Politica Internazionale

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mercoledì 31 agosto 2011

La politica deve riprendere il controllo sull'economia e la finanza

Il problema finanziario che sta angustiando gli stati occidentali è una chiara distorsione che affligge il sistema di governo della democrazia. L'allentamento dei controlli legali, in favore di una supposta libera applicazione del libero mercato ha generato dei guasti ai sistemi economici democratici, da cui si potrà uscire solo con fatica. L'affermazione del convincimento dell'abolizione, pressochè totale, dei cosidetti lacci e lacciuoli imposti dai governi, anzichè favorire la diffusione del benessere, ha accresciuto i costi sociali caricandoli sulle fasce meno ricche della popolazione. Il credo liberista è stato scavalcato alla sua destra dalla speculazione estrema, che si è avvalsa e di congiunture politico economiche, in sintesi la globalizzazione con tutti gli annessi e connessi, e dello sviluppo di strumenti che hanno permesso il costante controllo dei dati con spesa irrisoria, la rete. Di fronte a questi sviluppi il tempo di reazione degli organismi politici è stato sempre almeno un passo indietro alla situazione del momento; ciò non ha mai permesso una adeguata risposta per tamponare i fenomeni di crisi. SIamo cioè davanti ad istituzioni pensate e costruite quando la globalizzazione ed internet non erano nemmeno immaginabili, la finanza, pur con tutti i difetti e le violazioni alle leggi, era irregimentata entro binari sicuri, che non permettevano disastri come quelli odierni. Quello a cui si assiste è, inconfutabilmente, la sconfitta dell'impalcatura democratica di fronte ad una legge del mercato fortemente distorta. Non che non ci siano state le avvisaglie che potevano mettere un qualche freno allo sviluppo di questa economia esclusivamente di tipo finanziario, ma le scelte dei governi hanno privilegiato queste pratiche perchè all'inizio andavano a coprire anche le loro falle. ll forte indebitamento degli stati scelto come pratica economica, giunto alla forte speculazione finanziaria, hanno creato il dissesto che attanaglia il mondo in questi giorni. Da qui la necessità di creare strumenti, anche sovranazionali, che mettano la politica davanti alla finanza e sappiano dare la giusta importanza all'economia reale, mettendo dei blocchi, non solo legali, ma di natura fiscale in grado di scoraggiare l'uso della finanza per riconvertire i beni disponibili verso l'economia produttiva e tangibile. Anni di cultura improntata al facile guadagno hanno contribuito a sviluppare evidenti falle nei sistemi politici, che hanno favorito, non controllandola, la pratica finaziaria speculativa come massimo valore del neoliberismo senza freni e controlli. Ora questo tempo è finito per la mancanza di liquidità, ma nonostante il fallimento sia chiaro e davanti a tutti, gli stati stentano a darsi una riorganizzazione che metta il futuro al riparo. Occorre vincolare i dati di bilancio non solo degli stati, ma anche delle società e sopratutto degli istituti di credito, che tanto danno hanno arrecato al sistema. Ma ciò non deve avvenire per autoregolamentazione del mercato, come asseriscono ancora i liberisti, ma per interventi massicci di regolazione da parte degli stati e delle istituzioni sovrastatali, che sovraintendono la regolazione del sistema finaziario. Quella che si deve sviluppare è una cooperazione intensa anche tra gli stati per frenare il fenomeno speculativo, mettendo fuori dal consesso internazionale che non aderisce, solo così si eviteranno migrazioni di capitali verso paesi con legislazioni meno rigide. Ancora una volta la soluzione passa per un governo di collaborazione che oltrepassi le frontiere fisiche degli stati.

Gli assetti diplomatici della nuova Libia

Il comportamento dell'Algeria, che prima non ha riconosciuto i ribelli del CNT come rappresentanti ufficiali del popolo libico e che poi ha dato rifugio alla famiglia di Gheddafi, è l'esempio più limpido di come i paesi africani nutrano ancora una riverenza verso il rais, nonostante sia ormai chiara la sua caduta in disgrazia. Mentre il mondo occidentale ha quasi da subito, sebbene con tempi e modi diversi, riconosciuto l'autorità dei ribelli, accodandosi alla coalizione dei volenterosi, l'Africa ha subito mantenuto un certo distacco dalle posizioni contro il regime di Tripoli. L'isolamento in cui il regime di Gheddafi aveva gettato il paese, ha obbligato il colonnello a cercare altri sbocchi diplomatici, per cercare una rete di collaborazione internazionale. Con la sua ricchezza la Libia è stata il principale finanziatore della Lega Africana, alla quale corrispondeva, da sola, circa il quindici per cento dei contributi totali; inoltre ha salvato dalla bancarotta diversi stati africani, tra i quali il Mali, ed ha finanziato diverse infrastrutture nel continente africano. Per gli africani Gheddafi è stato sempre visto come un benefattore ed uno dei pochi politici del continente a riuscire ad imporsi al colonialismo occidentale. Nell'immaginario africano il colonnello incarnava la riuscita dell'affrancamento dai regimi coloniali e l'uso autonomo delle risorse del popolo proprietario. Tale raffigurazione è stata una abile manovra di marketing politico del colonnello, gestita con ingenti capitali. Così si spiega la lentezza ed anche la miopia con cui il continente africano reagisce al cambiamento di potere in corso a Tripoli. La reazione dei ribelli alla concessione dell'asilo ai familiari di Gheddafi è stata di sdegno e la partenza dei rapporti diplomatici con il vicino algerino non è quindi segnata in maniera positiva. Gli stessi ribelli hanno confermato che i rapporti diplomatici saranno positivi, innazitutto, con i paesi della coalizione dei volenterosi e poi con tutte quelle nazioni che hanno formalmente riconosciuto il CNT come legittimo rappresentante del popolo libico. In una situazione non proprio positiva vi sono anche Cina e Russia, restie ad appoggiare, in sede ONU, i ribelli libici, per loro dovrebbero esserci grossi problemi per accedere alle forniture di petrolio libico. La ricostruzione della Libia parte, quindi, anche dai rapporti diplomatici, che all'inizio si baseranno sull'aiuto ricevuto dal CNT.

lunedì 29 agosto 2011

Quello che l'ONU troverà in Libia

L'ONU, come ha affermato il segretario generale Ban Ki Moon, dovrebbe approntare una missione umanitaria in Libia, dove la situazione sta diventando sempre più grave per la popolazione. I beni alimentari stanno scarseggiando ed esistono grossi problemi per l'approvigionamento idrico ed energetico. Le reti di telecomunicazioni sono profondamente danneggiate e la situazione degli ospedali è tragica perchè oltre a mancare i medicinali, mancano anche i medici fuggiti, perchè la guerra non ha risparmiato neppure i luoghi di cura. Mentre la guerra dovrebbe essere alle ultime battute, si pensa, oltre che alle emergenze anche alla ricostruzione del paese. Con una popolazione di circa sei milioni di persone e con grandi risorse energetiche e paesaggistiche a disposizione, la Libia possiede le condizioni per garantire ai suoi abitanti un benessere diffuso. Dovranno essere create le condizioni politiche in maniera da dotare il paese di un apparato democratico, basato sulla garanzia della legge. In questo senso le domande non forniscono ancora risposte sicure, i ribelli sono un aggregato di diverse tendenze, tenuti insieme dall'avversione a Gheddafi. Inoltre pezzi consistenti del vecchio apparato continuano a staccarsi dai lealisti per salire sul carro dei vincitori. Sul piano religioso, gli integralisti islamici libici non sono mai stati a favore della Jiahd totale, quanto di una Jiahd nazionale, motivo per il quale hanno avuto contrasti anche con Al Qaeda, sono presenti anche i Fratelli Musulmani, che godono di una organizzazione molto strutturata. Nella rivoluzione libica più che una immediata richiesta di democrazia, come avvenuto in Tunisia ed Egitto, la ragione principale è stata il rovesciamento della dittatura, divenuta sempre più oppressiva, di Gheddafi. Certamente il passo verso la democrazia sarà quello successivo, ma finchè non sarà finito il fattore aggregante, sarà difficile fare una disanima delle forze in campo. Il paese è stato schiacciato da una dittatura che si apprestava a festeggiare il suo quarantatresimo anniversario, non ha una struttura politica ed anche socialmente l'unica forma presente è l'organizzazione tribale. L'ONU, oltre agli aiuti materiali, dovrà anche fornire un aiuto concreto sul piano della democratizzazione del paese, troppo arretrato su questo piano. Viceversa potrebbe esserci spazio per altri dittatori singoli o collegiali.

Il dibattito per il riconoscimento della Palestina sempre più vicino

Mentre si avvicina l'appuntamento per la discussione sul riconoscimento della Palestina all'ONU, fervono le trattative diplomatiche da ambo le parti, per guadagnare consensi alla propria causa. Israele, che teme fortemente un risultato positivo per i palestinesi, medita addirittura di disertare l'assemblea delle Nazioni Unite. Secondo calcoli di alcuni osservatori i paesi faverevoli alla Palestina sarebbero tra i 130 ed i 140, i dirigenti palestinesi stanno cercando anche l'assenso della UE, che, per altro, risulta al centro delle trattative anche da parte degli israeliani. Per Tel Aviv, l'eventuale riconoscimento porterebbe a tutta una serie di conseguenze negative sopratutto sul piano della strategia che il governo israeliano in carica sta attuando: dagli attacchi militari alla striscia di Gaza e Cisgiordania fino agli insediamenti dei coloni. In questo momento i territori palestinesi non hanno la dignità di stato e Israele gioca sul filo della legittimità della propria azione nei confronti del diritto internazionale, il riconoscimento muterebbe lo status della Palestina che potrebbe appellarsi alla stessa ONU in caso di essere oggetto di azioni militari entro i propri confini riconosciuti. Israele ha bisogno ancora di tempo per sistemare la questione dei territori affidati ai coloni in territorio palestinese, dal punto di vista della politica interna Benjamin Netanyahu è pressato dagli ultraortodossi, che costituiscono una stampella al suo governo, ma anche dal fronte pacifista che spinge per la ripresa dei negoziati di pace. La visione del governo israeliano in carica mira a guadagnare la massima porzione territoriale possibile ed il riconoscimento palestinese rappresenta un freno non da poco nei piani di Tel Aviv. Israele non seguito una vera e propria tattica per impedire il riconoscimento della Palestina, se non emettere vaticinii allarmanti sul terrorismo e sulla ricaduta internazionale di questo riconoscimento. All'opposto il comportamento di Abu Mazen, che ha mantenuto un basso profilo lavorando sotto traccia per il riconoscimento, che se ci sarà, rappresenterà, in gran parte un suo trionfo.

venerdì 26 agosto 2011

La dubbia leggitimità dell'uso della delibera ONU sull'intervento in Libia

Con l'approssimarsi della fine della guerra libica partono le domande sul reale rispetto delle risoluzione ONU, sull'intervento libico, che prevedeva solamente l'uso della forza per la sola difesa dei civili. In effetti non è andata così, l'uso sempre maggiore della forza aerea è stato integrato dai rifornimenti di armi ed apparati teconologici, istruzione degli insorti ed infine impiego di truppe straniere sul terreno libico. L'appoggio, quindi è stato pressochè totale, con uno sforzo logistico non indifferente anche sul piano economico. La certezza è che la protezione legale, sul piano del diritto internazionale, che forniva la risoluzione ONU, sia stata violata e che la stessa risoluzione sia stata usata come copertura per rovesciare il regime di Gheddafi. Non si vuole qui giudicare se la fine del governo del rais, ingiusto e sanguinario, sia stata giusta o meno, ma fare delle considerazioni sull'uso della risoluzione ONU che ne ha consentito l'annientamento. Gli attori principali sono stati Francia, Regno Unito ed in maniera più defilata ma non meno attiva, gli Stati Uniti. L'interpretazione più restrittiva della risoluzione dava alle forze armate, il cui impiego previsto riguardava ufficialmente la sola forza aerea, il compito di proteggere la popolazione civile in una sorta di neutralità tra i due contendenti. Non è stato così, come dimostrato dagli ultimi avvenimenti, anche volendo estendere l'interpretazione della risoluzione a termini più ampi, l'intervento armato dei volenterosi si è trasformato da subito in una alleanza con i rivoltosi. Ancora una volta si ripete che la caduta di Gheddafi rappresenta un fatto positivo, tuttavia Francia, Gran Bretagna, USA e gli altri stati che hanno partecipato alle azioni, nel quadro del diritto internazionale hanno compiuto una violazione, che non sarebbe stata tale se avessero dichiarato guerra formalmente al regime di Tripoli. Politicamente si obietterà che non era il caso di andare tanto per il sottile, ma la violazione della risoluzione ONU, per prima cosa rappresenta un pesante precedente, perchè non pare verosimile l'ipotesi di una qualche sanzione, anche solo in forma di ammonimento, ed in secondo luogo inficia l'autorità stessa delle Nazioni Unite. Ora questa è l'ennesima prova della necessità di una riforma strutturale dell'ONU, che preveda un sistema di pesi e contrappesi e che preveda, sopratutto la creazione di strumenti atti a garantirne l'effettiva autonomia. Solo in questi termini le Nazioni Unite possono finalmente assurgere al ruolo per cui sono nate. Dal punto di vista politico questa questione porrà senz'altro delle questioni, in special modo tra i componenti del Consiglio di sicurezza, dove l'astensione di Cina e Russia, ottenuta in maniera poco convinta, ha permesso la delibera sull'intervento in Libia. La questione di legittimità, non di opportunità, sulla quale non vi era comunque accordo, non potrà non essere sollevata e sarà interessante vedere come sarà risolta. Fortunatamente sarà impossibile per Gheddafi tornare al suo posto, ma in teoria, il diritto internazionale potrebbe tutelare il dittatore. Questo buco legale è da imputare alla coalizione dei volenterosi, che si è nascosta dietro alla risoluzione determinando la vittoria della parte avversa al colonnello in maniera non chiara. Il fatto di non dichiarare esplicitamente il proprio intento ne ha chiarito in modo ancora più limpido l'intenzione: la caduta di Gheddafi. Ma ha anche messo in risalto la debolezza dell'apparato del diritto internazionale ed in special modo delle organizzazioni internazionali.



