel frattempo si sono insediati numerosi agglomerati israeliani; la richiesta è pesante ma indica la determinazione USA di rompere con i passati indirizzi. Nelle intenzioni di Obama, come guida della nazione più importante del mondo, obiettivo continuamente ricercato da Washington, non c'è più posto per i due pesi e le due misure, in sostanza non si può chiedere agli arabi di rinuciare su tutto, ed anzi, proprio perchè si vuole dare un'immagine di equilibrio e di giustizia, che certifichi il ruolo di supremazia americano, occorre dare dimostrazione di esercitare, in maniera più che corretta il ruolo di pacificatore, che consenta agli USA l'accredito più volte ricercato nei paesi arabi. Non vi è dubbio che la questione palestinese sia centrale nella questione araba; Obama vuole fare uscire gli USA dallo stereotipo del nemico della nazione araba, la cruciale mediazione nella crisi egiziana e l'impegno della guerra in Libia sono li a provarlo, ma il passo decisivo è la soluzione della questione palestinese, solo quello può fare definitivamente cadere i dubbi verso Washington ed aprire agli USA la via di nuovi accordi con i paesi arabi. In questo quadro Israele non va visto come vittima sacrificale ma oggetto di un duplice investimento che, attraverso la costruzone della nazione palestinese, permetta allo stato ebraico di guadagnare la via della pace, in un momento difficile per la stabilità regionale, ed agli USA consenta di guadagnare quei consensi nei paesi arabi che da tanto tempo va cerando. Uno stato palestinese può permettere di tagliare la strada a tutti quei movimenti, dietro cui stanno l'estremismo islamico ed in ultima analisi l'Iran, che spingono per una pericolosa destabilizzazione dell'area, gli USA lo hanno capito, Israele forse, ancora no.

giovedì 19 maggio 2011

Gli USA investono sulla primavera araba

Gli USA investono sulla primavera araba. Il piano previsto da Obama prevede di rafforzare le nascenti democrazie intervenendo sul lato economico per migliorare la condizione economica e sociale delle popolazioni, in modo da favorire un clima più disteso, che possa permettere lo sviluppo delle nuove forme di governo. La prima mossa prevede di abbonare 1.000 milioni di dollari di debito, inoltre si pensa a nuove linee di credito in aggiunta a quelle già predisposte. L'amministrazione americana intende sfruttare la situazione creatasi con la primavera araba come un'opportunità da sfruttare per costruire una situazione di pace stabile nella regione e per aggiungere i nuovi governi alla lista dei propri alleati. Rinforzando l'economia e migliorando la condizione sociale, Obama intende preparare un terreno di coltura favorevole al radicamento della democrazia. La visione pare corretta, senza una economia stabile, la forma di stato democratica non può affermarsi, perchè gli strati sociali, specialmente i più bassi, possono essere facilmente preda di pulsioni populiste, che possono compromettere il cammino verso l'affermazione di sistemi pluralistici. Non è un caso che sia la rivoluzione tunisina, che quella egiziana siano partite grazie all'esasperazione della situazione economica; ma questa causa può valere anche al contrario: con situazioni in stato di transizione ogni evenienza è possibile. Raggiungere condizioni di stabilità economica, almeno minime, rappresenta la condizione necessaria per la partenza a pieno regime della democrazia in paesi che escono da anni di dittatura. Il pericolo è semmai come potrà avvenire la distribuzione di queste risorse, uno dei motivi scatenanti delle rivoluzioni arabe, oltre alla già citata situazione economica, è stato l'alto tasso di corruzione presente negli apparati burocratici. Caduti i rais che comandavano gli stati, l'impalcatura necessaria alla vita degli stati non è stata smantellata e costituisce l'anello di congiunzione con i vecchi regimi. Organizzare la distribuzione delle risorse sarà molto più difficile che trovare le risorse stesse, proprio perchè quel passaggio sarà fondamentale per dimostrare che le dittature sono cadute.

Le implicazioni libanesi della crisi siriana

Si aggrava la situazione siriana ed il conflitto interno rischia di essere esportato in Libano. Le forze armate siriane hanno schierato i propri reparti corazzati lungo la frontiera libanese per operare una feroce repressione presso la cittadina di Arida, teatro delle più dure proteste contro il regime. Dalla vicina cittadina libanese di Wadi Khaled si possono vedere ad occhio nudo le devastazioni dei militari siriani, che hanno incendiato diverse abitazioni. Nella Siria occidentale, notizie provenienti da attivisti siriani parlano di oltre 40 morti, da sabato scorso, a causa delle repressioni operate in nome del regime da parte sia delle forze armate che da parte di bande lealiste al governo in carica. I mass media governativi siriani, imputano, invece, la responsabilità delle violenze avvenute al confine da terroristi provenienti dal Libano, in particolare a membri del partito del premier uscente Saad Hariri, alleato dell'Arabia Saudita. La manovra siriana rischia di trascinare anche il Libano nell'ondata di violenza di Damasco, ma è un rischio ben calcolato da parte di Assad e, da cui anzi, il presidente siriano può addirittura trarre vantaggio. Innanzitutto l'operazione può rientrare nella strategia siriana di prendere tempo, in attesa che la situazione, senza interventi o pressioni esterne, volga pienamente a suo favore, tramite anche lo spostamento dell'attenzione internazionale su altri temi, come già sperimentato favorevolmente la scorsa settimana, con l'episodio alla frontiera israeliana. Ma l'elemento più rilevante potrebbe essere l'occasione per tentare, per l'ennesima volta, di allungare la sfera d'influenza siriana sul paese dei cedri. La storia libanese, anche recente, è costellata di tentativi siriani di condizionarne la politica, che hanno portato anche a soluzioni violente nel teatro libanese. Per la Siria e per l'Iran, suo principale alleato, potere disporre del territorio libanese potrebbe assumere una rilevanza tattica enorme nei confronti di Israele, che diverrebbe, così, sotto costante minaccia, non più dei soli Hezbollah, ma di un pericolo più importante. Se dovesse verificarsi questa eventualità, peraltro da sempre cercata da Damasco, la, già fragile, stabilità della regione sarebbe definitivamente compromessa, trascinando in una spirale pericolosa l'intero pianeta.

