Politica Internazionale

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lunedì 31 gennaio 2011

Israele preoccupato per la situazione in Egitto

Israele esprime vive preoccupazioni per la situazione egiziana e conferma il suo appoggio a Mubarak. La dichiarazione esplicita e chiara nei tempi e nei modi esprime lo stato di agitazione che si vive nel paese della stella di David. Fino a questa dichiarazione ufficiale Israele ha tenuto un basso profilo non solo sulla crisi egiziana ma riguardo anche a quelle che si stanno sviluppando nella sponda sud del Mediterraneo. Basso profilo non significa però disinteresse, l'attività diplomatica di Tel Avivè stata diretta ed intensa verso quei paesi occidentali che, in qualche modo con le loro dihiarazioni hanno portato sostegno alla rivolta popolare al Cairo. Per Israele Mubarak rappresenta la garanzia del rispetto degli accordi di Camp David in vigore dal 1978 e mai messi in discussione da parte egiziana. Ciò ha permesso, su quel fronte, una situazione sicura ed assodata per Tel Aviv, da non mettere più in discussione.Israele nelle comunicazioni diplomatiche ha asserito che è preferibile la stabilità che la mancanza di democrazia. E' chiaro che questa visione è maggiormente funzionale allo stato israeliano che teme la possibile affermazione, in una competizione elettorale scevra da controlli, di movimenti islamici di natura integralista. Tuttavia la preoccupazione appare legittima, Israele potrebbe ritrovarsi ai confini un paese dove lo status quo è stato sovvertito e che quindi potrebbe volere ridiscutere da capo un accordo ormai consolidato nel tempo, questo creerebbe una pericolosa falla nel sistema difensivo del paese. Tel Aviv teme di essere stretta in un abbraccio mortale da vicini pesantemente influenzati da posizioni integraliste, con la minaccia sempre viva dell'Iran teocratico. I paesi occidentali hanno di fatto appoggiato la rivolta egiziana, bisogna vedere, se come pare c'è qualcosa di più; quello messo in moto nelle vie del Cairo appare un processo inevitabile da cui non si torna indietro quindi non pare peregrina l'idea di cercare di influenzare la transizione democratica verso soluzioni che salvaguardino il mondo intero da una pericolosa escalation in senso religioso. Per il momento appare difficile fare un pronostico data la molteplicità degli attori in campo e la situazione è di totale incertezza; rimane da augurarsi che la vicenda prenda una direzione che sia conveniente al popolo egiziano ma che non comprometta delicati equilibri che risultano decisivi per la pace mondiale.

Il Pakistan aumenta il suo arsenale nucleare

Il Pakistan ha accelerato la produzione di testate nucleari portando il numero in suo possesso a più di cento; fino a quattro anni fa sia calcola che il numero fosse tra le trenta e sessanta unità. La maggior parte di queste testate sono schierate lungo la frontiera con l'India, la quale, a sua volta dispone di un proprio arsenale nucleare, seppure valutato in misura leggermente minore. Mentre l'India cresceva economicamente, forte di una progressiva democratizzazione tesa a modernizzare il suo tessuto economico e sociale, il Pakistan restava impigliato in una fase di riforme incompiuta ed ostaggio di gruppi religiosi estremisti. Certo ha pesato la linea di confine con l'Afghanistan rifugio delle milizie Talebane e teatro di sempre maggiori scontri, inoltre da non trascurare le catastrofi naturali che hanno messo in ginocchio un paese già in difficoltà economica. Tuttavia malgrado queste condizioni avverse i dirigenti pakistani hanno sempre ostentato un comportamento ambiguo con l'unico alleato potenziale che potesse trarli d'impaccio dalla difficile situazione. Con gli Stati Uniti il rapporto non sempre è apparso leale nella guerra afgana, determinando spesso scontri, anche pesanti sul piano diplomatico. I problemi maggiori sono le relazioni con il servizio segreto pakistano che viene sospettato di attuare una vera e propria politica doppiogiochista in combutta con le milizie talebane. In altre aree il potere effettivo è esercitato su base tribale con modalità completamente distaccate da Islamabad ed in definitiva la nazione pakistana è un territorio dove il potere del governo centrale è limitato e di fatto, come sostengono alcuni osservatori, alla sola capitale e nelle zone immediatamente circostanti. In questo quadro drammatico una ragione di coesione è l'avversione nazionalistica alla vicina India, che suscita ulteriori invidie per la sua crescita economica. Secondo George Perkovich, specialista in non proliferazione nucleare della 'Carnegie Endowment for International Peace' si tratta di una riequilibrazione psicologica per il popolo pakistano perseguitato dal complesso di inferiorità con l'India. In ogni caso siamo di fronte ad una guerra fredda su scala locale che non promette niente di buono: il mondo intero deve interrogarsi sulle misure di sicurezza delle testate pakistane a chi sono in mano e sopratutto a chi potrebbero finire. Sul piano dipomatico l'India ha trovato una sponda nella Russia in virtù della collaborazione economica tra i due paesi, Mosca ha manifestato pubblicamente disaccordo circa la proliferazione pakistana. Va comunque ricordato che nessuno dei due paesi ha sottoscritto il trattato di non proliferazione nucleare, sono le uniche due nazioni in possesso di armi nucleari a non averlo fatto in compagnia di Israele.