L'investimeno cinese negli armamenti desta preoccupazione

La crescita militare cinese spaventa gli USA. Nel rapporto annuale del Pentagono si guarda con preoccupazione allo sviluppo che lo stato cinese sta dedicando alle proprie forze armate, con uno sforzo economico ingente. La Cina conscia del gap che la separa dalle forze armate di USA e Russia, sta compiendo passi da gigante sul piano tecnologico, modernizzando l'intero panorama della difesa, che, contando già sull'esercito più grande del mondo, deve portarlo a livelli più avanzati al pari delle dotazioni che sono negli arsenali delle forze armate più importanti. Il crescente peso economico della Cina ha, di fatto, variato le prospettive geo-politiche ed i conseguenti equilibri. Si guarda con preoccupazione agli investimenti militari cinesi sopratutto nella regione, dove la tensione è sempre palpabile per le dispute con il Giappone, la questione coreana, Taiwan e le contese territoriali con il Viet Nam. Come si può capire c'è più di elemento di possibile sviluppo di un qualche confronto che può trascendere a vie di fatto. Inoltre il mare di fronte alla Cina è una via commerciale molto trafficata e la prospettiva di una sua militarizzazione spaventa per gli impatti che può avere sull'economia. La Cina rigetta tutti questi timori contrattaccando e denunciando la relazione del Pentagono come una ingerenza indebita nei propri affari interni e presentando l'ammodernamento delle proprie forze armate come una normale prassi praticata in tutti gli eserciti del mondo. E' difficile obiettare qualcosa alle ragioni cinesi, tuttavia è anche condivisibile la preoccupazione americana per i crescenti investimenti in tecnologie militari praticati da Pechino. La Cina mira ad essere sempre più la grande potenza alternativa agli Stati Uniti, in virtù della enorme liquidità di cui dispone ed anche del know-how, che ha saputo sviluppare, grazie alla concentrazione di gran parte dell'industria elettronica mondiale, sta dimostrando di avere intrapreso con sicurezza questa strada, che passa, giocoforza, attraverso lo sviluppo del proprio arsenale. Ma una Cina con una forza armata molto forte può spaventare ed alterare gli equilibri mondiali? Il fatto che dietro a tanta potenza non ci sia una democrazia, ma una dittatura, non può che mettere in allarme l'occidente, d'altro canto le politiche particolarmente aggressive che la Repubblica Popolare Cinese sta portando avanti da tempo in campo economico, con vere e proprie colonizzazioni di paesi poveri ma ricchi di risorse, denunciano intenti non propriamente pacifici. Se si aggiunge la grave congiuntura economica, non si può non prevedere che le condizioni per un cambio dell'ordine mondiale non possano essere che mature. La Cina ha già dimostrato di sapere piegare al suo volere gli USA, grazie al grande investimento nel debito americano, tanto da fare dichiare al vice presidente Biden che per gli Stati Uniti la territorialità di Pechino è una, con buona pace di Tibet e Taiwan. Inoltre l'atteggiamento cinese verso i diritti umani non è cambiato, continuando a perseverare sulla linea delle repressioni. Quindi investimenti militari così massicci devono destare una preoccupazione ben ponderata e dare vita a trattative, sul piano internazionale, che favoriscano i piani di disarmo a livello mondiale; viceversa le premesse, da perte di Pechino, non sono affatto buone.



giovedì 25 agosto 2011

La Cina rivendica le giapponesi isole Senkaku

Due navi cinesi, ufficialmente pescherecci, sono penetrate nelle acque territoriali giapponesi, nel tratto di mare vicino alle isole Senkaku. La questione di queste isole, poste nel Mar Cinese Orientale, ritorna periodicamente alla ribalta; la Cina le rivendica per la vicinanza e per tale ragione le ritiene facenti parte del proprio territorio. Le isole Senkaku, anche se disabitate, sommano alla già abbondante pescosità del proprio mare, la presenza di giacimenti petroliferi, scoperti negli anni settanta del secolo scorso. Da questo momento si è determinata la riapertura della contesa, cui partecipa, per altro, anche Taiwan, rivendicando le isole come propria sovranità, perchè, effettivamente, sono solo a sette chilometri dal nord est del paese. In realtà il corso storico della vicenda partì nel 1895, con l'occupazione nipponica delle isole, precedentemente cinesi; con la sconfitta della seconda guerra mondiale le Senkaku entrarono a fare parte dell'amministrazione USA, che le restituì al celeste impero nel 1971. L'ultima volta che navi cinesi penetrarono nelle acque delle Senkaku fu il 2008; come allora anche oggi l'ambasciatore cinese è stato convocato dal governo giapponese, ma la versione cinese resta sempre la stessa: le isole fanno parte di Pechino. Tra Cina e Giappone le relazioni sono sempre tese, per ragioni storiche, ma ora, sempre più per ragioni economiche, inoltre la Cina è l'unico alleato della Corea del Nord, la cui propensione per gli armamenti nucleari preoccupa molto Tokyo. Il pericolo di una escalation, per lo meno diplomatica, della tensione tra le due capitali orientali costituisce fonte di preoccupazione per l'equilibrio regionale, già messo in pericolo dal confronto tra le due Coree. Le ripercussioni di una eventuale crisi tra Cina e Giappone potrebbero poi coinvolgere tutti i paesi dell'area facendo risaltare le tensioni già presenti. Dirimere la questione sarebbe comunque difficile, negli anni 70, quando il governo USA cedette al Giappone le isole, la Cina non rivendicò il territorio, perchè aveva bisogno della distensione con gli Stati Uniti, soltanto diversi anni dopo Pechino iniziò a rivendicarle, ma difficilmente il diritto internazionale può dare ragione ai cinesi. Soltanto una variazione delle intenzioni giapponesi, che non è da aspettarsi, potrebbe favorire la Cina. La speranza è che la situazione non degeneri con atti contrari alla pacifica convivenza tra i due stati.

Hamas non è l'attuale nemico di Israele

La situazione in Israele continua ad essere in bilico, la tensione è sempre palpabile e non riesce a sbloccarsi. La causa dell'incertezza è dovuta alla serie di botta e risposta armati, tra esercito della stella di David e terroristi. Questa causa è però dovuta al fatto che Israele ritiene responsabile Hamas di tutto quello che proviene dalla striscia di Gaza, incluso razzi ed attentati. Hamas, per contro si è dichiarato più volte estraneo agli attentati di cui recentemente Israele è stato vittima. La politica di Hamas è sempre stata quella di rivendicare gli attentati, non si vede la ragione per cui, in una fase di tregua e con in ballo la questione del riconscimento della Palestina all'ONU, debba fare cambiare strategia. Del resto è Israele stesso che dichiara di ritenere Hamas responsabile di quello che proviene da Gaza, quindi non lo ritiene ne il mandante ne l'esecutore degli attentati. Israele fa una equazione terrorismo uguale Hamas, interpretandola, però in maniera più estesa: ritenendo colpevole Hamas di non riuscire a controllare tutta l'attività che si svolge a Gaza. Ora questo è evidente, è lampante, cioè, che Hamas abbia perso il pieno controllo della striscia, sopratutto da quando la frontiera con l'Egitto è aperta ed i flussi di persone e di materiale non avvengono più attraverso i tunnel sotterranei, che permettevano un controllo più rigido. Per Hamas quella che sembrava una benedizione, l'apertura della parte egiziana della frontiera, si sta trasformando in un boomerang pericoloso. Ciò avviene anche per l'ottusità del governo israeliano, impegnato costantemente a ribadire al suo popolo, l'applicazione indiscriminata della legge del taglione, anche contro il bersaglio sbagliato. Questo non fa che alzare la tensione e potrebbe veramente scatenare la reazione di Hamas, che va detto, per il momento è riuscito a tenere i nervi abbastanza saldi. Anzichè cercare una collaborazione con il nemico storico inquadrato in Hamas, per capire da dove vengono gli attentatori, Tel Aviv preferisce esasperare la situazione, mettendo in una situazione di pericolo costante la propria cittadinanza. Quello che offusca la vista al governo di Israele è l'avvicinarsi della data fatidica della battaglia diplomatica per il riconoscimento della Palestina, mai una tale offensiva pacifica ha spiazzato un governo israeliano. Il timore che il mondo riconosca la stato palestinese come dato di fatto, ha determinato un sempre maggiore isolamento dello stato israeliano. La mancanza di sapere affrontare in modo fattivo e positivo la questione sta paralizzando le mosse del governo di Tel Aviv, che pare agire come un pugile suonato, che mena colpi quasi a casaccio. Per Hamas, comunque, la questione deve essere risolta il prima possibile: non permettere di nuocere ad infiltrati provenienti da fuori, è la necessità primaria del momento e l'unico modo per ristabilire la situazione di tregua precedente, che è la condizione necessaria per affrontare il momento del dibattito all'ONU.

mercoledì 24 agosto 2011

La ricostruzione della Libia passa per l'ONU e la NATO

La NATO cerca di ritagliarsi un ruolo all'interno della ricostruzione della Libia. Pur non avendo schierato truppe di terra, l'azione aerea dell'alleanza atlantica è stata un fattore importante per portare alla vittoria i ribelli anti Gheddafi. Il nuovo governo non potrà esimersi dall'affidare un qualche incarico alla NATO, che mira ad inserirsi nella transizione libica per evitare pericolose infiltrazioni di elementi facenti parte dell'estremismo religioso. La Libia è ritenuta strategica dall'alleanza atlantica per presidiare la sponda sud del Mediterraneo, in ottica di prevenzione del terrorismo. Usata spesso come ponte per i profughi, dalla Libia sono transitati e possono transitare elementi, che sono potenzialmente arruolabili in formazioni terroristiche con base in Europa. Tuttavia il ruolo della NATO dovrà essere non di primo piano, per non compromettere l'immagine del nuovo governo, come troppo filo occidentale. L'idea è di operare sotto l'egida dell'ONU, che cercherà sicuramente di vigilare sul delicato processo di transizione, che non si presenta facile. Quando finalmente saranno spenti i fuochi della guerra, non sarà facile raggiungere accordi soddisfacenti per tutte le variegate componenti del mondo che si è ribellato a Gheddafi. La Libia è una società tribale molto frammentata, con antagonismi anche forti tra i vari clan, ai quali vanno sommati i risentimenti di anni verso quelle tribù che hanno materilamente appoggiato Gheddafi, traendone grossi vantaggi a scapito delle tribù più avverse la dittatore. Si tratta anche di riequilibrare l'equilibrio tra le città del paese con Tripoli che dovrà cedere parte della sua importanza a vantaggio di città come Misurata, in prima fila nella guerra. Proprio per questa società frammentata, non governata più dal pugno di ferro di Gheddafi, sarà necessaria, almeno nei momenti immediatamente successivi alla fine certa del conflitto, una forza armata di interposizione che eviti pericolosi contrasti tra i vincitori, finora tenuti insieme dalla comune avversione alla dittatura. Quello che nascerà sarà un paese potenzialmente molto ricco, ma che dovrà ricostruire il suo tessuto sociale e l'appartenenza stessa alla nazione, sopratutto riconosciuta come tale. Sarà una nazione da ricostruire da zero necessaria di tutela per avviarsi alla democrazia, forma di governo conosciuta solo indirettamente attraverso internet. In questo quadro l'intervento dell'ONU, come organismo sovranazionale capace di fornire direttive ed aiuti, coniugato ad altre realtà come la NATO, la UE e l'Unione Africana sarà senz'altro necessario e dovrebbe garantire una adeguata certezza del risultato.