mercoledì 18 maggio 2011

Egitto: le forze armate smentiscono di lavorare per l'amnistia di Mubarak

l Consiglio supremo delle forze armate egiziane, l'organo che sta governando l'Egitto in questo periodo di transizione, ha negato di stare elaborando un piano che possa prevedere l'amnistia per Mubarak. L'esigenza di sottolineare l'estraneità a questa eventuale misura è nata dopo che è circolata la notizia che lo stesso Mubarak stesse preparando un messaggio alla nazione per discolparsi degli addebiti che gli sono stati mossi e di rinuciare alle sue ricchezze, per cui è incriminato per appropriazione indebita, in cambio di una amnistia. Il sospetto nell'opinione pubblica egiziana che è maturato subito dopo avere conosciuto la notizia è stato quello di una collaborazione tra le forze armate ed il vecchio presidente, per coprire le malefatte di ambo le parti, una sorta di complicità, quindi, negli anni trascorsi con Mubarak al governo. In questo momento neppure il potentissimo esercito egiziano può permettersi di transigere su argomenti così delicati; ogni giorno, sebbene non venga dato più risalto alla cosa, Il Cairo è percorso da manifestazioni in favore della democrazia ed i militari, pur rappresentando l'unico elemento di stabilità, non sono visti benevolmente dall'intera società egiziana, proprio per i loro trascorsi. Le forze armate non possono permettersi di avere ancora il benchè minimo legame con il vecchio regime ed hanno affermato di non volere intralciare il processo legale che dovrà verificare i reati dei governi Mubarak e dal quale l'Egitto intero aspetta giustizia. I sentimenti dell'opinione pubblica, quindi, non paiono lasciare spiragli ad un possibile perdono per Mubarak ed il suo entourage, troppo vicini i lutti della repressione, troppo radicato il risentimento per i metodi brutali che si sono susseguiti per 30 anni, troppo il peggioramento della qualità della vita, sia economica che sociale nello stato delle piramidi.

Saif Al Adel nuovo capo di Al Qaeda

Al Qaeda ha un nuovo leader, seppure ad interim. Si tratta dell'egiziano Saif Al-Adel anche noto come Muhamad Ibrahim Makkawi; 50 anni membro delle forze speciali della jahad islamica è accusato dell'attentato contro l'ambasciata USA di Nairobi e di Dar es Salaam nel 1998, si ritiene che sia uno stretto collaboratore di Ayman Al Zawahiri, il medico egiziano numero due dell'organizzazione terroristica. L'elezione si è resa necessaria per colmare il vuoto lasciato dalla morte di Bin Laden. Formatosi durante la lotta contro l'esercito sovietico in Afghanistan, ha militato nelle formazioni talebane, successivamente pare abbia diretto la sezione di Al Qaeda in Arabia Saudita, la quale si è resa protagonista di numerosi attentati all'interno del paese. L'impulso all'elezione del nuovo capo di Al Qaeda è arrivato dai leader afghani e pakistani, che hanno così evidenziato la necessità di una guida per il movimento impegnato direttamente nella lotta contro la NATO sul territorio afghano. Tuttavia non tutte le componenti dell'organizzazione paiono non essere in accordo con la nomina, che probabilmente è stata lasciata ad interim, infatti Arabia Saudita e Yemen sembrano rivendicare il fatto che il successore di Bin Laden debba provenire dalla penisola arabica. Secondo indiscrezioni la nomina avrebbe uno scopo contingente per lo sviluppo delle ostilità in Afghanistan e non sarebbe definitiva, ma solo preparatoria alla definitiva presa del potere di quello che è ritenuto il successore naturale di Osama Bin Laden: Ayman al-Zawahiri.

martedì 17 maggio 2011

Le ragioni della fretta di Israele per la creazione dello stato di Palestina

La manovra del premier israeliano per avviare il processo di costruzione dello stato palestinese, sembra essere obbligata più che mossa da sinceri sentimenti di pace. In poco tempo le certezze del governo riguardo alle proprie frontiere si sono sgretolate ed il paese si sente sempre più minacciato. Il primo bastione a saltare è stato l'Egitto, con il quale le relazioni diplomatiche, grazie a Mubarak, sono state sempre ottime; infatti lo stato israeliano non ha mai visto di buon occhio la rivolta proprio perchè poteva minare la stabilità internazionale della regione. Al momento attuale, su questo versante, la situazione non ha ancora conosciuto una definizione: la presa del potere dei militari, fortemente caldeggiata dagli USA, ha permesso di raffreddare le tensioni, ma sul versante interno, in attesa di libere elezioni, non vi è ancora un quadro certo degli assetti del potere. Lungo la linea di frontiera con la Giordania per il momento non si intravedono pericoli, il paese è stato toccato solo marginalmente dalla primavera araba, e gli assetti del potere sono inalterati per cui la stabilità dei rapporti internazionali per ora è assicurata. I problemi arrivano salendo verso i confini a nord di Israele. Le accese rivolte siriane hanno determinato una situazione di tensione sugli altipiani del Golan. Pur non avendo formali relazioni con Damasco, tra i due paesi si era instaurato un tacito accordo che manteneva uno status quo di pace sostanziale. La pressione internazionale, causata dalle feroci repressioni, ha, invece, determinato la scelta siriana di puntare su strategie diversive per distogliere l'attenzione dai propri problemi interni. In quest'ottica si devono leggere i recenti scontri tra palestinesi siriani ed esercito israeliano. Gli USA hanno accusato chiaramente Damasco di avere orchestrato direttamente la sollevazione contro i militari con la stella di David. Questo episodio, che per quanto grave, non ha messo in pericolo il territorio Isrealiano, accende però una spia sulle mutate condizioni di questo tratto di frontiera. Oggi è stata una manifestazione, anche violenta, domani potrebbe essere una via che l'Iran potrebbe volere usare. Resta la frontiera con il Libano, da sempre sotto osservazione perchè, alla fine era l'unico punto pericoloso per l'integrità dello stato con capitale Tel Aviv. Da questo quadro emerge con chiarezza come le condizioni di sicurezza siano mutate, delle quattro nazioni al confine, soltanto una risulta affidabile per la pace dello stato. Potenzialmente tutte le altre possono portare alterazioni alla stabilità del paese. Si capisce allora come Israele abbia necessità urgente di pacificare il fronte interno, per avere maggiori risorse da dedicare ai nuovi fronti venutisi a creare, con l'unica via possibile: accelerare il processo della costruzione dello stato della Palestina. Di solito la fretta non è una buona consigliera, ma in questo caso potrebbe aiutare a sbloccare una situazione decisiva per la pace del mondo intero.

Birmania: cancellata la pena di morte

Il governo della Birmania commuta la pena di morte in ergastolo e riduce di un anno tutte le altre condanne. Le misure dovrebbero servire per dare una impronta più moderna e democratica al paese asiatico. Non è dello stsso avviso l'organizzazione umanitaria Uuman Rights Watch, che considera gravemente insufficiente il provvedimento e continua a chiedere la libertà per gli oltre 2000 prigionieri politici. In realtà la misura dovrebbe proprio dimostrare che il paese si sarebbe avviato sulla via della democrazia e dovrebbe essere la dimostrazione tangibile di quanto richiesto anche dall'ONU. Tuttavia il provvedimento non riguarda quelli che sono l'argomento principale del contendere: i prigionieri politici. Del resto il governo, eletto con modalità discutibili e senza l'ammissione alla competizione del maggior partito di opposizione, nonostante siano state celebrate le elezioni dopo oltre venti anni, risulta essere composto da ex militari. Questi fattore ha da subito alimentato i dubbi sulla veridicità della trasformazione democratica del paese.