sabato 29 gennaio 2011

La Palestina riconosciuta dal Paraguay

Lo stato Palestinese è stato riconosciuto dal Paraguay come stato libero ed indipendente all'interno delle frontiere del del 1967. Il processo di riconoscimento della Palestina come stato è un processo ormai avanzato nel continente sudamericano, sono infatti già dodici gli stati che hanno formalmente compiuto il passo diplomatico del riconoscimento ufficiale; mancano soltanto Uruguay, Suriname e Colombia. I primi due procederanno al riconoscimento durante il 2011, mentre per la Colombia non è previsto alcun passo in questa direzione perchè Israele è ritenuto un alleato militare strategico. I dirigenti palestinesi hanno investito molto lavoro diplomatico per aumentare il riconoscimento del proprio stato, infatti l'aumento del numero dei riconoscimenti è giudicato essenziale per le loro rivendicazioni davanti al consiglio di sicurezza dell'ONU. Questa soluzione è da intendersi come via pacifica alla costituzione dello stato palestinese e dovrebbe essere incoraggiata da tutto il mondo diplomatico mondiale per porre fine all'annosa questione con israele. La costituzione dello stato palestinese sarebbe una pietra miliare per scongiurare il pericolo dell'uso dell'opzione militare. Da rilevare l'omogeneità di comportamento degli stati sudamericani che, sebbene in maggioranza siano alleati degli USA, dimostrano una certa indipendenza nella politica estera, testimone di una sempre maggiore autonomia dei paesi del continente, impensabile fino a due decenni addietro.

Argentina e Brasile si alleano per il nucleare pacifico

Argentina e Brasile diventeranno il nuovo polo nucleare del sud america. La carenza delle risorse energetiche obbliga i paesi a sganciarsi sempre più dal giogo petrolifero, inoltre la lotta all'inquinamento atmosferico sta diventando sempre più una bandiera dietro la quale crescono i seguaci. Argentina e Brasile intendono unire gli sforzi e sfruttare le sinergie di un'alleanza tesa a costruire a medio termine un reattore nucleare che garantisca una certa indipendenza energetica per i due paesi. Nell'immediato è presente la volontà di iniziare un percorso comune di ricerca sfruttando le conoscenze maturate da Buenos Aires per la costruzione di reattori nucleari e le risorse presenti nel colosso brasiliano. Naturalmente nell'accordo viene più volte sottolineata la natura pacifica della ricerca comune, anche in forza dell'adesione dei due paesi alla rinuncia alle armi atomiche. E' significativo che i capi di stato dei due paesi che hanno portato alla firma dell'accordo siano due donne; l'accordo di natura economica mira a proiettare i due paesi all'avanguardi della risoluzione del problema energetico ma pone anche interrogativi di tipo diplomatico su iniziative analoghe portate o che saranno portate avanti da altri paesi. Il caso dell'Iran è esemplificativo, tuttavia la discriminante è la rinuncia esplicita all'arma atomica e la disponibilità continua ad ispezioni di organizzazioni sovranazionali che certifichino i fini pacifici della ricerca e dello sviluppo dei progetti. Dal punto di vista geopolitico appare assai rilevante l'evoluzione dei due paesi più importanti della regione sudamericana, il sudamerica investe risorse per diventare sempre più protagonista e restare sul mercato globalizzato investendo in tecnologia avanzata, l'unico strumento possibile per sganciarsi dallo strapotere delle superpotenze.