Nasce in Turchia il Consiglio nazionale contro Assad

Gli oppositori del leader siriano mirano a costruire un Consiglio Nazionale sulla falsariga di quello libico. Dovrebbe trattarsi di un organismo di coordinamento dell'opposizione al regime siriano, collocato fuori dal territorio di Damasco, per avere maggiore tutela e libertà di azione. Verosimilmente la sede sarà in Turchia, con il tacito appoggio del governo di Ankara, preoccupato per la piega che hanno preso gli eventi nel paese vicino. La Turchia ha più volte manifestato preoccupazione per i disordini in Siria, che l'hanno anche toccata materialmente con la fuga di migliaia di siriani, divenuti profughi sul suolo turco. Ad Ankara è toccata l'organizzazione materiale dei campi profughi al confine con la SIria. La pericolosità di un regime fortemente destabilizzato non fa comodo al crescente sviluppo economico turco, che ha bisogno, per sviluppare i propri commerci, delle vie di comunicazione siriane. Dopo il rifiuto della UE all'ingresso della Turchia in Europa, Ankara ha volto il proprio sguardo verso oriente, sviluppando una fitta rete di relazioni industriali e commerciali, che necessitano di una concreta stabilità dei partner economici. Frattanto la Siria, cercando di placare le reazioni internazionali, ha ospitato gli ispettori ONU, che devono accertare il rispetto dei diritti umani, tuttavia, la missione non pare avere avuto grande esito perchè le forze di sicurezza siriane hanno impedito il lavoro della commissione per ragioni di sicurezza. Ancora una volta il regime di Assad ha lamentato di essere vittima di forze terroristiche di matrice islamico estremista. Il Consiglio nazionale degli oppositori si prefigge di tenere viva la focalizzazione internazionale proprio per evitare che il mondo creda al complotto contro Assad, con l'intento di rovesciare il regime, tutt'altro che saldo al comando del paese.

martedì 23 agosto 2011

Estendere l'aiuto militare a tutti i popoli in rivolta contro le dittature?

La vittoria su Gheddafi, ottenuta anche grazie all'aiuto dei paesi occidentali, potrebbe indurre altri soggetti, in rotta con i propri governi, a richiedere formalmente soccorso per uscire da regimi dittatoriali. La questione è spinosa e riguarda diversi punti caldi del mondo, di cui, al momento, il più importante è la Siria. L'aiuto fornito, sotto l'ombrello delle Nazioni Unite inizialmente da Francia e Regno Unito, seguiti dalla NATO, è stato concesso in ragione della prevenzione di una carneficina, che Gheddafi avrebbe senz'altro attuato, per reprimere la rivolta. Praticamente, quindi, l'aiuto occidentale si può inquadrare, secondo la definizione di "guerra umanitaria", al pari di precedenti esperienze come le azioni sulla Serbia o nel Kossovo. Moralmente non pare vi sia nulla da eccepire, la difesa della popolazione civile dovrebbe essere il motivo fondante dell'intervento. Basandosi su questi precedenti e su questo presupposto ulteriori interventi non sarebbero da escludere, essendosi creato un precedente così evidente. In realtà il meccanismo di intervento è più complesso, almeno se si vuole avere la copertura ONU. Per quanto riguarda la Libia occorre dire che l'appoggio cel Consiglio di sicurezza appare una eccezione, in quanto ottenuto con l'astensione di Russia e Cina, tradizionalmente ostili all'ingerenza negli affari interni di altri stati. Inoltre sul piano del panorama internazionale, Gheddafi non godeva di alleanze particolarmente salde, tali da scoraggiare un intervento. Questo fattore ha senz'altro favorito la manovra anticipata della Francia, che ha iniziato le operazioni militari ancora prima della delibera ONU. Ancora un'altra ragione è poi di ordine economico, la presenza in Libia di grossi giacimenti di greggio ha favorito la predisposizione all'aiuto militare in ragione di evidenti causali di convenienza; quello che si rischiava era che il petrolio libico sfuggisse all'approvigionamento per l'occidente, prendendo altre destinazioni. Tuttavia queste considerazioni potrebbero non interessare una persona, ad esempio siriana, che aspira ad un cambio di regime. Quello che rischia di innescarsi è un processo di avversione verso un occidente che fa figli e figliastri. Quello a cui aspirava l'Unione Europea, di essere una guida morale, per i paesi in via di sviluppo o il ruolo di poliziotto mondiale, che gli USA si erano ritagliati a loro misura, stanno naufragando precipitosamente nell'immaginario di diverse popolazioni che ricercano, in un modo o nell'altro, una via per la democrazia. Ma a parte l'immagine, resta il problema concreto, di non potere applicare indistintamente i criteri di un eventuale aiuto, in maniera univoca. Una soluzione, di non facile percorribilità, sarebbe sancire già a livello ONU, una forma di applicabilità dell'intervento militare valida per ogni evenienza. Ma la struttura attuale delle Nazioni Unite non permette tanto facilmente questa modalità proprio per il sistema di voto che regola il Consiglio di sicurezza; anche in quest'ottica, di creare cioè uno strumento che riesca a stare al passo dei tempi, si è resa necessaria una riforma dell'ONU, che cambi i suoi organi e le sue finalità. Viceversa, stante così le cose, non resta rassegnarci ad interventi studiati volta per volta, che, inevitabilmente, scontenteranno qualcuno.

L'incapacità di Israele ne determina l'isolamento

La situazione diplomatica di Israele sta precipitando. Il paese ha scelto la via della durezza nel confronto ed il suo errore, più che pagarlo sul piano militare lo sta scontando su quello internazionale. Tel Aviv non ha saputo interpretare i sentimenti del popolo egiziano e si è da subito schierata con il vecchio faraone che gli garantiva la rendita di posizione della tranquillità della frontiera con Il Cairo. Non intercettando la volontà popolare egiziana, ha acuito i sentimenti avversi di quel popolo per l'eterna questione palestinese; i militari al potere in Egitto, hanno dovuto cedere qualcosa e la frontiera con Hamas è stata aperta. Oltre che una politica miope sulla questione palestinese, il governo israeliano in carica ha mostrato una totale imperizia sui rapporti internazionali, che, di fatto, ne hanno determinato l'isolamento diplomatico. I recenti fatti alla frontiera con l'Egitto e le mosse seguenti del ministero degli esteri di Israele, dimostrano che il paese sta conducendo una tattica suicida, che mette a repentaglio il popolo israeliano. L'escalation negativa ha messo i pericolo anche i rapporti con la Giordania, che temendo l'allargamento della tensione fin dentro i propri territori, non è stata affatto rassicurata dal governo di Tel Aviv. Se si guarda la carta geografica si comprende facilmente che Israele ha deteriorato i rapporti con tutti i vicini. Di Egitto e Giordania si è già visto, resta il Libano, con cui i rapporti erano già difficoltosi ed ora risultano aggravati per la disputa dei confini marini, la Siria è in subbuglio ed ha usato i profughi palestinesi sul suo territorio per distogliere l'attenzione dai propri problemi. Oltre i confini continuano i pessimi rapporti con la Turchia ed il silenzio americano parla più di ogni dichiarazione. La mancata disponibilità a risolvere il problema palestinese, ed anzi aggravandone la situazione ha già fatto perdere ad Israele numerose simpatie ed il paese è precipitato di nuovo nel timore totale degli attentati. Anche la reazione agli atti terroristici, nonostante la smentita di Hamas, ha dimostrato che Israele non è capace di deviare dalla solita ottica: attentato uguale Hamas, senza dimostrare la capacità di capire altre direttrici terroristiche. Senza un cambio di rotta politica, la nazione israeliana e con esso tutta la regione, è destinata ad un gramo destino.

lunedì 22 agosto 2011

La Libia che potrebbe essere

Con l'imminente fine del regime di Gheddafi, sarà ora interessante vedere come si svilupperà il futuro della Libia. E' una grande occasione per i vincitori di dimostrarsi all'altezza per la costruzione di una nuova nazione e di presentarsi al mondo con i giusti attributi per entrare nel consesso internazionale da nazione democratica. La sfida che si presenta per il popolo libico è quella di diventare un laboratorio per la creazione di una democrazia compiuta e fare da apri pista per i popoli arabi ed anche africani. Nonostante l'aiuto della NATO, importante ma non del tutto determinante, i ribelli stanno conquistando da soli la libertà, senza importatori di democrazia, e possono, quindi essere padroni del loro destino. All'euforia, nell'immediato, della liberazione, potrebbe seguire l'ora della vendetta: è indispensabile che i vertici degli insorti mantengano più possibile la legalità, non permettendo atti di vendetta o saccheggi ed applicando ai vinti trattamenti corrispondenti a quelli prescritti dai trattati internazionali. Imporre da subito la legalità deve essere l'obettivo principale nelle prime ore, senz'altro convulse, della vittoria; il nuovo stato deve partire e proseguire su un binario di assoluta legalità che tracci il solco profondo della distanza con il vecchio regime. In questa ottica sarebbe auspicabile una apertura ad ispettori ONU che verifichino la situazione di Tripoli e certifichino la condotta dei vincitori. Sarà interessante vedere come sarà il futuro del rais. Senza augurarsi soluzioni tragiche le due strade più consone ad una soluzione pacifica sono il processo in terra libica o il processo presso la Corte dell'Aja, in ottemperanza al mandato di cattura spiccato dalla corte stessa. Se nel secondo caso la procedura sarebbe lineare e codificata nel primo caso l'aspetto nebuloso della normativa e della stessa procedura da applicare rientrerebbe in una sorta di interrogativo di non chiara definizione. Certamente un processo giusto, con tutte le assicurazioni legali per l'accusato, celebrato in Libia darebbe al nuovo esecutivo un elemento in più di apprezzamento internazionale. Durante la guerra si ci è più volte domandato quali formazioni fossero dietro al movimento della rivolta, peraltro l'aspetto confessionale non è mai risultato ne preponderante ne determinante, connotando così l'azione dei ribelli come un moto scaturito dalla necessità di affermare i propri diritti civili. Naturalmente il pericolo di una infiltrazione di gruppi religiosi estremi esiste, tuttavia questa evenienza non sembrerebbe attecchire su di un movimento che pare essenzialmente fondato sulla ricerca della democrazia. In chiave internazionale un avvento della democrazia in Libia dovrebbe aprire ad un rapporto, specialmente con i paesi vicini, più improntato a forme di collaborazione reciproca su problemi come l'energia, i flussi migratori e lo sviluppo interno del paese. La Libia è indiscutibilmente un paese di grandi potenzialità sia per le risorse energetiche, che quelle turistiche, dove dovrebbe registrarsi un notevole incremento. La presenza di una forma di governo democratico dovrebbe infine favorire gli scambi e gli accordi a livello politico, che in un futuro neanche tanto prossimo, potrebbero concretizzarsi in forme di collaborazione ed integrazione, in special modo con la sponda nord del Mediterraneo.

sabato 20 agosto 2011

Hamas interrompe la tregua

Hamas rompe la tregua con Israele. Nonostante le assicurazioni dell’organizzazione della striscia di Gaza di non essere responsabile degli ultimi attentati, Tel Aviv la ritiene, invece, colpevole ed ha dato il via ad una pesante rappresaglia. Entrambi i soggetti sono caduti nella trappola di chi non vuole la pace in Palestina, è verosimile, infatti che Hamas non sia responsabile degli attentati, perchè non ha alcun interesse in questo momento, nell’imminenza, cioè del dibattito all’ONU sul riconoscimento ufficiale dello stato palestinese, ad alzare la tensione e dare così motivo ad Israele di motivare la sua perplessità circa l’argomento. Il governo israeliano sarà ben felice di questa interruzione della tregua perchè potrà così portare avanti il suo programma di contrasto al riconosimento della Palestina in modo più concreto, ma così non farà l’interesse della propria nazione che tornerà a vivere in un clima di terrore schiacciante, dato che sarà dato il via ad una serie di azioni uguali e contrarie, con la violenza come comune denominatore. Il piano di chi voleva il ritorno della tensione sta riuscendo pienamente, facendo leva sulla bellicosità dei due contendenti, l’interruzione della tregua è stata facile e la messa in discussione del difficile lavoro di ricucitura risulta ora azzerato. Anche per l’OLP si tratta di una sconfitta, dopo l’alleanza con Hamas, per puntare alla costruzione dello stato palestinese, ora l’organizzazione di Abu Mazen si trova in una posizione difficile, perchè dovrà infatti cercare una nuova mediazione quasi impossibile. Dall’altro lato è anche in grosso pericolo proprio il legame con l’organizzazione della striscia, che si basa su equilibri precari, per l’ovvia differenza di vedute. Ma anche Israele ha difficoltà enormi: il rapporto con l’Egitto è completamente deteriorato, dopo l’uccisione, per errore, da parte dell’esercito israeliano, di tre militari egiziani; Il Cairo ha richiamato il proprio ambasciatore e convocato quello israeliano, la reazione che rischia di innescarsi è una pericolosa alleanza tra Hamas ed egiziani, che potrebbe portare addirittura ad una riedizione della guerra dei sei giorni. Il momento è veramente pericoloso tutta l’area sta diventando una polveriera: il Libano è alleato di Hamas, la Siria in piena guerra civile e l’Egitto, praticamente in mano ai militari. Tel Aviv senza lo scudo di Mubarak rischia di essere preso in mezzo e dietro il tutto si intravede l’ombra di Al Qaeda e dell’Iran a soffiare sul fuoco.