Netanyahu potrebbe cedere per la pace

Pressato dalle proteste palestinesi e dall'evoluzione della situazione internazionale, Benjamin Netanyahu afferma che è disposto alla cessione di una parte dello stato israeliano purchè venga raggiunta la pace. E' ancora presto per dire se si è arrivati ad un punto di svolta nel processo della costruzione di uno stato palestinese, unica possibilità per pacificare la regione, o se si tratta dell'ennesima mossa tattica per guadagnare tempo. L'attuale stato della politica internazionale, con lo sviluppo delle primavere arabe, può essere il motivo che consenta l'accelerazione del processo di pace israelo-palestinese, l'assetto della regione che può scaturire dalle rivolte in corso potrebbe fungere da acceleratore della costruzione dello stato palestinese, consentendo a Tel Aviv di chiudere in modi e tempi ragionevoli la partita, in modo da concentrarsi su altri fronti che mettono in pericolo la sicurezza dello stato. Inoltre, dal punto di vista mediatico consentirebbe ad Israele di guadagnare posizioni nel radimento dell'opinone pubblica ed infine toglierebbe l'alibi fondamentale agli arabi più integralisti per le loro ataviche posizioni anti israeliane. Il corso della storia sembrerebbe, quindi più potente di tante guerre e trattative non andate a buon fine. La condizione essenziale perchè questo processo si porti a termine dovrà essere il reciproco riconoscimento dei due stati sovrani. Netanyahu pone anche come condizione la logica fine del conflitto armato e, più complicato da ottenere, la smilitarizzazione della Palestina. Come difficile sarà ottenere l'indivisibilità di Gerusalemme a totale vantaggio di Tel Aviv, contraccambiato, nelle intenzioni del premier israeliano, dallo smantellamento dei coloni nella Cisgiordania. Queste sono le offerte che provengono da Israele, sono certamente una base di partenza, che non consentono, però una soluzione immediata. Resta da vedere quanta è l'urgenza per Israele di arrivare ad una definizione della partita, sopratutto con gli USA che spingono per la definizione del problema. Lo scenario internazionale che è davanti a Tel Aviv non gioca a suo favore ed il mondo intero spinge per la creazione dello stato di Palestina.

lunedì 16 maggio 2011

Israele reprime le manifestazioni dei palestinesi di Siria e Libano

Gli scontri ai confini di Israele, sulle frontiere di Libano e Siria, segnalano i sentimenti contrastanti che si vivono a Tel Aviv. La reazione, spropositata dell'esercito israeliano, che ha sparato sulla folla armata di pietre denuncia uno stato di timore, che alberga sempre di più nei cuori degli israeliani. Il reale timore è di vedere grandi masse di palestinesi esasperati muoversi dai loro paesi di esilio e dirigersi verso la propria patria espropriata. A livello mediatico Israele rischia di trasformarsi in carnefice, se non mantiene i nervi saldi. Paradossalmente essere sotto minaccia dell'atomica iraniana o dei razzi di Hamas, consente a Tel Aviv di recitare il ruolo della vittima perseguitata, viceversa sparare su persone disarmate non può che fare diminuire la simpatia per la causa sionista. Non si capisce se la mossa di muovere quasi simultaneamente dalle frontiere dei paesi dove sono esiliati sia stata casuale o organizzata; il risultato è stato che Israele è caduto nella trappola soffocando le dimostrazioni nel sangue. Tel Aviv accusa la Siria di avere orchestrato le proteste in modo da distogliere da essa stessa l'attenzione internazionale, ciò può essere verosimile, il regime di Assad non è nuovo ad usare strategie del genere per distogliere i riflettori, sotto la cui luce sta compiendo la sua feroce repressione. In ogni caso la reazione israeliana è stata un boomerang, sopratutto se si pensa alla pressione che Abu Mazen sta mettendo per portare in sede ONU il problema palestinese. Tel Aviv, già irritata per gli accordi tra ANP ed Hamas si vede ora pressare anche dai palestinesi di Siria e Libano, ma non si dimostra ancora convinta della necessità di avviare in modo formale le trattative per la creazione dello stato palestinese, unica soluzione per la pace nell'area.

domenica 15 maggio 2011

Pakistan ed USA: relazioni in crisi?

Il parlamento pakistano ha approvato all’unanimità una dura condanna all’intervento americano in occasione della morte di Osama Bin Laden. L’intervento, avvenuto in suolo straniero di una forza armata di altro paese è una chiara violazione del diritto internazionale. Ma all’inizio sia USA che Pakistan avevano affermato che l’azione era stata concordata, sebbene queste affermazioni non fossero state date in un comunicato congiunto. Già questa modalità aveva alimentato sospetti circa la veridicità dell’affermazione; in seguito si erano rincorse versioni differenti, che non lasciavano dubbi sulla mancata verità di una operazione congiunta. Il Pakistan è apparso,per la verità, subito disorientato dall’azione dei Navy Seals, ed ha tentato di rintuzzare la rabbia crescente nel paese, per la violazione di cui era stato oggetto, con dichiarazioni approssimative e di circostanza, perfino affermando che i reali protagonisti dell’intervento non erano miltari americani ma i servizi segreti nazionali. Sicuramente nel paese di Islamabad la confusione è aumentata per le mancate immagini e prove del successo operativo delle forze speciali della marina USA. Tuttavia la confusione è potuta durare solo fino a quando la stessa Al Qaeda ha ammesso la morte del proprio capo. Da quel momento per il Pakistan si è aperta la via, anche legittima, della contestazione alla modalità dell’operazione. Oltre le contestazioni, sono stati gli attentati ai soldati pakistani a decretare la necessità di una presa di posizione ferma, almeno sul piano legale e politico del parlamento pakistano. La condanna agli americani, a quel punto, è stato un atto dovuto, certamente calcolato fin dall’inizio dall’amministrazione Obama. Ma il punto attuale della situazione impone almeno due riflessioni. La prima è di ordine strategico, innazitutto è ormai appurato che Obama godeva di protezioni all’interno dell’apparato burocratico militare pakistano e la prova di ciò è, appunto, che Islamabad è stata tenuta all’oscuro dell’operazione, fatto ormai acclarato. Da ciò discende, siccome purtroppo la guerra afghana continua, la domanda, peraltro più volte posta, se Islamabad è ancora un alleato affidabile. Le pulsioni interne del paese pakistano contano molta parte dell’opinione pubblica contraria all’alleanza con gli USA, questo è un dato da tenere sempre a mente; come, però si deve sempre considerare anche la costante necessità dell’appoggio logistico, di cui le forze NATO necessitano entro il territorio pakistano. Fatto di cui Islamabad è consapevole ed infatti è la prima minaccia contenuta nella disposizione parlamentare approvata a maggioranza. La seconda considerazione è di ordine politico, questo è il punto più basso, nonostante i precedenti, delle relazione USA-Pakistan. In realtà non conviene a nessuno dei due soggetti rompere le relazioni, ma il Pakistan era obbligato a dare un segnale forte, sia in campo internazionale, per rivendicare la propria sovraità sul suo territorio, sia in campo interno per provare almeno a calmare gli ambienti più ostili al patto con Washington, che hanno visto nella prova di forza americana una sorta di subalternità del Pakistan agli Stati Uniti. Per la verità Islamabad ha ancora un problema più grave, che è il terrorismo di matrice islamica, che ha da subito iniziato a colpire le istituzioni del paese con attentati kamikaze. In quest’ottica la dura presa di posizione contro Washigton è da leggere anche come azione di raffreddamento sul fronte interno. Resta una domanda, valeva la pena per il colpo mediatico mettere in gioco un rapporto, seppure molto conflittuale, con l’unico pase chiave da cui condurre la lotta ai talebani?