venerdì 28 gennaio 2011

La sponda brasiliana per Obama

Il recente cambio al vertice del governo brasiliano rafforzerà le relazioni bilaterali tra Stati Uniti e Brasilia. La nuova presidente del colosso sudamericano ha visioni diverse rispetto al predecessore, visioni che collimano con la politica estera americana e sulle quali Obama intende sviluppare un dialogo sempre più fitto. L'aspetto più rilevante è il cambiamento circa la questione iraniana, Lula ha sempre mantenuto un aspetto di neutralità rispetto al problema nucleare di Teheran, sostenendo la legittimità per la repubblica teocratica di effettuare ricerche sullo sviluppo nucleare come fonte di energia alternativa, senza entrare nel merito dei possibili sviluppi militari. La Rousseff non ha la stessa opinione e teme l'atomica in mano al regime iraniano. Per Obama significa trovare un alleato importante, il peso specifico del Brasile è in notevole crescita, le riforme economiche volute da Lula hanno fatto salire la considerazione del paese verdeoro sia sul piano economico che su quello politico, premettendogli di ritagliarsi sempre maggiore importanza nella regione. La politica della nuova presidente pare tendere ad una maggiore importanza sulla scena politica internazionale proprio in forza della potenza economica. Il Brasile attuale ha laforza per imporsi anche tra i giganti che dominano la diplomazia mondiale. La forte personalità della nuova numero uno di Brasilia e dei suoi programmi ha già attratto molti consensi tra gli opinionisti internazionali in forza della sua visione dello sviluppo sostenibile, della ripartizione del reddito e della ricerca delle energie alternative e rinnovabili. Proprio per questo pare il naturale partner di Obama con il quale condivide gran parte della visione politica d'assieme. Inoltre per un paese come gli USA, sempre alla ricerca di alleanze per contenere lo strapotere cinese portare dalla propria parte il Brasile siginifica un successo di portata enorme sul piano diplomatico, economico ed in un futuro possibile anche militare. Su quest'ultimo piano è significativo l'acquisto proprio dagli Stati Uniti da parte del Brasile di una consistente partita di aerei da guerra per la propria aviazione militare. La prossima visita in Brasile di Obama suggellerà questi valori comuni in una relazione sempre più stabile.

giovedì 27 gennaio 2011

Il destino dei paesi in rivolta

Le rivolte che stanno caratterizzando i paesi arabi della sponda sud del Mediterraneo si stanno allargando, è di oggi il caso dello Yemen, dove la protesta è scesa nelle strade, mentre in Siria si chiudono i social network per evitare le comunicazioni tra la popolazione. Pare importante analizzare il momento storico, l'attuale, in cui si sviluppano questi moti di piazza in società e contro governi con caratteristiche differenti. Il dato comune è la crisi economica che ha fatto precipitare in situazione di povertà vasti strati sociali tra cui anche quelli che godevano del favore dei regimi; qui si innesta la cattiva gestione delle ricchezze di alcuni paesi colpiti dalle rivolte, Tunisia ma sopratutto Algeria sono ricche di materie prime e con una redistribuzione più equa avrebbero permesso un maggiore favore verso i governi in carica. Peraltro questi governi sono tutti caratterizzati da una negazione dei diritti civili, chi in forme più violente e repressive, chi in maniera più attenuata ed hanno un'altra caratteristica comune il sostegno occidentale, fornito più che altro per impedire l'avanzata al potere dei partiti mussulmani. Si tratta di una strategia politica comprensibile dopo gli errori fatti in nazioni come l'Iran ma con una attuazione fondamentalmente miope, giacchè non ha previsto una crescita in senso democratico dei paesi in questione e si è limitata al mantenimento dello status quo. La facilitazione portata da internet ha permesso alla popolazione di sfuggire, anche se parzialmente, al controllo delle autorità e della censura, consentendo una coordinazione dei manifestanti, i quali oltre alle cause di natura economica sono spronati dalla presa di coscienza di vivere senza i diritti democratici, grazie al continuo scambio di idee dovuti ai mezzi di comunicazione ed anche dal grande tasso di emigrazione verso i paesi occidentali. Ci troviamo di fronte a società in continua evoluzione, ma schiacciate, nella loro forma di rivolta, tra istanze politico economiche e religiose. Gli strati sociali sono attratti dalla vita occidentale dove sono assicurati i diritti politici ma contemporaneamente sono affascinati dalla tradizione religiosa ed ondeggiano tra voglia di modernità e tradizione. Entrambi le cose sono state negate dai regimi oggetto di rivolta, la modernizzazione culturale e politica è stata stroncata per il mantenimento dei ceti al potere e la tradizione religiosa è stata avversata perchè la laicità è più facile da arginare. Il risultato è che abbiamo paesi in rivolta dove a guidare gli insorti non si ha una classe dirigente preparata ad affrontare una transizione sia in un senso che nell'altro. Ciò potrà creare, a seconda del risultato, un pericoloso vuoto di potere che potrebbe essere riempito da movimenti estremisti con le conseguenze facilmente immaginabili. Sono proprio le possibili conseguenze, il destino che ne sarà, il tratto più comune tra tutti questi paesi in subbuglio: una incertezza totale per come andrà a finire, non si può cioè prevedere come per i paesi dell'Est europeo un finale democratico, qui l'incognita religiosa è troppo rilevante.