Turchia ed Iran violano il territorio iraqeno contro i curdi

Esiste una insolita alleanza in Asia, che non è sancita da alcun trattato, ma si basa su una comune linea d'azione. Nella zona Iraqena del Kurdistan, dove gli abitanti godono di autonomia politica, si fanno incessanti le azioni militari di Turchia ed Iran contro i villaggi curdi.
Si tratta di vere e proprie violazioni del diritto internazionale perchè condotte su territorio straniero, quello dell'Iraq, tra l'altro senza alcuna dichiarazione di guerra ne altri contatti di tipo diplomatico.
Sia la Turchia che l'Iran, approffittano dello stato di disorganizzazione dello stato iraqeno per violarne impunemente i confini. Gli USA, che dovrebbero fornire una qualche garanzia per lo stato per cui si sono impegnati per la democratizzazione, osservano in silenzio lo svolgersi degli eventi, bloccati, verso i due invasori per ragioni opposte. La Turchia è il maggiore paese NATO dell'area, quindi si tace per mantenere questa alleanza strategica nella regione; l'Iran, invece, è il peggior nemico della zona, ed il pericolo di iniziare un conflitto dagli esiti fortemente incerti e certamente destabilizzanti per il mondo intero provoca la totale immobilità degli Stati Uniti.
Accusati di essere la base di gruppi terroristici per l'indipendenza del popolo curdo, i villaggi del curdistan iraqeno, i cui abitanti sono stati determinanti, per la loro conoscenza del territorio, per le forze USA contro Saddam Hussein, sono, quindi, lasciati soli di fronte alla violenza congiunta turco iraniana. La Turchia, che ha sempre osteggiato l'indipendenza, anche in forma autonomistica, dei curdi, approfitta della debolezza iraqena per regolare i propri conti ed anzi ha innalzato il livello della repressione specialmente dopo i disordini che hanno avuto luogo durante il periodo elettorale. L'Iran è accomunato ad Ankara nel negare una qualche forma di indipendenza, seppur nella cornice statale, ai curdi perchè teme di creare un precedente di riferimento, non tanto per ragioni etniche, quanto per ragioni politiche, avendo paura di dare troppo spazio ai movimenti politici che richiedono una maggiore libertà nel paese. Inoltre per il governo iraniano esiste una forma di particolare avversione alla popolazione curdo iraqena per l'aiuto fornito agli USA, che li individua come alleati degli americani. Il tutto avviene nel silenzio delle istituzioni internazionali, che, con il loro silenzio legittimano le azioni militari oltreconfine, quindi vere e proprie violazioni della sovranità iraqena. In più la questione curda, nel suo complesso, viene sempre più ignorata, lasciando una intera popolazione, con dignità di nazione, nella più completa impossibilità di autodeterminarsi.


venerdì 19 agosto 2011

Riformare il capitalismo?

Dopo il fallimento del comunismo siamo al redde rationem anche per il capitalismo? Fatta salva la democrazia, ormai imprescindibile dai sistemi politici avanzati, a che punto è la vita del sistema economico alternativo al socialismo? E' innegabile che per il secondo la morte è stata alla fin fine breve, il crollo del muro di Berlino ha provocato l'eutanasia di un sistema, comunque destinato a perire. Per il capitalismo, invece, siamo ad una lenta agonia, che sta trascinando con se conquiste sociali e progressi che parevano ormai dati di fatto. Qualcuno potrebbe obiettare che questi, per i sostenitori più accesi del capitalismo, erano proprio i freni che ne hanno determinato la malattia; tuttavia se si pone come condizione per individuare il capitalismo, l'espansione maggiore possibile del benessere, strumenti come il welfare erano proprio i mezzi, che in democrazia, ne garantivano la diffusione. Il dibattito tra i liberisti estremi e quelli che propugnavano l'attenuazione del capitalismo con forme più smussate, è sempre stato al limite del cruento, ma ora siamo al punto che quelli che rischiano di sparire sono i consumatori trascinando nell'abisso tutto il sistema. L'erosione di ricchezza cui è già stato sottoposto il ceto medio ha provocato un impoverimento generale che ha contribuito a contrarre i consumi ed ha scatenato una pericolosa sintomatologia che sta avendo una difussione velocissima. Agli episodi londinesi sono seguiti gli incendi di Berlino alle premium car, le auto super lusso simbolo di ricchezza e potere, mentre in precedenza in Spagna si sono presentati in piazza gli Indignados. Tuttavia mentre le proteste spagnole sono state pacifiche, il livello di violenza registrato in Inghilterra e Germania segnala la profondità di un malessere che mette in pericolo la tenuta della società. Il buon senso imporrebbe una cura drastica e non i panni caldi che i governi propinano ai loro popoli. Quello da cambiare è tutto il sistema che ha scandito la nostra vita finora; non si tratta ne deve trattarsi di una modalità violenta, ma deve essere per forza di cose condivisa. Il cardine è la redistribuzione del reddito, attraverso leggi, rispettate, ed aumento del welfare; la tassazione, proprozionale, deve essere rispettata ed infine occorre abolire la preponderanza del sistema finanziario su quello produttivo, il quale è l'unico capace di creare vero valore aggiunto. Non si tratta di una rivoluzione è chiaro, ne di mettere in pericolo la proprietà privata, si tratta di ristabilire una equità sociale in grado di garantire una vera diffusione del capitalismo e quindi del benessere. La regolamentazione del mercato deve essere un dato sicuro per impedire la sperequazione delle retribuzioni che, in questi ultimi anni, ha conosciuto picchi ormai insostenibili. La troppa diseguaglianza è un fattore di instabilità sociale che va prevenuto anche nell'ottica di un contenimento della delinquenza. Non sono obiettivi difficili da raggiungere, anche se l'avversario maggiore è il mercato globale, dove sullo stesso terreno si fronteggiano lavoratori con condizioni e salari differenti. Gli stati non si sono attrezzati, probabilmente volontariamente, per combattere questo nemico che gareggia in modo scorretto. L'Europa, ad esempio, ha strumenti sovranazionali per potere tutelare la sua popolazione, le sue aziende ed i suoi lavoratori. Quella che deve passare è una idea di riforma globale che favorisca lo sviluppo in maniera sostenibile per la totalità mondiale. Devono essere superate situazioni dove una piccola frazione di popolazione possiede la maggior parte delle ricchezze. Soltanto così il capitalismo potrà risorgere dalle sue ceneri, altrimenti la prospettiva è il disordine è l'impoverimento generale.

Aung San Suu Kyi incontra il premier della Birmania

Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace e leader dell'opposizione della Birmania, ha incontrato per la prima volta il nuovo presidente del paese, Thein Sein. L'attuale presidente è il primo premier senza divisa da diversi anni; pur essendo un ex generale e rappresentante, comunque del mondo militare che sta dietro il governo, Sein rappresenta il primo tentativo concreto di liberalizzare il paese. Questo incontro è particolarmente significativo, perchè arriva dopo circa venti anni di reclusione per Aung San Suu Kyi, durante i quali i militari al governo hanno tentato in tutti i modi di mettere il bavaglio alla protesta dell'opposizione incentrata in special modo sulla rivendicazione dei diritti civili del popolo birmano. L'incontro rappresenta quindi un primo concreto tentativo di pacificazione nazionale e potrebbe aprire la strada ad una effettiva opera di democratizzazione del paese. Occorre ricordare che la posizione del governo è risultata già ammorbidita nei confronti del premio Nobel, alla quale è stato permesso di visitare ufficialmente il paese, dopo la lunga reclusione, nonostante alcuni pareri contrari del gruppo di potere, per il timore di eventuali disordini, poi non verificatisi. Il nuovo governo pare avere cambiato strategia nei confronti della San Suu Kyi, cercandone addirittura il dialogo ed attraverso di Lei con tutta l'intera opposizione della Birmania. Non è un passo scontato per il potere Birmano, tradizionalmente chiuso ed avverso ad ogni dialogo. Il coinvolgimento della maggiore ed autorevole oppositrice, in dialoghi ufficiali con il vertice del governo, potrebbe finalmente significare l'inizio di un percorso importante per l'applicazione dei diritti, tanto rivendicata, nel paese.

Attentati ad Israele e riconoscimento della Palestina

Mentre si avvicina l'appuntamento di Settembre, dove all'assemblea dell'ONU verrà discussa la richiesta per il riconoscimento della Palestina, Israele è tormantato da una nuova serie di attentati. Le modalità di esecuzione degli atti terroristici, rivendicati da una nuova sigla, fanno pensare ad estremisti sfuggiti al controllo di Hamas. La tensione era già salita nei giorni precedenti con un razzo partito dalla striscia, che non aveva causato alcun danno, e la conseguente risposta israeliana con incursioni aeree su Gaza, che, invece, avevano provocato diversi morti. La salita della temperatura, in prossimità di Settembre, era facilmente prevedibile, ci sono troppi avversari, da entrambi i fronti al riconoscimento palestinese. Se per la politica dell'attuale premier israeliano è facile comprenderne le ragioni, che fortunatamente non valgono per tutto il popolo che ha per bandiera la stella di David, per la parte araba è più complicato capire chi osteggia la nascita dello stato palestinese in coabitazione con Israele. Occorre dire che se si arrivasse a questa definizione, peraltro tutt'altro che scontata e comunque ancora lontana, verrebbe a mancare per le parti più estreme dell'antisionismo e dell'integralismo islamico, uno dei motivi della loro stessa esistenza. Non è un caso che gli ultimi attentati contro gli autobus ed i soldati israeliani siano arrivati con la frontiera tra Gaza ed Egitto aperta. Materialmente è consentito il passaggio di persone con pochi o nulli controlli. Non è difficile per un terrorista inviato, supponiamo da Al Qaeda, entrare nella striscia e di li in Israele ed organizzare un attentato che alteri la già difficile situazione. L'alleanza politica tra Hamas, Al Fatah ed OLP può riuscire a controllare, anche con fatica, le teste più calde già conosciute, non i nuovi venuti. Al Qaeda e l'Iran non possono rinuciare al pretesto della cancellazione dell'entità sionista attorno al quale gira molta politica estera di Teheran. Il problema è che Israele, con questo governo, è facilmente provocabile ed è tutt'altro che in grado di mantenere i nervi saldi. La situazione, quindi è potenzialmente ancora più esplosiva del solito; inoltre si deve aggiungere il preoccupante silenzio degli USA, che in aperto contrasto con il governo di Tel Aviv, stanno tenendo un atteggiamento apparentemente distaccato. Difficile fare ulteriori previsioni sugli sviluppi futuri della questione, se non ribadire la facile predizione, purtroppo, di un inquietante incremento della violenza.