sabato 14 maggio 2011

La violazione dell'Artico

La penuria di materie prime sara' la causa della violazione dell'Artico, l'enorme giacimento ancora intonso dai guasti umani. Otto paesi a Mosca, tra cui USA e Russia, hanno firmato un accordo propedeutico allo sfruttamento del tesoro che somma il 25% delle riserve mondiali di gas, petrolio e minerali. Complice di questo accordo anche il riscaldamento che provoca lo scioglimento dei ghiacci. Non serve ed anzi insospettisce, l'ecologismo di cui si e' vestita la Clinton, che ha auspicato uno sviluppo economico che preservi l'ecosistema. L'asserzione e' un ossimoro, infatti non si vede come si possa conciliare l'ecosistema inviolato con lo sviluppo economico. La scelta di violare l'artico è ancora più grave se si pensa alla recente sciagura atomica giapponese ed al disastro BP avvenuto nel golfo del Messico. Questi gravi fatti, giunti a molti altri di gravità non così eccessiva, non hanno ancora insegnato nulla ai governanti del mondo. Intaccare l'ecosistema artico significa mettere in pericolo il già traballante stato dell'ecologia mondiale. Anzichè firmare un accordo per preservare in maniera integrale le zone artiche, se ne firma uno che le comprometterà in maniera definitiva. La cecità della strada intrapresa non tarderà a manifestare i suoi effetti nefasti appena si deciderà di operare intaccando l'ecosistema artico. Tutto questo ancora una volta nel silenzio delle organizzazioni sovranazionali. Infine, dal punto di vista inernazionale, questo, che è stato definito il primo accordo panartico, rappresenta la volontà delle nazioni firmatarie di non preservare la regione, ma di depredarla delle sue imprtanti ricchezze.

giovedì 12 maggio 2011

La redistribuzione malattia dell'occidente

L'OCSE squarcia il velo sul vero problema sociale ed economico che attanaglia il mondo: la variazione della redistribuzione del reddito a scapito delle classi meno ricche. Le ripetute crisi economiche che hanno colpito a tutti i livelli gli stati mondiali hanno fatto come prima vittima il ceto medio, arretrato sempre piu' nella scala sociale, redistribuendo il reddito perduto verso le fasce piu' ricche, protagoniste di ulteriore arricchimento. Quello a cui stiamo assistendo consiste in una retromarcia della storia, i meccanismi che garantivano una crescita sociale attraverso una crescita economica si sono clamorosamente inceppati. L'OCSE punta il dito verso le nazioni piu' ricche dell'occidente, preda di un meccanismo perverso che ha, di fatto rallentato gli strumenti del welfare, che permettono di accrescere indirettamente il reddito, anche nei paesi scandinavi, tradizionalmente generosi su questi temi. Con le recessioni economiche gli stati hanno puntato a tagliare su questo versante per recuperare fondi di bilancio, non curandosi di andare ad intaccare la coesione sociale. Questo ha eroso anche il risparmio delle famiglie, innescando un circolo chiaramente non virtuoso, che ha finito per pesare sugli investimenti. Il fatto particolare e' che tutti i governi esaminati hanno preferito tagliare sugli strumenti del welfare in modo indiscriminato, senza elaborare politiche finanziarie alternative. Viene da pensare che l'azione dei governi presi in esame sia stata condizionata da una urgenza non meditata, siano state, cioe', intraprese le politiche piu' facili da pensare e da attuare, in una gara a chi faceva di meno. Anche questo rappresenta un segno dei tempi grami comuni a molte nazioni.

mercoledì 11 maggio 2011

Obama punta alla riforma dell'immigrazione

La campagna elettorale di Obama è già cominciata. Dopo il gran colpo, con conseguente effetto mediatico, della morte di Bin Laden, il presidente USA, affronta ora, da una posizione di forza, la riforma migratoria. Era un obiettivo dichiarato nella campagna elettorale. Ora forte del successo dovuto all'operazione di Abbottabad, Obama sfida un congresso non favorevole. La ragione è anche di ordine elettorale: 2 ispanici su 3 hanno votato il presidente USA in carica. La dichiarazione nel puro stile di Obama è che gli USA sono una nazione di immigrati e su questo si fonda il programma della riforma annunciata. Due i punti cardine: l'aumento della sicurezza della frontiera USA e un progetto di largo respiro che possa permettere l'ottenimento della cittadinanza con la doppia valenza di migliorare la sicurezza e fare avanzare l'economia nazionale. Tuttavia le possibilità che la riforma possa passare in un congresso a maggioranza repubblicana sono minime, ma la dichiarazione d'intenti costituisce un atto fondativo delle intenzioni di Obama. La consapevolezza della necessità degli immigrati come incremento della forza lavoro potrà però scontrarsi con le idee dell'america profonda, che, fenomeno ben conosciuto in Europa, non può vedere di buon occhio l'immissione nel mercato del lavoro di concorrenza a buon mercato. Sul territorio statunitense sono già presenti ben undici milioni di immigrati irregolari, la gran parte dei quali latinoamericani, che la riforma di Obama punta regolarizzare. Quello che può scatenarsi quindi, è un confronto epocale negli USA attuali, che potrebbero sconfessare, in caso di mancata riuscita della riforma, la loro stessa essenza profonda di nazione costruita su razze diverse, il cosidetto meltin pot, che ne ha determinato la grandezza. Si tratta di una questione che non riguarda i soli USA, ma che potrebbe influenzare, a seconda dell'esito, il mondo intero. Se infatti anche gli Stati Uniti dovessero piegarsi alla logica della chiusura e del ripiegamento su se stessi, per il mondo sarebbe un salto indietro troppo grande e la locomotiva della storia si avvierebbe verso il deragliamento.