mercoledì 26 gennaio 2011

Obama rafforzato dal discorso dell’unione

Il discorso di Obama sullo stato della nazione ha riportato alla ribalta, tra gli altri, il tema della supremazia mondiale degli Stati Uniti. Su questo tema il popolo statunitense è molto sensibile, l'argomento permette di fare leva sull'unità della nazione e consente di trattare temi molto scottanti da prospettive differenti da quelle della polemica politica infuocata, che ultimamente ha caratterizzato la scena americana anche per l'irruzione del movimento dei Tea Party. Agli occhi di un europeo la questione della supremazia mondiale può sembrare un inutile orpello, residuato della guerra fredda, ma per gli americani è la chiave di volta per arrivare a parlare dei temi centrali tra cui quelli economici che in questo momento contraddistinguono la discussione. Obama ha illustrato il suo programma per confermare la leadership mondiale, ed i punti contemplano l'incremento delle infrastrutture, l'aumento della quota di PIL per scuola e ricerca per mantenere ed incrementare con sempre nuove soluzioni l'industria americana a livelli di eccellenza. Per reperire questi incrementi relativi ai capitoli di bilancio appositi il governo americano deve però diminuire altre voci di spesa che sono state individuate nella riduzione delle spese militari e nei contributi all'industria petrolifera. La destra avrebbe preferito la riduzione della spesa sociale, ma le due risposte differenti al discorso dello stato dell'unione hanno rivelato una profonda divisione tra Partito Repubblicano e Tea Party, che di fatto rafforzano il presidente in carica.

martedì 25 gennaio 2011

Sulla Corea

La trasformazione capitalistica, ma non democratica, della Cina ha, di fatto, causato l'inutilità del dinosauro nordcoreano. Le guerre più importanti non sono quelle militari nello scenario globalizzato ma sono quelle di natura economica; avere ai confini un burosauro comunista con l'economia bloccata al livello di sussistenza significa precludersi un potenziale mercato di notevole portata; non solo significa anche non potere disporre di una possibile manodopera a basso costo. Questo se la Corea del Nord intraprendesse da sola la strada della modernizzazione in senso capitalistico; ma questa evenienza è considerata poco probabile dalla stessa Cina: troppo ingessata la politica economica dei governanti di Pyongyang, troppo arretrata la loro visione, troppo indietro la totalità del tessuto culturale del paese tenuto di troppo basso livello dalle miopi strategie del governo. Ma esiste un'alternativa, forse meno conveniente per Pechino, ma capace di generare un indotto non certo indifferente. Si tratta di scaricare i costi di questo processo sulla Corea del Sud mediante l'unificazione in un unico paese, una sola Corea. I dirigenti sudcoreani da tempo stanno pensando a questa soluzione sia per ragioni nazionalistiche sia per ragioni economiche, anche se c'è chi all'interno del paese giudica troppo costosa l'operazione: anche per una tigre asiatica con il pil in aumento a due cifre l'esborso dello stato per la riunificazione sarebbe un salasso assai pesante (si pensi all'unificazione della Germania, dove la parte est non era certo così arretrata come la parte nord della Corea). A Pyongyang sanno di queste velleità di Seul e sono questi i veri motivi che hanno scatenato l'offensiva militare recente; quello che non si aspettavano era il progressivo sganciamento cinese, che aldilà di dichiarazioni ed operazioni di facciata con l'alleato nordcoreano, sta operando una strategia di allontanamento dalla parte nord del paese. La Corea del Nord non ha altri alleati a cui raccomandarsi e se questo isolamento si concretetizzerà con la progressiva diminuzione degli aiuti cinesi per il regime sarà la fine. Da considerare anche che la Cina non vede di buon occhio un paese, ancorchè alleato, ai suoi confini con la disponibilità della bomba atomica. La strategia Sudcoreana, invece, si gioca su due tavoli: sul primo cosciente delle esigenze cinesi di espansione commerciale punta alla riunificazione per offrire un mercato a due velocità al colosso di Pechino, parte nord in espansione e parte sud con un mercato più esigente perchè parte da condizioni economiche più floride, ma anche capace di un notevole interscambio economico. Molto interessanti anche i risvolti dell'altro lato del tavolo: gli USA. L'ambizione sudcoreana di un paese unito punta alla strategia verso l'america con maggiori implicazioni geopolitiche, giacchè vuole essere il maggiore alleato di Washington nella regione scavalcando il Giappone, senza tralasciare le aperture economiche anche in quella direzione. In conclusione la strategia sudcoreana appare spregiudicata ma con notevoli possibilità di riuscita perchè tocca interessi graditi ad entrambi gli attori più forti sulla scena, ma attenzione, il nord ha l'atomica ed il regime che non si rassegna ad abdicare potrebbe tentare qualche brutto colpo di coda; solo la diplomazia non avventata e la giusta pressione internazionale possono scongiurare pericolosi sviluppi.