giovedì 18 agosto 2011

La necessarietà della Tobin tax

Il dibattito intorno all'introduzione della Tobin tax, la tassa sulle transazioni finanziarie, sta registrando un ovvio sfavore da parte delle borse. Tuttavia grandi paesi come Francia e Germania stanno spingendo per l'applicazione della nuova imposta. Questo dimostra come finalmente anche la politica si stia rendendo conto della necessità di tassare la speculazione finanziaria, ora per favorire il riequilibrio dei bilanci statali, in futuro, forse, per diminuire la tassazione sul lavoro. Questo passo è necessario per ristabilire l'importanza dell'economia concreta, produttiva e tangibile, sulla pratica effimera dello scambio borsistico. Non che non sia necessaria una contrattazione dei titoli, soltanto che questa pratica ha superato la realtà e la sua influenza sull'economia reale ha preso il sopravvento. Non è naturale che aziende senza ricchezza materiale e di idee vengano valutate più di aziende che producono beni fisici ed hanno a disposizione beni materiali su cui hanno investito anche somme ingenti, è questo il nocciolo della rovina dell'economia reale. Fino ad ora non sono stati messi freni concreti a questa pratica, perchè la politica non è riuscita ad imporre la sua supremazia, come sarebbe dovuto essere, anche per ragioni di connivenza e convenienza. Neppure le varie bolle che hanno colpito negli anni passati, sono riuscite a scalzare dalla cima della piramide economica la supremazia della pratica finanziaria. Ora, con il precipitare della situazione si è arrivati al dunque: frenare il guadagno borsistico vuole dire rivalutare il lavoro reale, anche se sicuramente per i primi tempi si avranno delle controindicazioni. La liquidità, infatti potrebbe transitare da quei mercati oggetto di tassazione a quelli non ancora tassati. L'ottimo sarebbe che la Tobin tax venisse riconosciuta a livello universale per non creare sperequazioni sul credito, tuttavia in una prospettiva di lungo periodo nei paesi dove dovesse essere inserita la tassa sulle transazioni finanziarie si dovrebbero rilevare benefici sul piano dell'economia reale, sicuramente meno influenzata dagli sbalzi umorali delle borse.

mercoledì 17 agosto 2011

Gli USA contro i ribelli sciiti iraqeni

Fonti americane hanno parlato di scontri in Iraq, nella regione di Bassora tra forze statunitensi e ribelli sciiti sostenuti dall'Iran. E' questa la prima volta che gli USA riconoscono ufficialmente azioni militari di combattimento, definite di autodifesa, dopo la fine ufficiale della guerra iraqena, dichiarata nell'estate del 2010. In questi scontri, condotti dalla forza aerea americana, non sarebbero stati coinvolti militari iraqeni. Le azioni militari sono state provocate da attacchi provenienti da ribelli sciiti, che hanno attaccato a più riprese basi americane. I ribelli sciti si richiamano ad Al Qaeda e sono appoggiati dal governo teocratico iraniano, che ha sempre mostrato simpatia per questa minoranza spesso oppressa dal governo sunnita di Saddam Hussein. Il gioco di Mahmud Ahmadinejad è molto pericoloso, tanto che lui stesso, nella giornata di ieri ha rilasciato una dichiarazione unilaterale, che non prevede una guerra con gli Stati Uniti, ma che nel caso l'Iran sarà pronto a difendersi. La dichiarazione, giunta inaspettata e apparentemente fuori contesto, può trovare una spiegazione nell'ammissione americana di avere compiuto le azioni belliche di autodifesa di cui sora. Le provocazioni degli sciiti sembrano andate molto aldilà dei semplici attentati per indurre alla prudenza anche il capo di stato iraniano, che pure è il loro maggiore alleato. La regione di Bassora torna ad essere un punto caldo, situata al confine tra Iraq ed Iran ed immediatamente contigua a Kuwait ed Arabia Saudita, rappresenta una sorta di frontiera tra i due grandi stati islamici avversari Iran ed Arabia Saudita. Il punto è strategico per la prossimità allo sbocco all'oceano indiano, unica zona di mare per Bagdad. La tattica iraniana punta ad uno stato di terrore permanente nella zona, attuato da ribelli ultrafondamentalisti islamici sciiti, per infastidire gli americani ed i loro alleati sauditi. Il riconoscimento ufficiale americano di una implicazione iraniana eleva pericolosamente il livello del confronto sul piano internazionale ma, tuttavia, la dichiarazione del presidente iraniano va letta come un tentativo di gettare acqua sul fuoco per smorzare sul nascere ogni possibile confronto sul piano militare, almeno nell'immediato. E' la consueta tattica dello stop and go che Ahmadinejad usa come consuetudine diplomatica; in questo caso forse si è accorto di avere esagerato.

La Germania socio di maggioranza dell'Europa

La Germania dimostra di essere il socio di maggioranza della zona euro. Nel vertice con la Francia, non passano gli eurobond, su cui si addensavano le paure degli alleati della Merkel e si opta per un governo comune dell'economia. La misura, in effetti, pare ancora lontana dall'essere attuata ma la sola intenzione doveva avere un effetto positivo sui mercati; non è andata così. I mercati chiedevano una misura di sostanza, tangibile e concreta, la sola dichiarazione di intenti del governo comune è troppo fumosa e sopratutto non immediata, quindi l'indice è andato ancora verso il basso. Ma l'aspetto di maggiore rilievo è stata la capacità politica di Berlino di imporre la propria visuale, andando così a dimostrare di essere il solo punto fermo dell'Europa legata alla moneta unica. Diversi fattori hanno portato a questa conclusione: la stabilità politica tedesca, l'andamento economico migliore, anche se serebbe meglio definirlo meno peggio ed infine la solidità delle emissioni del debito pubblico. Ora occorre vedere come questa supremazia potrà concretizzarsi anche in ambito UE, che somma al suo interno anche gli altri paesi che non hanno aderito all'euro. Il particolare momento che l'Europa sta vivendo potrebbe essere propizio per una razionalizzazione delle strutture comuni di governo in modo di creare una catena di comando capace di intervenire con precisione e tempismo. Mentre nel settore economico sembra che il processo, pur con tutte le critiche possibili, sia avviato, nel settore politico regna ancora la stasi e l'immobilismo decisionale. L'aspetto economico fortemente negativo ha, di fatto, favorito una supremazia tedesca che ora potrebbe concretizzarsi anche sotto l'aspetto politico, anche se con modi più soft, per non urtare la suscettibilità dei soci fondatori della UE. Non sarà comunque un processo facile, ma d'altro canto, questa è l'ora di concretizzare gli sforzi di anni per cercare di creare gli Stati Uniti d'Europa, l'unica maniera di stare al passo con la globalizzazione e le sfide epocali che sta portando.

martedì 16 agosto 2011

Fine della sovranità statale nella zona euro?

La governabilità europea, specie nella zona euro, è ormai un affare a due. E' questa la sensazione che si coglie con l'incontro franco-tedesco di Parigi, dove Sarkozy ha accolto Angela Merkel per discutere sul rafforzamento della governance dell'economia nella zona euro. Con il Regno Unito fuori dalla moneta unica europea e con Italia e Spagna sotto attacco della speculazione, non resta che l'asse Berlino-Parigi ad avere, ormai, le prerogative per potere decidere provvedimenti che cerchino di mettere un freno alla rovinosa caduta della finanza europea. In realtà questo incontro era stato programmato il 21 luglio, in piena crisi greca, ma l'attualità ha superato di gran lunga la paludata programmazione inter governativa. Gli analisti ed i mercati attendono un segnale forte, in modo che si possa capire dove va la finanza europea, chi e come la guida, in modo che si concretizzi un freno all'emorraggia delle borse. Tuttavia, se Francia e Germania sono quelli che stanno relativamente meglio, si presentano a questo incontro con acciacchi evidenti. Per Berlino è orami certo il pericolo di stagnazione, sta venendo a mancare la crescita, che di solito genera ricadute positive su tutta l'economia continentale, mentre Parigi sta correndo il pericolo di un declassamento del proprio ranking a causa dell'elevato debito pubblico, mentre già si affacciano manovre speculative come è stato per l'Italia. Ma tant'è questo è quello che passa il convento per la povera moneta unica. Una possibile salvezza passa per la creazione degli eurobond, in modo da avere un materasso più alto in caso di cadute rovinose, dato che consentono ai paesi in difficoltà di rifinanziare il debito a costi minori. Se la Francia è possibilista verso questa soluzione, anche perchè potrebbe diventare particolarmante interessata, per la Merkel il problema è politico, in quanto la sua coalizione interna non vede di buon occhio l'aumento del fondo di stabilità europea per il timore di dovere in gran parte farsene carico. Comunque se si vuole mantenere in vita l'euro non si vede all'orizzonte altra soluzione, si può discutere sull'entità della somma del fondo ma non se applicare o meno questa soluzione. Certo le misure di abbattimento dell'indebitamento devono essere drastiche, ma senza un ammortizzatore che faciliti il processo il destino è di ritornare alle divise nazionali con tutto quello che ne consegue. Dal punto di vista politico il peso di Francia e Germania appare notevolemente accresciuto, in questo momento decidere sull'economia è pienamente coincidente con la decisione politica sull'azione dell'area euro, infatti la direzione economica che sarà presa deciderà anche la direzione politica non solo per Berlino e Parigi ma anche per gli altri stati. Quello che non è riuscito a commissioni e parlamenti sta riuscendo ai mercati, con le economie meno peggio che decidono anche per quelle peggiori. Ciò costituisce un cambiamento epocale nei rapporti interni alla UE, che viaggiano ancora sulla finzione del doppio binario: politico ed economico. Da ora chi non riesce a badare a se stesso andrà a finire sotto la tutela di chi vi riesce. Ancora una volta comandano i soldi.

La strategia estrema di Gheddafi

La guerra libica registra una allarmante novità. Dagli arsenali di Gheddafi è stato infatti lanciato un missile Scud, di fabbricazione sovietica, destinato alla città di Brega, ma che ha mancato il bersaglio deviando la propria traiettoria ed esplodendo in piena zona desertica. Il regime libico dovrebbe disporre di circa cento missili Scud, prodotti dall'URSS intorno agli anni sessanta del secolo scorso; in passato Gheddafi si era impegnato a distruggere l'arsenale in cambio della riduzione delle sanzioni applicate alla Libia, ma l'accordo non fu rispettato per mancati accordi tra le parti. L'uso di un missile a lunga gittata, arma di cui l'esercito libico dovrebbe quindi disporre in quantità limitata, segnala che Gheddafi comincia ad essere in grossa difficoltà. L'isolamento di Tripoli comincerebbe quindi a dare i primi effetti importanti, la guerra è diventata di logoramento e la difficile situazione circa gli approvigionamenti a cui è sottoposto il regime libico, pone nella maggiore incertezza la sua sopravvivenza. Tuttavia la vittoria per i ribelli è ancora lontana, il rais ha dato prova più volte di sapere rimanere saldamente in sella al potere. La strategia dei prossimi giorni potrebbe prevedere una strenua resistenza dove verrebbero impiegati in armi tutti i civili disponibili, in una sorta di arruolamento forzato. D'altro canto questo sarebbe in linea con la tattica intrapresa da Gheddafi fin dall'inizio, che prevede di guadagnare tempo ad oltranza, per non finire, ne nelle mani dei ribelli, ne delle potenze internazionali, che ne hanno richiesto la formale incriminazione al tribunale dell'Aja. Con la parte orientale del paese ormai definitivamente persa, Gheddafi non può perdere la sua roccaforte: Tripoli e la parte immediatamente retrostante fino al confine tunisino. Una azione che viene prevista è la distruzione del terminal petrolifero di Brega, una dei motori economici del paese. Se questo dovesse compiersi sarebbe un disastro ambientale e per i ribelli, in ottica di conquista totale del paese, anche economico, ma consentirebbe al rais un ulteriore guadagno di tempo prezioso, per elaborare una strategia da presentare ad un potenziale tavolo di trattative.