L'alibi Bin Laden

on la morte di Bin Laden è caduto l'alibi di tanti dittatori. Uno dei motivi che l'occidente considerava a favore del tacito assenso al mantenimento del potere dei dittatori, specialmente della sponda meridionale del Mediterraneo, era la barriera, che questi garantivano, al possibile proliferare di organizzazioni come Al Qaeda in paesi tanto vicini all'Europa. Ciò è stato abbastanza vero, nell'insieme delle repressioni, di cui erano oggetto tutte le organizzazioni avverse ai regimi, anche Al Qaeda ne subiva le restrizioni. Il forte controllo di apparati burocratico militari non consentiva, se non in minima parte, alcuno sviluppo. Inoltre la feroce repressione riusciva a stroncare le velleità organizzative. Il punto era che per mantenere queste condizioni favorevoli all'occidente, non solo queste per la verità, si passava sopra alla più completa violazione dei diritti civili e sociali. Purtroppo Bin Laden ha cessato di nuocere troppo tardi, almeno in parte, per molti paesi la via alla democrazia è scattata anche con il leader di Al Qaeda ancora in vita. In quest'ottica la dipartita di Bin Laden è quasi simbolica, la causa che copriva tante nefandezze è stata rimossa, l'alibi non vale più, il ricorso allo spauracchio del principe del terrore non è più necessario, fortunatamente anche alcuni dittatori non nuocciono più ai loro paesi. Può esserci un legame tra le due cose? Il nesso è senz'altro casuale ma è significativo che nel momento, che uno degli scopi che l'occidente ha girato a suo favore, dell'esistenza di Bin Laden, sia sparito, subito dopo sia scomparso anche lo strumento che ne giustificava l'esistenza. Sono gli scherzi del corso della storia.

lunedì 9 maggio 2011

Cina e Russia contro l'ingerenza negli affari interni degli stati

Cina e Russia si coalizzano contro la guerra libica. I due paesi si sono astenuti in occasione del voto del consiglio di sicurezza dell'ONU sulla risoluzione 1973, in virtù della loro concezione della politica estera, che prevede la non ingerenza negli affari interni degli stati. Il protrarsi della guerra non collima con le attese dei due paesi, che avevano subordinato la loro astensione, ad una soluzione veloce del conflitto. In realtà i timori dei due stati riguardano il crescente peso politico nel quadro internazionale, che stanno assumendo i volenterosi, ed in particolare la Francia e la Gran Bretagna. Infatti, se questo interventismo negli affari interni di altri stati diventasse una consuetudine, si rischierebbe di stravolgere il sistema delle relazioni diplomatiche. Praticamente creato il precedente, le modalità di applicazione negli affari interni di altro paese potrebbero ripetersi all'infinito, generando ogni qual volta una fattispecie giuridica di diritto internazionale. A parte i dubbi giuridici, le perplessità delle due nazioni sono di carattere politico, perchè potrebbero andare ad intaccare situazioni di loro interesse peculiare. I timori sono giustificati, sopratutto per la Cina a causa dell'espansionismo economico che il colosso di Pechino sta attuando in paesi economicamente poveri, ma ricchi di materie prime. Si tratta di nazioni fortemente instabili, dove la repressione della popolazione è pratica comune, dove esistono, cioè, tutti i presupposti per un intervento basato sulle ragioni per le quali si è intervenuto in Libia. L'instaurazione di una sorta di polizia mondiale, sebbene da regolare con disposizioni ferree, non è evidentemente gradita a regimi dittatoriale o comunque dove la democrazia non è ancora compiuta, perchè potrebbe interferire con attività non propriamente democratiche di governi alleati di partner più potenti, uniti da una sorta di simbiosi reciprocamente vantaggiosa ma senza soddisfare i requisiti basilari dei diritti civili della popolazione.

La Palestina alibi per il terrorismo

Il testamento di Osama Bin Laden dice che gli USA non saranno in pace finchè Gaza non sarà libera. Che l’incompiuta creazione di uno stato palestinese sia la pietra che ostacola l’ingranaggio della pace, non è necessario che lo dica un terrorista, ma è evidente che con la morte di Bin Laden, il problema dell’eversione islamica non finisce, proprio perché, tra le tante ragioni, gli arabi palestinesi non hanno una propria nazione. Gli USA, oltre a praticare la lotta al terrorismo dovrebbero riprendere in mano l’azione diplomatica nel medio oriente e risolvere una volta per tutte il problema. Non che l’amministrazione Obama non abbia a cuore il problema, ma i fronti su cui è occupata si sono moltiplicati, non permettendo l’adeguata focalizzazione del problema. Inoltre l’atteggiamento israeliano si è molto irrigidito, cercando ogni sorta di ragione per ritardare la soluzione del negoziato. Sulle reali intenzioni di Tel Aviv, non pare possibile non nutrire dei seri dubbi, forti del proprio arsenale militare, che gli consente una quasi invincibilità nella regione, gli israeliani non intendono cedere ad accordi sui quali avevano messo precedentemente la firma. Il ruolo degli USA, appare interlocutorio, fedele alleato di Israele, pare assecondarne le mosse, senza condividerle. Ciò costituisce un serio impedimento al negoziato: se la prima nazione del mondo non riesce ad imporre il proprio punto di vista, anche e soprattutto nel proprio interesse, qualcosa non quadra. Non si capisce infatti, il perché manchi l’impulso decisivo da Washington. La creazione dello stato Palestinese toglierebbe l’alibi principale al terrorismo di matrice islamica la distensione nella regione potrebbe favorire a cascata, sviluppi positivi per la strategia americana nella regione. Una delle ragioni per cui Israele non vuole cedere sono i territori occupati dai coloni, che dovrebbero rientrare nel territorio palestinese, ma tale ragione pare non verosimile per bloccare una trattativa così importante. Quello più probabile è che lo stato palestinese al proprio confine possa diventare un pericolo in caso di vittoria elettorale di movimenti con posizioni estremiste, in quest’ottica l’alleanza tra ANP ed Hamas ha ulteriormente rallentato le possibilità di passi avanti..E’ in questa fase che latitano gli USA, che con tutto il loro peso politico e morale, potrebbero fornire finalmente la soluzione all’annoso problema.