lunedì 24 gennaio 2011

Commissione UE Albania per i disordini nel paese delle aquile

L'Albania, teatro recente di disordini legati ai problemi economici e politici del paese e candidato potenziale all'ingresso della UE, potrebbe essere oggetto di un inchiesta congiunta condotta da una commissione mista composta da rappresentanti del parlamento europeo e da parlamentari albanesi. La decisione non è stata accolta unanimemente dai componenti del parlamento del paese delle aquile, infatti l'opposizione ha disertato la votazione con il risultato di consegnare alla contestata maggioranza la decisione ed il merito di queto importante atto. Per la UE è un'occasione unica di potere esercitare il suo magistero con una duplice valenza: da un lato conoscere dall'interno la situazione di un paese già geograficamente e culturalmente in Europa e comunque destinato ad entrarvi ufficialmente in un futuro più o meno lontano, dall'altro lato si presenta una situazione che permette di risollevare un prestigio ultimamente un poco appannato. Una inchiesta condotta in modo imparziale che possa portare ad un risultato limpido e veloce potrebbe essere un peso da gettare sulla bilancia della diplomazia che conta, area dove ultimamente la UE non ha brillato per protagonismo. Per l'Albania aprire le porte in maniera così ufficiale ad un organismo così importante significa un modo per entrare dalla porta principale a contatto con le grandi organizzazioni internazionali e proporsi come partner accreditato per importanti sviluppi futuri. Resta sul tappeto la situazione di un paese che sfiora la povertà per una parte sempre maggiore della sua popolazione, un paese che non riesce ad attrarre in modo consistente investimenti stranieri per la difficile situazione relativa al problema della malavita e delle mafie sempre più diffuse grazie alla posizione geografica del paese vero e proprio crocevia di traffici internazionali di armi e di droga, un paese carente di infrastrutture che paga ancora lo scotto del lungo isolamento dovuto al contrasto del regime con l'URSS. Per la UE, seppure indirettamente sarebbe anche un momento da sfruttare per incrementare la cooperazione per risolvere, almeno in parte i problemi di cui sopra così che sia permesso completare il lungo processo di europeizzazione della penisola balcanica.