Lo stimolo di Obama all'economia

Obama prepara un piano economico per stimolare la crescita basato sulla maggiore tassazione delle classi più ricche. E' un approccio totalmente opposto a quello elaborato storicamente dai repubblicani negli anni precedenti e sopratutto dai governi europei. L'intenzione del governo USA merita più di una attenzione. Il momento è particolarmente difficile sopratutto per le classi basse e medie, ma nonostante questa situazione i governi europei insistono sui tagli al sistema sociale, che vanno, in definitiva a pesare, seppur in modo indiretto ma non proporzionale, sui ceti meno abbienti. Con l'economia che ha bisogno sempre maggiore dell'innalzamento dei tassi di crescita il solo taglio delle spese, senza stimolo alcuno alla crescita, non è sufficiente perchè non libera risorse che aumentano la disponibilità di reddito in ottica di maggiore investimento e di spesa. L'intendimento di Obama è di stimolare la crescita prelevando reddito alle classi più abbienti, in una direzione maggiormente improntata alla giustizia ed all'equità sociale la misura è chiaramente corretta perchè redistribuisce le difficoltà del sistema economico sulla base della maggiore ricchezza, cercando quindi di esercitare minore pressione su quelle classi già più colpite dalla situazione economica negativa. Il concetto di proporzionalità, che in questi anni è parso venire sempre meno, grazie ad operazioni finanziarie dei governi basati su tagli lineari che colpiscono in maniera porporzionale maggiore le classi meno elevate, pare dalla volontà di questa misura, almeno in parte riaffermato. Non solo, redistribuendo il reddito verso il basso della piramide sociale, si allarga la capacità di acquisto che va ad abbracciare un numero più esteso di beni commerciali, anzichè, come spesso è successo favorendo le classi più abbienti soltanto i beni di lusso. I governi di destra hanno spesso usato questa tattica per poi fare figurare nel dato finale una crescita il cui risultato è stato, però, fortemente sbilanciato, un valore drogato che non corrisponde alla diffusione del benessere in tutta la società. Mai come ora, invece, è necessario allargare il più possibile l'eventuale dato della crescita per potere diffondere al massimo i vantaggi. Obama ha compreso questa necessità per preservare l'ordine sociale e creare un modello di crescita che vada ad impattare veramente sull'intera società. L'augurio è che anche in Europa si intraprenda questa strada.

sabato 13 agosto 2011

Le pericolose intenzioni di Cameron

Occorre riflettere sulla tentazione del primo ministro inglese Cameron di interrompere le messaggerie ed i social network che corrono sulla rete. Analoghi provvedimenti presi all'inizio della primavera araba, nei paesi della sponda sud del Mediterraneo e poi nello Yemen, in Arabia Saudita (dove la RIM è vietata), fino alla Siria ed all'Iran, hanno fatto giustamente gridare allo scandalo per la censura imposta alla popolazione i governi occidentali. Adesso è proprio uno di questi governi di un paese con una delle maggiori tradizioni di democrazia a volere imporre uno stop analogo. Certamente vista da ovest potrebbe anche apparire una manovra dettata dall'emergenza, ed in parte lo è, ma ad un osservatore imparziale la stonatura non può che essere evidente. Intanto accomuna le negatività del fenomeno anche agli elementi positivi, ottenendo quindi l'effetto di cancellare anche quegli elementi di democrazia che tanto hanno sono emersi grazie a questi nuovi strumenti. La misura, se presa, accomunerebbe il democratico governo inglese alle dittature arabe anche nella mancanza di interpretare in senso positivo le nuove tecnologie ed andrebbe a costituire un pericoloso precedente paragonabile alla censura della stampa. Purtroppo una fascia di benpensanti la pensa come il governo inglese, non capendo che la garanzia della comunicazione sarebbe proprio uno dei principali strumenti da usare contro la degenerazione dell'uso delle nuove tecnologie. Blindare la comunicazione è la peggior risposta possibile a fatti come quelli inglesi e dimostra anzi la scarsa capacità di azione e sopratutto di prevenzione di tali accadimenti. Inoltre un provvedimento del genere offre il fianco a facili critiche da parte di chi le ha già giustamente subite. Quello che si rischia è di presentare al mondo, a tutto il mondo, un provvedimento che alla fine mette sullo stesso piano la democrazia inglese alle dittature arabe; chi usa questi mezzi, un panorama sopratutto di età bassa, percepirebbe una sostanziale identità della misura, sopratutto paragonata alle nazioni dove è già stata presa, finendo anche per andare a frustrare le legittime ambizioni di chi combatte per la libertà dei propri popoli. Ciò pare un estremo ma l'esempio ed anche l'identificazione nei regimi democratici può e deve essere una chiave di volta nel processo di democratizzazione che molti paesi stanno affrontando.

venerdì 12 agosto 2011

L'Europa ha bisogno di unità

E' una Europa lacerata da forti emergenze, quella che il vecchio continente presenta sulla scena mondiale. La vera e propria depressione economica, peraltro comune ad altre zone del pianeta, non fa che alimentare le spaccature religiose ed il problema xenofobo, che attanaglia in particolar modo i paesi che un tempo erano famosi per il loro stato sociale, ma anche quelli mediterranei, che pur non avendo una impalcatura così strutturata, sopperivano con la loro apertura e la loro ospitalità ai flussi migratori. Il problema economico, avvertito nelle realtà quotidiane di imprese e famiglie già da tempo, è stato a lungo negato da governi chiaramente senza capacità, con la sua esplosione ha provocato la rottura degli argini della società ed alla fine tutti i nodi sono arrivati al pettine. Il fallimento della politica sia periferica, le amministrazioni dei singoli stati, che quella centrale, la UE, ha messo in luce un subitaneo bisogno di rinnovamento, che va ricercato nella maggiore competenza e nel coordinamento tra tutti gli attori sulla scena. Non è un caso che uno dei pochi organismi in grado di dare qualche direzione al caos attuale, sia stata la BCE, che con tutte le sue storture ha saputo rappresentare un punto di riferimento. Certamente è difficile guardare all'oggi con positività, tuttavia se vi è una possibilità di ricostruire e ripartire è proprio questo momento. L'euro va rafforzato e non dismesso, anche se vanno corrette alcune modalità di funzionamento della moneta unica, perchè rappresenta comunque una sicurezza a cui aggrapparsi. Il problema economico si riflette su quello sociale e politico, senza benessere tutto è più complicato ed è in questa ottica che devono convincersi gli euroscettici: una Europa nuovamente divisa sarebbe preda ancora più facile degli speculatori e dei paesi con tanta liquidità disponibile, occorre rinforzare le strutture politiche unitarie, costruendo meccanismi solidi e veloci in grado di rispondere con immediatezza alle sollecitazioni finanziarie, politiche e militari che la situazione in divenire presenta. L'attuale tendenza che vede le nazioni europee richiudersi in se stesse, cozza rumorosamente con la necessità di aumentare l'unione per fare squadra, sistema, dando una risposta al mondo che indichi unitarietà. Sulla divisione in seno alla UE, giocano sopratutto i suoi nemici, che preferiscono affrontare il vecchio continente diviso con tutti i lati deboli scoperti senza difesa. L'Europa deve guardarsi da quegli stati e da quelle organizzazioni che mirano a conquistarne le eccellenze, per depredarli e lasciare sempre più povere le sue nazioni.

giovedì 11 agosto 2011

L'assenza delle politiche di coesione sociale genera disastri

Non pare azzeccato il giudizio di chi ha bollato la rivolta inglese come un fatto di mera delinquenza. Non che una parte consistente della componente dei rivoltosi sia da definire in questo modo, ma le ragioni dell'esplosione che stanno a monte dei pesanti disordini vanno ricercate nella politica pesantemente restrittiva del governo inglese, che ha operato un consistente taglio allo stato sociale, in uno dei momenti più difficili dell'economia mondiale. Va ricordato che non molto tempo prima le proteste studentesche, per gli aumenti elevati delle tasse universitarie, avevano costituito una corposa avvisaglia del clima sociale che veniva respirato sul territorio inglese. Il governo in carica non ha chiaramente saputo interpretare la tensione sociale del paese ed ha insistito su di una politica particolarmente incentrata su tagli sociali e di posti di lavoro a cui devono sommarsi gli aumenti dei servizi essenziali. La stagnazione economica certo non aiuta a calmare la situazione, ma la cura intrapresa si sta già rivelando fatale, andando ad intaccare in modo pericoloso la coesione sociale, principale strumento di stabilizzazione di ogni programma economico. Dall'Inghilterra il passaggio all'Europa continentale è molto breve, esiste un chiaro collegamento sottotraccia con il malessere che serpeggia tra i paesi del vecchio continente ed anche oltre (si pensi anche al caso israeliano, dove il governo è stato costretto a scendere a patti con i dimostranti). La situazione economica sfuggita di mano alla politica sta generando pericolosi focolai, che rischiano in ogni momento di trasformarsi in una degenerazione continua. Siamo di fronte ad una patologia del sistema economico che può portare ad un sovvertimento della società come è andata avanti finora. Le troppe differenze create da un sistema incongruo, sono state fino adesso mitigate da un intervento dello stato proprio sul piano sociale, che ha mantenuto, in qualche modo, incanalata la rabbia, ammortizzandola con strumenti appropriati, capaci di svolgere anche, oltre ad una azione livellatrice, una azione di controllo. Il progressivo abbandono, per ragioni di costi e di mancata volontà di investimento sulla materia, di queste politiche ha liberato ampie zone di malcontento che hanno portato e possono portare a forme di rivolta che sfiorano la ribellione allo stato. Scavare fossati profondi tra le classi sociali non porterà altro che disordine ed instabilità, purtroppo la scarsa mobilità sociale è già un dato di fatto di molte realtà occidentali, la situazione, con i provvedimenti che tutti gli stati stanno adottando incondizionatamente, sembra avviarsi verso nuove spaccature sociali, incrinando la tanto decantata coesione sociale. Si è di fronte ad una crescita esponenziale delle diseguaglianze, che si è venuta a creare per ragioni che niente hanno a che fare con il merito e le capacità lavorative e professionali, ma che si basano su legislazioni assenti o peggio colpevoli, atteggiamenti degli stati che hanno favorito la crescita di ricchezze non basate sull'ulteriore creazione di sviluppo ma di mero sfruttamento delle rendite di posizione e che, quindi, costituiscono, un pericolosità sottostimata delle ripercussioni sull'ambito della costituzione ed evoluzione del tessuto sociale. Senza un cambiamento di rotta siamo purtroppo destinati ad assistere ad altri casi simili ai fatti inglesi.

martedì 9 agosto 2011

La situazione somala: interrogativo per il mondo

La situazione somala risulta essere ancora lontana da una soluzione, che almeno possa iniziare ad alleviare la condizione della popolazione. Gli ultimi successi armati delle forze governative, che dovrebbero avere ricacciato le milizie integraliste islamiche nel sud del paese, non garantiscono ancora la sicurezza necessaria per l’operativita’ delle organizzazioni internazionali. Ed anche a Mogadiscio, che dovrebbe essere ormai assicurata alle forze governative, la situazione non e’ delle piu’ sicure per le continue sparatorie che si susseguono nel citta’. Questo elemento accresce la tensione fra i responsabili delle ONG, perche’, con la ritirata di Al Shabab, le sparatorie starebbero avvenendo tra clan diversi, all’interno delle forze governative. Nonostante, la profonda incertezza, le notizie dell’arrivo degli aiuti hanno interrotto le migrazioni dal paese, ed anzi il fenomeno pare iniziare ad invertirsi con il ritorno verso la capitale somala di persone alla ricerca degli aiuti umanitari. Tuttavia la gran parte degli aiuti sono bloccati ancora nell’aereoporto della capitale somala, perche’ oltre a mancare la sicurezza si teme che gli integralisti islamici non abbiano abbandonato del tutto Mogadiscio, ma siano ancora presenti con cellule nascoste tra la popolazione per assicurarsi parte degli aiuti alimentari. Il governo per accelerare la distribuzione ha annunciato la costituzione di forze speciali che sorveglino la distribuzione e garantiscano i presidi delle ONG. Se questo dovesse avvenire la Somalia potrebbe uscire dalla fase piu’ buia della propria storia, il culmine di venti anni di guerra civile che ora si sono giunti ad una delle peggiori carestie, dovute all’eccezionale siccita’. Difficile, comunque, che la soluzione avvenga in tempi brevi, l’appoggio di Al Qaeda, garantisce ai miliziani islamici di Al Shabab ancora una capacita’ di combattimento notevole, aumentata dal controllo del sud del paese nella misura del settanta per cento, che consente basi logistiche da cui fare partire gli attacchi. Secondo alcuni osservatori, inoltre, la ritirata da Mogadiscio potrebbe essere stata di natura strategica, per non fiaccare ulteriormente la popolazione e permettere gli aiuti, almeno in una prima fase ed anche per impossessarsene di quote consistenti. Pare ormai definitivamente acclarato che senza un massiccio intervento internazionale, non solo di tipo militare, il paese non possa ripartire con le sole proprie forze. Il tessuto produttivo e commerciale risulta ormai azzerato ed occorre quindi pianificare un intervento che consenta alla nazione, prima di tutto pacificata, una autosufficienza alimentare sostenibile.