sabato 7 maggio 2011

Scendono le materie prime

Le ultime quotazioni delle materie prime, in forte discesa, portano ad interrogarsi sullo stato di salute dell'economia mondiale. L'improvviso abbassamento del prezzo del greggio, tornato ai livelli precedenti alla crisi libica, ha sconcertato gli analisti. La fuga degli investitori appare influenzata dal gran lavoro dell'Arabia Saudita, che ha innalzato il livello della produzione per compensare la mancata produzione libica, sommata all'impegno cinese per frenare il fenomeno inflattivo, che ne sta compromettendo lo sviluppo, sopratutto interno. Tuttavia la forte discesa è apparsa come una sorpresa dato che potrebbe nascondere una futura contrazione elevata della produzione che significherebbe una nuova fase di recessione. Anche perchè non è solo il petrolio ad accusare una discesa dei prezzi: oro, argento, metalli preziosi ma anche cotone e mais. Anche in questi casi appare evidente che l'azione del governo di Pechino, che ha una immensa disponibilità di liquido e ne ha iniettato un grande quantitativo nel sistema, ha generato un raffreddamento inaspettato perchè troppo veloce. In assenza di dati certi sembra evidente che la Cina ha sottovalutato gli effetti della propria misura anti inflazione innescando un processo contrario. Ora si tratterà di vedere se sarà una reazione contingente del sistema, limitata ad un periodo breve, oppure se ci troveremo davanti ad una contrazione costante dei prezzi. In realtà se si è trattato degli effetti di una operazione ad hoc del governo cinese, la discesa dei prezzi dovrebbe fermarsi quasi subito; in caso contrario vorrebbe dire che la responsabilità va oltre Pechino, a questo punto si potrebbe configurare una contrazione per scarsa domanda, il che vorrebbe dire una contrazione della produzione, probabilmente anche per mancati ordinativi. In questo caso le speranze di ripresa sarebbero frustrate.

USA gendarme mondiale

L'eliminazione fisica del capo di Al Qaeda ha costituito un grosso effetto mediatico per gli USA ed il suo presidente, ma dal lato pratico cosa ha significato nella lotta la terrorismo? Ed i suoi effetti saranno positivi, come gli USA hanno sottointeso? L'importanza di Bin Laden pareva ormai essersi ridotta al puro fattore simbolico, un grande totem, che da lontano, costituiva il grande padre del terrore islamico. Ma dal punto di vista operativo, aldila dei videomessaggi di rito, che richiamavano periodicamente alla guerra santa, il suo potere era praticamente nullo, anche per le faide presenti nell'organizzazione terroristica, oltre che per ovvi motivi di opportunità derivanti dalla caccia seguita all'attentato dell'undici settembre. Le reazioni del mondo musulmano più oltranzista lasciano credere che la morte della loro guida spirituale non passerà senza ritorsioni per l'occidente; le minacce sono state prese in considerazione dagli apparati statali che da subito si sono attivati nella tattica preventiva. Era, allora necessaria la morte di Bin Laden, ed era necessario pubblicizzarla in tale maniera? L'esigenza del presidente USA di accreditarsi sul mercato elettorale interno ha di sicuro contato parecchio, ma deve essere stato valutato in maniera molto importante, anche il fatto del prestigio mondiale in funzione di riaffermazione degli USA, come prima potenza mondiale. Sono due fattori legati in modo intrinseco, funzionali al progetto di Obama di continuare la propria opera politica alla guida degli USA, per la rinnovata supremazia mondiale americana. Eliminando Osama Bin Laden dalla scena, gli USA possono riaffermare il loro ruolo di gendarme mondiale in un momento dove la stella americana non riesce troppo a brillare sulla scena internazionale.

giovedì 5 maggio 2011

Pakistan: il non-alleato

Dopo alcuni giorni dalla morte di Bin Laden, la diplomazia occidentale si interroga sul destino del Pakistan, nel quadro della lotta la terrorismo. Come giustamente ha osservato il premier inglese, nonostante i molti dubbi suscitati dall'ambiguo comportamento di Islamabad, abbandonare il paese significherebbe farlo guadagnare alle forze avverse. La vicenda di Bin Laden ha fatto emergere sulla superficie, tutti i dubbi legati alla fedeltà del governo pakistano. In realtà si conosce bene di avere di fronte un paese che comprende visioni differenti ed anche livelli di sovranità diversi a seconda della regione esaminata. Inoltre se si allarga l'analisi oltre il territorio fisico, anche nelle diverse branchie dello stato esiste una pluralità di diversi punti di vista che non consentono una azione omogenea. Certo esistono organizzazioni di cui pretendere il completo smantellamento come i servizi segreti, che sono fortemente sospettati di avere protetto Bin Laden, sul territorio pakistano. La realtà continua ad essere che il governo ha piena sovranità sulla capitale e su poco altro, poi man mano che ci si allontana entrano in gioco una serie di soggetti alternativi, come le organizzazioni tribali, che di volta in volta amministrano la giustizia secondo la loro convenienza o peggio sono, di fatto, alleati alle forze talebane, Questo è più vero più si è vicini, o addirittura entro, quella zona grigia al confine con l'Afghanistan che costituisce il principale rifugio delle forze avvere alla NATO. Il Pakistan costituisce un insieme di tribù ed etnie, che difficilmente possono essere controllate e che rappresentano la struttura portante della società pakistana, almeno quella al di fuori della zona attorno alla capitale. Questo insieme complesso risulta difficile da governare ed addirittura impossibile da incanalare entro lo schema militare pensato dagli USA. Ma il Pakistan è uno stato sovrano, che non si può invadere e ridurre sotto tutela come è successo per l'Afghanistan, quello che finora è mancata è stata una azione convincente della diplomazia che sappia convincere il governo di Islamabad ad accettare un aiuto sul proprio territorio con il fine di poterlo controllare. D'altronde è anche comprensibile l'atteggiamento del governo pakistano che si trova a gestire un territorio difficile, dovendo fare sfoggio continuo di un equilibrismo tattico-politico tra le diverse pressioni. In conclusione con la morte di Bin Laden si è eliminato un nemico ma si è avuta la certezza di avere al fianco un non-alleato.

Il mancato rispetto delle regole e l'esportazione della democrazia, il caso di Bin Laden