domenica 7 agosto 2011

Il debito male dell'economia mondiale

Dietro il declassamento americano esiste il problema strutturale della gestione finanziaria di molti stati. Il ricorso incondizionato al debito per fare funzionare macchine statali sempre piu’ farraginose e’ ormai una pratica che il mondo deve lasciarsi alle spalle, per non ingolfare in maniera definitiva il meccanismo economico, che muove il sistema. Tutto e’ dovuto alla mancata lungimiranza dei governi occidentali all’indomani della caduta del muro di Berlino. Non si e’ colto che da quel momento tutto cambiava e non era piu’ come prima. Anzi, pur venedo a mancare i presupposti fondamentali, si e’ continuato a perseverare su quella strada, senza accorgersi che il falso piano diventava una salita sempre piu’ erta ed accidentata. Neppure l’affermarsi della globalizzazione a messo un fermo a questa pratica dell’indebitamento all’infinito; si e’ pensato, anzi, che con la crescita di nuove economie, il pozzo da cui attingere fosse ancora piu’ profondo. In effetti per un periodo e’ stato cosi’, veniva comodo a tutti e due i lati, della domanda e dell’offerta, prendere e dare denaro per alimentare un circolo commerciale, che pareva non avere fine. Ma le crisi finanziarie e le varie bolle esplose hanno iniziato da un tempo, che doveva avviare meccanismi di adeguata salvaguardia, a segnalare il prossimo blocco del sistema. Purtroppo si e’ preferito guardare a questi segnali con sufficienza, senza elaborare strategie, che senza essere piu’ preventive, potessero, almeno, dare un freno ai fenomeni negativi. Siamo ad ora, il conto si sta presentando in tutta la sua drammaticita’ e purtroppo si continua a mettere in campo solo provvedimenti tampone che, mentre turano alcune falle, nel contempo ne provocano altre ancora piu’ grandi. Mai come ora la politica e’ stata in ostaggio di se stessa. Difficile immaginare un futuro diverso da un impoverimento generale del sistema, forse occorre mettere in dubbio che il modello che prevede una crescita indefinita, per aggiungere sempre maggiore prodotto, sia quello giusto. Forse occorre ripensare su basi nuove l’intera economia mondiale, partendo dal dato che esiste un surplus di produzione non smaltito ne smaltibile dal mercato, e che quindi rappresenta l’errore di valutazione da cui parte il baco che blocca il sistema. Questo e’ certamente vero per le economie mature, ma come farlo comprendere alle economie emergenti, che basano la propria forza sulla capacita’ produttiva? In effetti il problema di grande masse che si affacciano al benessere ha bisogno, per coltivare ed incrementare questo nuovo stato, di economie avanzate capaci di assorbirne la produzione. Ma appunto il problema e’ che questi mercati maturi si scoprono, all’improvviso poveri di risorse liquide e quindi non sono piu’ capaci di prendere la produzione, che nel sistema generale i paesi emergenti producono. Questo perche’ la catena del debito si e’ rotta. Ora i paesi produttori sono anche creditori, troppo creditori per potersi permettere loro stessi ulteriori immissioni di liquidita’ nel sistema, praticamente si sono resi conto che ricompravano con lo stesso denaro quello che loro stessi producevano. E’ chiaro quindi che tutti devono fare un passo indietro, il primo provvedimento da prendere e’ creare a livello mondiale una azione di sostenibilita’ finaziaria che nel minor tempo possibile, ma difficile da quantificare, ridia equilibrio al sistema crecando di avvicinarsi il piu’ possibile ad un punto di pareggio finaziario, per poi ripartire su basi di crescita minore o addirittura di descrescita per puntare su una produzione che assicuri stabilita’ ed equilibrio.

sabato 6 agosto 2011

L'ingerenza, una necessità sempre maggiore

Sull’evoluzione dei recenti fatti di politica internazionale occorre fare delle riflessioni che possano avviare una regolamentazione a livello planetario dell’ingerenza da parte di soggetti esterni, all’interno degli affari dei singoli stati. La premessa necessaria, ma insufficiente, e’ costituita dal punto di partenza della necessita’ che vengano rispettati i diritti fondamentali della persona. Il diritto all’autodeterminazione, alla alimentazione, all’istruzione ed anche alla manifestazione dei propri pensieri dovrebbero essere assicurati in maniera automatica, dovrebbero cioe’ essere dati per scontati in ogni singolo ordinamento statale. Ovviamente non e’ cosi’, anzi spesso la sopraffazione della persona, in senso generale, senza arrivare a considerazioni di differenze di sesso, orientamento politico o sessuale o razziale, e’ invece proprio quella che e’ regolamentata nella legislazione, che opera il soffocamento dei diritti fondamentali. Da qui ad arrivare alla soppressione fisica dei rei, di chi e’, cioe’, oggetto della norma, il passo e’ breve. Non per niente siamo in una fase storica dove alcuni popoli, che sono oggetto di queste legislazioni, che vengono eufemisticamente chiamate illiberali, stanno portando alla ribalta della cronaca i loro sommovimenti, le loro rivolte, per affrancarsi da questi ordinamenti repressivi ed affrontare una fase nuova della loro vita. Ora, il tema a cui guardare e’ questo: esiste un dovere delle organizzazini internazionali, in prima battuta, e delle potenze mondiali, immediatamente dopo, ad entrare nell’alveo politico interno di un singolo stato, per sanare situazioni di evidente violazione dei diritti fondamentali dei cittadini di quegli stessi stati? La domanda poi si estende alla forma ed alle modalita’ di questo eventuale intervento. E’ impossibile non richiamare esempi concreti, che l’attualita’ ci fornisce: la Libia, dove l’intervento, di tipo militare, e’ ancora in corso; la Siria, dove nonostante le sanzioni, si assiste impotenti al massacro dei civili e quindi rappresenta un esempio di assenza di ingerenza; la Somalia dove si attua un intervento, peraltro insufficiente, di tipo umanitario, ma si tralascia l’opzione militare, che sarebbe complementare alla riuscita dell’invio degli aiuti umanitari. Questi sono i casi piu’ eclatanti, ma chi ci vieta di pensare alla Cina, all’Iran, alla Corea del Nord, alla Bielorussia ed a molti altri casi, dove il potere statuale si fonda sulla negazione dei diritti. E’ chiaro che estendere cosi’ tanto il problema, che comunque esiste, non permette in concreto, di affrontare il discorso. Limitandoci ai tre casi sopra citati, che sono di maggiore attualita’, siamo di fronte a tre casi scuola, dove la presenza della violazione prevista dalla premessa, e’ stata affrontata con altrettante modalita’. La conseguenza diretta e’ l’assenza di uniformita’ della risposta, ed e’ il nocciolo da cui discende, semplificando in maniera estrema, la necessita’ di adeguare, in qualche modo, tempi e modi per intervenire. Ricordiamoci che siamo in un regime di autodeterminazione degli stati, quindi occorerebbe regolamentare a livello superiore l’ingerenza. L’ottimo sarebbe costituito da un riconoscimento universale di questa necessita’, ma per le ragioni di cui sopra cio’ e’ impossibile. Come superare quindi l’ostacolo? Il primo passo e’ una riforma radicale delle nazioni unite, che oltrepassi lo strumento del consiglio di sicurezza, per abbracciare una piu’ ampia suddivisione della responsabilita’ decisionale ed operativa, non e’ questa la sede per affrontare in maniera piu’ approfondita la questione, tuttavia occorre sottolineare la necessita’ di una maggiore autonomia finanziaria delle Nazioni Unite ed anche dell’assoluta obbligatorieta’ di una disponibilita’ di potere contare su di una propria forza armata. Seppure nelle profonde differenze culturali e politiche che sono presenti nei paesi del globo, la necessita’ di assicurare i diritti fondamentali in maniera stabile deve essere la prima missione dell’ONU e delle grandi potenze democratiche, non solo in un’ottica di rispetto delle leggi, ma anche un investimento sul futuro prossimo degli assetti economici e commerciali ai quali il mondo va incontro. Superare lo sfruttamento di una parte della popolazione mondiale significa aprire opportunita’ sempre maggiori per i mercati, ma sopratutto per la stabilita’ politica del globo, che deve fondarsi sempre piu’ su valori condivisi e comuni.

venerdì 5 agosto 2011

Le buone intenzioni di Obama

Barack Obama vieta l’ingresso negli Stati Uniti a criminali di guerra e a chi ha violato gravemedam,entali nte i diritti umani. Inoltre verra’ creato un comitato per la prevenzione delle atrocita’ per dare modo agli USA di impedire in modo preventivo atti di violenza su grande scala. Le ragioni fondamentali di questa nuova normativa sono da ricercare nella continua ricerca dell’affermazione dei diritti umani, come valori fondamentali della nazione americana, attraverso i quali assicurare la pace e la giustizia e combattere la delinquenza. Materialmente sara’ il Dipartimento di Stato ad occuparsi dell’attuazione pratica del provvedimento, vietando l’entrata sul suolo americano ai sospetti delle violazioni dei diritti umani, per ragioni di sicurezza interna. Il governo statunitense, con questa misura, conferma la volonta’ di mettere al centro della propria azione diplomatica l’intenzione di combattere la crescente violazione dei diritti fondamentali dell’uomo anche in maniera preventiva. Obama prosegue nella direzione delle buone intenzioni, che pero’ in molti casi restano solo sulla carta. La promessa elettorale di chiudere Guantanamo e’ rimasta, in concreto sulla carta. Conciliare questa evidente violazione non solo dei diritti umani, ma anche della legislazione internazionale appare subito un contrasto evidente dalle parole del persidente statunitense. Come sara’ altrettanto difficile conciliare la misura appena varata con le visite dei funzionari e dei membri governativi, che guidano potenze economiche emergenti, che non brillano certo per il rispetto dei diritti civili. Il primo pensiero va alla Cina, con cui i rapporti economici con gli USA sono sempre piu’ stretti, ed e’ stata spesso oggetto di critiche, proprio su questo tema, da parte dell’ammnistrazione americana. La difficolta’ di applicare la nuova norma sara’ presumibilmente aggirata con l’opportuna discrezionalita’ di ogni singolo caso, ottenendone cosi’ la reale vanificazione. Certamente e’ presto emettere un giudizio cosi’ drastico ma le premesse non sono certo incoraggianti, d’altronde e’ la stessa azione complessiva di Obama che si e’ afflosciata appiattendosi su posizioni molto lontane da quelle di partenza e che quindi fa legittimamente dubitare, che una norma cosi’ giusta non vada aldila’ delle buone intenzioni.

giovedì 4 agosto 2011

La pena di morte ancora troppo praticata nel mondo

Il rapporto dell'associazione "Nessuno tocchi Caino" sulla pratica della pena di morte nel mondo, registra una sensibile diminuzione della condanna capitale. Ma nonostante questo dato ancora troppi paesi fanno uso della pena di morte come sanzione penale, per contrastare sia fenomeni delittuosi di tipo comune, che di tipo politico. E' significativo che la maggior parte di paesi dove si pratica questo tipo di pena siano dittature o regimi illiberali, che sovente nascondono reati politici dietro a sentenze di altra natura. La Cina è di gran lunga in testa alla classifica con oltre 5.000 esecuzioni. Pechino ha ridotto i reati passibili della pena capitale, ma la crescente industrializzazione del paese avanza di pari passo con la corruzione, male sociale endemico nella Repubblica Popolare cinese, che i tribunali sanzionano spesso con la pena capitale. L'Iran ha incrementato le condanne a morte, anche in ragione delle sommosse politiche, e le commina anche verso gli omossesuali. Al terzo posto la Corea del Nord dove le esecuzioni sono state 60. Va detto che dietro i dati ufficiali ci sono diverse situazione dubbie che potrebbero rientrare nella casistica ma per ragioni di opportunità non vengono denunciate dagli stati stessi. Nella triste classifica figurano al quinto posto, dopo lo Yemen, anche gli Stati Uniti, dove la pena di morte è ancora vigente in alcuni stati; è singolare che un paese che si vanta di esportare la democrazia, si trovi così in alto nella graduatoria delle nazioni che usano la condanna capitale. Tuttavia esistono casi di stati dove si discute del reintegro della pena di morte come Panama ed addirittura il Regno Unito, dove recenti casi di assassinio di minori hanno ridestato la voglia del patibolo. La questione comunque, va letta in un discorso più ampio: dove esiste la pena di morte sovente mancano anche le garanzie della presenza dei diritti più elementari dell'individuo, la pena capitale, costituisce cioè, una spia spesso inequivocabile della mancanza di democrazia e diritti civili e politici.