Le modalità di azione dell'intervento americano nell'operazione che ha portato alla morte di Bin Laden sono state contraddistinte, nel caso di mancata comunicazione al Pakistan, come è stato detto, da una palese violazione del diritto internazionale. L'azione militare compiuta in territorio straniero, senza autorizzazione, costituisce il mancato rispetto delle prerogative dello stato sovrano. E' pur vero che per gli USA si è trattato di un atto di guerra, nell'ambito di un conflitto globale, dove, in un certo senso, la realtà ha superato la regolamentazione del diritto. Tuttavia ciò che è accaduto crea un precedente pericoloso che soltanto poche voci hanno denunciato. Certamente non si tratta della prima operazione militare che uno stato compie sul territorio di un'altra nazione, ma la dimensione mediatica che ne ha messo in risalto l'importanza simbolica, ha creato, intanto la pubblica ammissione del fatto da parte degli USA e con questa l'elevazione a fatto pubblico. La mancanza di segretezza è stata sacrificata al sentimento di rivalsa americano contro la mente dell'attentato delle torri gemelle, e le scene di giubilo viste negli USA, fanno comprendere, in parte, la scelta di Obama. Ma questa scelta, che ha concesso molto alla sfera emotiva, resta in contrasto con i rapporti giuridici che regolano i rapporti tra gli stati. Il Pakistan, nel caso specifico, non ne esce bene, vede violato il proprio territorio con un'azione successivamente troppo pubblicizzata, quindi diventa vittima e per di più dileggiata agli occhi del mondo intero. Quello che si imputa agli USA è la mancata segretezza che è la prima regola in queste situazioni. Ciò offre il fianco a diversi motivi di critica, anche collegati al più volte dichiarato obiettivo americano di esportare la democrazia nel mondo. Dopo le rivelazioni di Wikileaks, che se vere confermerebbero pratiche terribili all'interno del carcere di Guantanamo, la vicenda della morte di Bin Laden, può essere letta come uno strumento poco ortodosso per portare il sentimento democratico nelle nazioni oppresse. Se le ragioni operative si scontrano con le norme giuridiche, queste situazioni, oltre ad essere ridotte al minimo, non devono godere di pubblicità. Il contrasto tra esportazione di regole certe e mancato rispetto delle stesse appare stridente e può rendere poco credibile l'azione americana.

In Sudamerica nascono il CELAC e l'AIP

Il centro e sud america cerca di essere protagonista del proprio destino varando nuovi soggetti internazionali, mediante accordi ed unioni tra stati. Si tratta di un'esigenza che nasce dalla consapevolezza di potere recitare un ruolo non più subalterno nel teatro internazionale. La ricchezza di materie prime ed il rinnovato indirizzo verso forme compiute di democrazia giunte con la trasformazione, seppur graduale, della società ha determinato la necessità di ricercare forme di aggregazione tra le nazioni della regione, che possano permettere uno sviluppo, sopratutto economico, ma anche politico, che consenta una ricaduta positiva anche sui cittadini. Quindi trenta paesi dell'area latinoamericana si sono riuniti a Caracas per la costituzione della CELAC, Comunità degli stati latinoamericani e caraibici. Uno dei principali scopi della nascente organizzazione è quello di arginare l'influenza americana e di essere alternativa all'organizzazione deglistati americani, l'OSA. L'assunto di fondo della nascita del CELAC è la promozione dell'integrazione regionale per favorire lo sviluppo sostenibile nella regione. Le regole di funzionamento della nascente organizzazione saranno improntate a norme democratiche e ciò rappresenta un indirizzo significativo in una regione, che in un passato recente, è stata governata da dittature, sopratutto militari. Ma il CELAC non è l'unico nuovo soggetto internazionale di nuova fondazione nell'area sudamericana, infatti a Lima viene celebrata la nascita dell'AIP, Accordo del pacifico o anche accordo di integrazione profonda, che ha come membri Perù, Colombia, Messico e Cile. Gli obiettivi dell'AIP saranno orientati verso lo sviluppo economico e commerciale ed avranno gli USA come interlocutore principale per rafforzare sia la parte economica ma anche per la persecuzione del crimine dell'area ed in particolare il narcotraffico ed il riciclaggio del denaro. Secondo alcuni analisti l'AIP dovrebbe competere con il Mercosur sul piano commerciale ma il dato più rilevante, confermato il privilegio dei rapporti con gli USA, sarà quello politico: infatti proprio il criterio di favorire Washington come interlocutore principale viene visto come argine americano al tentativo dei paesi del continente di sganciarsi dalla sfera di influenza USA.

mercoledì 4 maggio 2011

USA-Pakistan: alleanza al tramonto?

La morte di Bin Laden ha essenzialmente un valore simbolico, sul lato pratico non si avranno ripercussioni, se non dal punto di vista mediatico, come lo sviluppo di questi giorni sta dimostrando. Più importanti sono le implicazioni che stanno dietro all'operazione e le riflessioni sulle ricadute di politica estera. Occorre partire dal ruolo del Pakistan nella vicenda. Islamabad appare sempre più distante dall'alleanza con gli USA, l'azione contro Bin Laden dimostra, se era necessario dimostrarlo, che il Pakistan non è ritenuto un alleato affidabile nella lotta al terrorismo. Eseguire un'azione militare in territorio straniero, senza avvisare le autorità di quello stato, che dovrebbe essere un alleato, costituisce la più incontrovertibile delle prove, della considerazione e dell'affidabilità di cui gode. Il Pakistan ha avuto una politica ondeggiante con i talebani, che continuano ad essere stabilizzati sul territorio di Islamabad al confine con l'Afghanistan. Tuttavia ora sta emergendo un nuovo elemento che allontana ulteriormente il paese asiatico da Washington. L'espansione economica cinese ha da tempo individuato nel Pakistan un partner di grande potenzialità, che, a sua volta, ha cercato, su mandato cinese, di coinvolgere l'Afghanistan nella sfera di influenza di Pechino. L'Afghanistan possiede una delle miniere di rame più estese del mondo, materiale sempre più essenziale nell'industria. Kabul pare abbia declinato l'offerta, preferendo Karzai, rimanere fedele alleato americano, ma questo era scontato; non scontata la manovra pakistana che mira a sganciarsi dalla sfera americana per abbracciare l'universo cinese. Ma dietro a questa direzione intrapresa da Islamabad sta ancora un'altro attore, avversario della Cina nella corsa all'espansione economica: l'India. Tradizionale nemico del Pakistan per motivi di confini, l'India è una delle principali economie emergenti e come tale ha grande necessità di materie prime, per le quali si trova spesso in competizione con gli appetiti cinesi. Quello che emerge è un doppio confronto che si sta delineando attorno al paese afghano: da una parte USA ed India, dall'altra Cina e Pakistan. Lo scacchiere che si presenta ha delle variabili di difficile sviluppo: come conciliare infatti l'alleanza tra USA e Pakistan in un tale contesto? Se si interrompesse la pur fragile alleanza che sviluppi comporterebbe in relazione alle basi talebane presenti al confine tra Afghanistan e Pakistan. Quello che potrebbe nascere sarebbe un confronto tale da generare una totale revisione della exit strategy americana dall'Afghanistan.

martedì 3 maggio 2011

Il futuro di Al Qaeda

Quale futuro ora per Al Qaeda? La morte di Bin Laden ha solo un valore simbolico, ma la dice lunga sulla difficolta’ dell’organizzazione nel ritagliarsi un proprio spazio che vada aldila’ della pura eversione estremista. Per la verita’ il successo di Al Qaeda ha dimostrato di incrinarsi gia’ durante i primi vagiti delle rivoluzioni arabe, il tentativo di inserirsi nel fulcro delle ribellioni e’ miseramente fallito per palese differenza di opinioni e di obiettivi delle masse in lotta per i diritti civili, anziche’ per l’affermazione delle leggi islamiche. Ingessata nel proprio schema antioccidentale e puramente islamico, Al Qaeda, non ha saputo interpretare in anticipo la direzione ed i voleri delle masse, denunciando una rigidita’ cher potrebbe comprometterne definitivamente l’esistenza. E’ pur vero che quel momento e’ ancora lontano per la presenza costante di uno zoccolo duro che si richiama ai principi piu’ integrali dell’islamismo, ma il potere di contagio dei mezzi di informazione ha abbondantemente scalfito quelle posizioni e quei sentimenti. Per tutte le organizzazioni terroristiche e per la creatura di Bin Laden, in particolare, la primavera araba costituisce una delle piu’ nefaste evenienze che potevano accadere, perche’ limita, con evidenza lampante, lo spazio di manovra che possa permettere la presa sulla popolazione, che e’, in definitiva cio’ che ne determina il successo. Senza sostrato e sostegno popolare, non pare possibile come le organizzazioni eversive di matrice islamica possano ancora operare su grande scala. Avendo puntato fin dall’inizio sul consenso generale, ora per Al Qaeda manca il terreno sotto i piedi e quello che deve spaventare sara’ come si riconvertira’ l’organizzazione sopratutto sul piano operativo. Le sue roccaforti si sono ridotte, la zona al confine tra Pakistan ed Afghanistan, lo Yemen e le zone deseriche occidentali appena sotto la fascia mediterranea, restano gli avamposti dove l’organizzazione gode ancora di vasta popolarita’, vi e’ poi l’appoggio iraniano, che usa Al Qaeda come propria testa di ponte secondo il proprio bisogno; oltre poco altro. Ma questo restringimento della manovra imporra’ scelte drastiche: per recupperare visibilita’ in maniera veloce e poco costosa potrebbe optare per attentati in serie ad obiettivi di medio calibro mediante kamikaze singoli, in modo di tenere sotto pressione il nemico occidentale, ma sarebbe comunque un ripiego se confrontato ai grnadi attentati dei primi anni duemila. La morte di Bin Laden arriva quindi in un momento di flessione della curva qaeddista e cio’ e’ sicuramente un simbolo della sua decadenza, ma questo non deve fare abbassare la guardia: l’animale ferito solitamente e’ piu’ pericoloso.

lunedì 2 maggio 2011

Gheddafi al bivio

I recenti appelli di Gheddafi alla trattativa, sia alla NATO che ai ribelli, sono caduti nel vuoto. Così come le minacce all'Italia, sono parse l'ultimo patetico tentativo di fare una qualche impressione. La posizione del rais si aggrava sempre di più, i missili dei volenterosi arrivano sempre più vicino, ma per il momento Gheddafi non sembra volere abbIandonare il campo, anche se pare avere dato corso a tutte le risorse possibili per ribaltare con l'esito del conflitto anche il proprio. Una trattativa con i ribelli non è più possibile: il conflitto è andato troppo avanti per le forze opposte a Tripoli, e dare una chance simile a Gheddafi significherebbe, almeno, accreditarlo ancora come detentore legittimo del potere. I ribelli puntano invece alla completa delegittimazione del rais, sopratutto per evitare che una parte della Libia, la Tripolitania, resti sotto il suo potere e costituisca in futuro la base dalla quale ripartire alla conquista dei territori staccatisi dallo stato originario. Appare evidente che per Gheddafi la permanenza a Tripoli non è più possibile, le strade sono solo due o l'eliminazione fisica o l'esilio. Fino a questo momento il colonnello ha cercato di prendere tempo, sperando in un evento che potesse rovesciare le sorti del conflitto, impantanato in una sorta di stasi per l'equilibrio delle forze. La NATO, invece, ha necessità di sbloccare la situazione per concludere nel minor tempo possibile il conflitto. Questa ragione spiega l'intensificazione degli attacchi aerei con la partecipazione anche di nuovi stati membri. Militarmente l'esercito regolare può contare ancora sulla supremazia di terra, in virtù di uomini meglio addestrati ed armati, ma che operano senza l'appoggio dell'arma aerea, completamente debellata, e con l'artiglieria ormai ridotta. Ma gli attacchi incessanti dei volenterosi, che possono colpire indisturbati, non paiono dare chence a Tripoli e tutto si riduce sulla durata del conflitto. In questo lasso di tempo Gheddafi andrà incontro al proprio destino, che potrebbe essere di esiliato di lusso, se si deciderà a partire verso uno degli stati africani, che ha lautamente finanziato, oppure se, nella migliore delle ipotesi, si vedrà contestare dal tribunale dell'Aja diversi capi di imputazione.

Obama più forte senza Bin Laden

La morte di Osama Bin Laden, se sarà confermata dalla presenza del cadavere, pone una pietra tombale sull'attentato dell'undici settembre. I toni trionfalistici di Obama riconciliano gli USA con se stessi e vendicano la ferita più profonda dell'immaginario collettivo americano. Il colpo avrà un'impatto tremendo sul morale degli avversari talebani, che perdono il loro capo carismatico, e mette un'ipoteca sulla rielezione del presidente americano per il suo secondo mandato. Le implicazioni di questo risultato impongono, però un'analisi più approfondita delle ripercussioni che si svilupperanno nei teatri internazionali. Lo scenario con maggiori ricadute sarà senz'altro l'Afghanistan, dove le forze contrarie alla coalizione della NATO, dovrebbero accusare il colpo soltanto dal punto di vista emotivo, l'organizzazione talebana è comunque radicata e militarmente preparata per reggere l'urto della morte del proprio capo carismatico, tuttavia se l'alleanza riuscirà a sferrare colpi ben assestati in tempi immediatamente brevi potrebbe dare la spallata decisiva e riconquistare le zone più ostiche. Nel mondo musulmano più radicale l'evento sarà sicuramente vissuto come l'ennesima ingiustizia americana, ciò potrebbe determinare anche casi di attentatori isolati, l'eventualità è oltremodo peridolosa giacchè quello che si può verificare potrebbe sfuggire al controllo delle stesse organizzazioni terroristiche. Dal punto di vista dell'organizzazione Al Qaeda, la morte di Bin Laden non pare influire sul funzionamento dell'organizzazione, che ha ormai raggiunto un livello talmente avanzato di ramificazione e differenziazione territoriale da essere ormai indipendente dal suo ideatore, che tra l'altro, aveva ormai una valenza più di simbolo che di effettiva direzione. Bin Laden sopravviverà come simbolo nella lotta contro gli americani ed i "crociati" in generale, ma la sua morte rappresenta un indubbio successo della strategia di Obama nella lotta al terrore, quello che muore è il simbolo stesso del terrorismo antioccidentale e rappresenta un peso non indifferente da mettere sul piatto del prestigio internazionale e della validità dei metodi usati. Per la politica di Obama un trionfo, che i rivali repubblicani difficilmente potranno contrastare, che apre le porte alla strada della rielezione.