Assad concede il multipartitismo

Sotto la pressione dell'opinione pubblica internazionale il presidente siriano Assad, prova ad allentare la stretta concedendo alla Siria il multipartitismo. Il decreto emanato attua una legge approvata il 24 luglio scorso dal governo e rende effettivo il provvedimento senza il passaggio in parlamento. I nuovi partiti, o meglio le condizioni perchè un partito venga riconosciuto dalla legge, devono essere costituiti non su base tribale o da non siriani e non devono disporre di forze paramilitari, inoltre il finanziamento deve essere trasparente. La riforma che ammette il pluripartitismo è una delle più richieste dal popolo siriano e la sua mancata concessione, fino ad ora, è tra i motivi delle proteste che stanno trascinando il paese nell'abisso della repressione. Dal 1963 al potere vi è un unico partito, il Baath, che vede sancita nella costituzione la sua unicità.
Tuttavia nel contesto attuale, dove ogni giorno si registrano diverse vittime della repressione, oltre alla sempre maggiore negazione dei diritti individuali, questa nuova norma, oltre alla possibilità di essere interpretata come una provocazione, è accolta con profondo scetticismo, sia nel paese che all'estero. In verità la mossa sembra un tentativo di guadagnare tempo, per distogliere la profonda attenzione a cui è sottoposta la Siria, anche perchè l'attuazione del cambiamento in regime pluripartitico non sarà senz'altro un processo rapido.

Gli USA non saranno più il gendarme del mondo?

Dietro alla risoluzione della questione del debito USA c'è una mutazione genetica della politica americana. L'affermazione della tendenza del movimento del tea-party, vero regista dietro le quinte delle trattative indica che sull'espansionismo a stelle e strisce sta calando il sipario. Quella che si sta affermando è una tendenza quasi introspettiva, che obbliga gli Stati Uniti a guardare al loro interno, cioè con maggiore attenzione alle problematiche di politica interna ed alle sue connessioni. Il taglio concordato alla spesa militare è la prova più tangibile di questo indirizzo. Il vecchio Partito repubblicano mai avrebbe permesso la decurtazione del bilancio della difesa, che è la leva per portare la bandiera americana nel mondo. L'avversione maturata in questi anni verso le guerre condotte a partire dall'amministrazione Bush senior, che hanno gran parte della responsabilità del grande debito pubblico americano, ha contagiato sia i democratici, che questa nuova branca di conservatori, che non riconoscendosi più nella vecchia politica repubblicana, hanno trovato asilo nel movimento del tea-party. In effetti più che un rifugio è una rifondazione della destra americana, che il partito repubblicano non ha ne inteso, ne intercettato i sentimenti, restando indietro nel suo sviluppo, fino a diventarne ostaggio in sede parlamentare. Le implicazioni in politica estera della nuova tendenza americana sono evidenti: si sta andando verso la fine del ruolo di gendarme mondiale degli Stati Uniti; del resto si sono già avute delle avvisaglie con la crisi libica, dove gli americani si sono tenuti volontariamente in retroguardia, lasciando a Francia e Regno Unito il ruolo di protagonisti. Senza più un paese che si accolli, a torto o a ragione, questo fardello, si apre uno spazio per potenze emergenti ma anche per un ruolo più incisivo delle Nazioni Unite, che potrebbero finalmente recitare in maniera fattiva lo scopo per il quale sono state create.

mercoledì 3 agosto 2011

La manovra USA non incontra i favori del mondo economico

Il mondo economico e finanziario non mostra di apprezzare la manovra USA. La montagna democratico - repubblicana ha partorito un topolino, che non è stato gradito dalle borse. La Cina, che detiene una grossa fetta del debito americano, boccia in maniera assoluta l'intesa americana giudicandola priva di effetti tangibili. La sensazione, a livello mondiale, è che manchi una programmazione strutturale che, mediante fatti concreti, operi sulla giusta via dell'aggiustamento definitivo del debito USA. Sui mercati le sensazioni negative hanno provocato un effetto domino causando cali consistenti su tutte le piazze mondiali. In Europa preoccupa la situazione di Italia e Spagna che sono al centro dell'attenzione degli speculatori. Dunque, per il momento gli USA si salvano alzando l'asticella del debito, ma lasciano in sospeso la propria economia ed a ruota quella del resto del mondo. Nonostante si sia scongiurato il default il futuro resta incerto, il primo pericolo e' che la mancanza di ripresa, che pare davvero difficile con questi provvedimenti, inneschi un fenomeno deflattivo capace di provocare un avvitamento della situazione economica USA su se stessa, con il risultato di un blocco dei consumi, che andrebbe a paralizzare, di conseguenza la produzione e quindi, di seguito, aumento esponenziale della disoccupazione. In questo quadro la tenuta della società USA sarebbe messa a dura prova, anche considerando i tagli previsti proprio sul welfare dall'accordo concluso tra i due partiti americani. La situazione richiederebbe degli interventi contraddistinti dalla velocità di decisione e di esecuzione di misure drastiche e risolutive, ma la scadenza elettorale obbligherà il governo USA, in ostaggio del numero maggiore di componenti del partito repubblicano, avverso nel ramo legislativo, a provvedimenti di ordinaria amministrazione per non urtare i rispettivi elettorati. Possono gli Stati Uniti e di conseguenza l'intera economia mondiale permettersi di aspettare ancora un anno, prima di arrivare al superamento della data di elezione del Presidente americano? La risposta lapalissiana ancora una volta porta ad un ragionamento sulla scarsa importanza degli organismi internazionali ed il loro sotto utilizzo. Quando gli stati da soli non riescono a colmare i loro gap strutturali e di capacità occorrerebbe un intervento ulteriore dall'alto capace di imporre una regolamentazione a tutto vantaggio dell'intero sistema. Sembra fantascienza ma risolverebbe molti problemi.

martedì 2 agosto 2011

Israele cerca di allontanare la discussione ONU sulla Palestina

Avvicinandosi la fatidica data di settembre, Israele prova in tutti i modi a dissuadere i palestinesi a richiedere l'adesione all'ONU. L'ultima soluzione proposta è la negoziazione sulla base della situazione del1967. L'offerta pare un estremo tentativo per evitare una capitolazione diplomatica israeliana di fronte al mondo. Anche se appare difficile un riconoscimento, per l'opposizione USA, il solo fatto di potere presentare la domanda ed eventualmente essere ammesso come osservatore, darebbe al nascente stato di Palestina una dignità molto più importante dell'attuale. La nuova dimensione infastidisce Israele, che sopratutto, potrebbe vedrebbe sanzionati gli atti violenti perpetrati ai danni dei palestinesi. Ma la proposta non pare sincera e sembra a tutti gli effetti un tentativo per guadagnare tempo in modo da bloccare il processo di riconoscimento dell'ONU. Infatti i palestinesi hanno più volte richiesto proprio, come base di partenza i confini del 1967, compresa la parte est di Gerusalemme. Questa condizione è stata più volte rigettata da Tel Aviv e la politica degli insediamenti fino ad ora praticata risulta essere coerente con la condotta del governo israeliano. Non pare sufficiente la promessa di Netanyahu senza una messa in pratica degli smantellamenti degli insediamenti nelle zone contese.
In effetti i fondamenti della volontà di procedere con nuovi negoziati di pace, da parte israeliana sono sempre stati subordinati ad una nuova discussione delle frontiere, sulla base delle mutate esigenze demografiche del paese della stella di David. Tutti questi indizi concorrono a sospettare della proposta del premier israeliano, ed interpretarla come mero tentativo di allontanare la discussione delle Nazioni Unite.

L'escalation della crisi siriana

L'escalation della violenza della repressione siriana indigna, anche se con ritardo le cancellerie e la diplomazia internazionale. I sanguinosi scontri di Hama hanno finalmente risvegliato le paludate coscenze di chi si occupa di affari internazionali. Almeno cento i morti per le strade di Hama, che risulta sottoposta ad un vero e proprio stato d'assedio, con interi quartieri senza luce ed acqua ed con i civili falciati dalle raffiche di mitragliatrice dell'esercito. Anche a Deraa, Harasta, periferia di Damasco ed a Deir Ezzor, nella parte orientale del paese il maglio della repressione si è abbattuto violentemente sugli oppositori del regime, con i cecchini appostati sui tetti che hanno sparato sulla folla. Nella società siriana oramai l'avversione al regime ed ai suoi alleati, in principal modo gli Hezbollah, è ormai tangibile e non più sanabile e potrebbe prendere corpo anche una divisione del paese, con le zone sfavorite dal regime pronte a staccarsi da quelle che godono di maggiori privilegi, come Aleppo. La Siria, oltre ai disordini, sta patendo una inflazione galoppante, che costringe il regime a repentini, ma insufficienti, aumenti degli stipendi delle forze armate, ormai unico strumento di mantenimento del potere. Anche il petrolio scarseggia e la dipendenza dal greggio iraqeno diventa sempre più indispensabile. E' in questo quadro che la diplomazia internazionale comincia ad interessarsi in maniera più consistente del problema Siria. Gli appelli a fermare le violenze sono pervenuti uda tutto il panorama occidentale, ma il più importante è venuto dalla Russia, nazione tradizionalmente amica della Siria, che ha rotto il proprio riserbo chiedendo una esplicita fine della violenza. In ambito europeo è presente una iniziativa congiunta di Germania ed Italia, che presso l'ONU richiedono un inasprimento delle sanzioni, in modo da mettere in ginocchio il regime dal punto di vista economico. Ma la dichiarazione più pesante è stata quella del ministro degli esteri britannico, Hague, che non ha escluso un intervento armato per ottenere la fine dell'uso della violenza sui civili da parte delle forze di Assad. L'ipotesi, tuttavia è ancora remota, la NATO, per il momento si dichiara contraria ad un ulteriore impegno militare, con lo sforzo libico in corso, ed in generale prima di intervenire in armi in Siria occorre considerare attentamente l'alleanza di Damasco con l'Iran. E' questo l'aspetto più pericoloso del problema siriano, infatti se Assad dovesse perdere il potere come potrebbe reagire Teheran, che giudica la Siria un punto chiave della sua politica estera? Per il momento a parte prendere posizione ufficiale contro le proteste, l'Iran non è andato, anche se in via ufficiosa si sospetta che effettivi dei Pasdaran abbiano partecipato alle repressioni. Nel frattempo la Turchia continua ad essere in allerta nel timore che la rivolta siriana coinvolga ad un livello più alto dell'attuale il problema curdo. Come si vede la necessità di un intervento dell'ONU, come agente capace di portare la calma, è sempre più necessario.

lunedì 1 agosto 2011

La parabola di Obama

L'accordo sul debito USA pone delle riflessioni sull'andamento dell'azione politica di Barack Obama. In primo luogo si assiste ad un accentramento sempre maggiore delle posizioni politiche del presidente Obama, che ha vinto le elezioni partendo come progressista e si ripresenterà invece soltanto un poco più a sinistra dello schieramento repubblicano. Obama è vittima, in primo luogo di se stesso, ha generato troppe aspettative che non ha potuto mantenere, finendo per appiattirsi su schemi consolidati, dovuti ad un esercizio politico diventato stanco. I grandi stravolgimenti sociali, basati su di una nuova distribuzione del reddito, dopo una partenza incoraggiante, sono rimasti poco più che lettera morta. La mutata situazione politica non ha fatto che imbrigliare definitivamente quello che doveva essere il new deal del ventunesimo secolo. Chi guardava con fiducia alla trasformazione della società americana verso una dimensione di maggiore equità è restato deluso. E' vero che la situazione contingente non lasciava molte vie d'uscita, scongiurare la bancarotta, anche come responsabilità mondiale, era diventato prioritario di fronte ad ogni altra ragione, tuttavia questa è stata la logica conclusione di una azione assente precedentemente. Quella che è mancata è stata l'azione di contrasto alle lobby ed ai grandi gruppi che hanno osteggiato da subito le intenzioni del presidente. La manovra che doveva avere una ampiezza su più temi è arrivata a ridursi all'annientamento di Bin Laden, come atto dimostrativo e di forza, più che altro simbolico. Essere ostaggio di un parlamento repubblicano, a sua volta prigioniero del Tea Party, ha costretto l'amministrazione Obama a rivedere i propri programmi, ma così non è lo stesso presidente eletto dal corpo elettorale. Alle prossime elezioni quello che si presenterà sarà un Obama con minore appeal. Anche il nocciolo dell'accordo per salvare gli USA dal default preannuncia un anno dove non ci saranno grandi stravolgimenti, si tirerà a campare in attesa dell'appuntamento elettorale, mantenendo un basso profilo sia sul fronte interno che quello esterno. Un anno di ordinaria amministrazione, senza slanci ne emozioni, guardando l'evoluzione dei freddi numeri, nella speranza di avere qualche buona notizia.