venerdì 21 gennaio 2011

Lo sviluppo africano ed il modello cinese

Spesso si parla, giustamente, della crescita forte di Cina, India e Brasile e li si raffronta all'immobilismo economico occidentale gravato da crisi finanziarie dovute a speculatori senza scrupoli; si tralascia, invece colpevolmente, di analizzare il grande fermento che sta vivendo il continente africano. Per fare un esempio nel 2010 il PIL dell'Angola è cresciuto più di quello cinese, ma si potrebbero portare altri esempi di incrementi consistenti di nazioni africane. La crescita economica non è stata univoca ed omogenea all'interno del continente, ci troviamo di fronte ad un gigante dalle enorme potenzialità ma con ancora troppe contraddizioni in seno, tuttavia il la è stato dato e quella a cui si assiste è una trasformazione epocale non solo in senso economico ma anche in senso sociale. Va detto che spesso dietro a questo boom economico vi è la Cina che affamata di materie prime ha sviluppato accordi commerciali vantaggiosi per entrambe le parti contribuendo alla costruzione di infrastrutture necessarie per fare da volano allo sviluppo economico. La politica estera cinese segue tradizionalmente la direttrice di non influenzare l'andamento politico dei paesi esteri, anche in quelli in cui si trova ad operare, questo tratto distintivo, ha, di fatto, permesso un approccio profondamente diverso da quello occidentale da sempre tradizionalmente inserito in trame e manovre spesso sfuggite di mano. L'approccio soft della Cina, orientato al guadagno, ha permesso un salto economico consistente grazie a trattative condotte su di piani sostanzialmente paritari, anzichè l'uso del paternalismo di convenienza occidentale. Proprio l 'occidente deve trarre insegnamento da questa vicenda, sono state molte le occasioni di sviluppo compatibile andate perse per miopia conclamata, con il risultato di rinforzare la tigre cinese e sopratutto la sua percezione al contrario di quella dell'occidente; potenzialmente questo fatto è ancora più pericoloso delle occasioni perse sul piano economicoperchè potrebbe fare apprezzare il modello cinese del capitalismo senza democrazia. In Africa si sta sviluppando un ceto sociale di media borghesia in grado di fare girare i soldi che guadagna incrementando un mercato interno in modo sostanzioso, come ogni ceto borghese acquista auto, case, beni di consumo e fa studiare i figli, gode cioè di un benessere sempre più diffuso, anche se si tratta ancora di porzioni minoritarie del totale degli africani, questo ceto emergente può essere in grado di influenzare l'opinione pubblica proprio in forza dei gradini saliti sulla scala sociale. In un continente spezzettato in tanti stati, tra cui diversi governati con tendenze autoritarie, il possibile l'affermarsi del modello cinese deve essere visto dall'occidente come una minaccia, avere alle porte tante piccole Cina, dove i diritti umani vengono negati sistematicamente porrebbe gravi problemi diplomatici. In questo gli organismi della UE dovrebbero operare meglio sia sul piano degli accordi economici che di quelli politici, è pur vero che competere con la liquidità cinese è impossibile tuttavia è obbligatorio recuperare il tempo perduto ripensando tutta la strategia di approccio con i paesi africani in un'ottica globale, che, cioè privilegi la visione d'insieme dell'intero continente, seppur tenendo conto delle tante differenze presenti sul campo. Non avendo le disponibilità economiche della Cina occorre puntare sul piano politico trovando accordi di cooperazione e sviluppo basati sul reciproco rispetto, occorre fornire conoscenza e competenze di alto livello in modo da non consentire l'affermazione del modello cinese ma sviluppare le tendenze democratiche esistenti fortificando l'autocoscienza dell'autogoverno e dell'affermazione e sviluppo del godimento dei diritti fondamentali.

giovedì 20 gennaio 2011

Hu Jintao promette attenzione ai diritti umani

La visita del premier cinese negli USA ha fatto registrare importanti dichiarazioni sul piano dei diritti umani. Hu Jintao ha pubblicamente ammesso che la Cina deve migliorare il suo approccio verso l'applicazione dei diritti umani all'interno del suo territorio, l'ammissione include in modo implicito una mancanza di quei diritti considerati elementari nel mondo occidentale. La valenza di questo proponimento è quindi duplice ed impegna pubblicamente quella che ormai è la seconda potenza mondiale in un tema fondamentale per essere riconosciuta tale non solo sul piano economico; ed è proprio questa l'intenzione del leader di Pechino uscire da quella sorta di isolamento politico con cui la Cina viene tenuta a distanza dalla scena politica più importante in quanto deficitaria sul piano dei diritti umani. In realtà la potenza economica cinese permette già un ruolo di primo piano politico che le consente di giocare su più tavoli da protagonista, quello che manca è una sorta di riconoscimento universale che non arriva perchè mancano le garanzie dei diritti umani. Associazioni importanti come Amnesty International o Human Rights Watch, solo per citarne alcune, denunciano sistematicamente la Repubblica Popolare Cinese per l'alto numero di condanne a morte e per l'uso sistematico della tortura per non parlare delle continue violazioni delle libertà di stampa e di espressione, ciò mette il paese continuamente sotto la lente dell'opinione pubblica mondiale e chiaramente in cattiva luce. La Cina ha interesse a migliorare la propria percezione sopratutto nei paesi occidentali dove punta a contare sempre di più, ad avere un più elevato peso specifico sotto il profilo politico e culturale. Il presidente cinese ha spiegato a parziale giustificazione, che la storia e la cultura cinese sono differenti da quella americana ed occidentale, ciò crea delle distorsioni sulla percezione dell'applicazione dei diritti umani, tuttavia se la Cina non si pone sul piano occidentale non avrà i risultati in cui dice di impegnarsi. In realtà senza un adeguato processo democratico è praticamente impossibile assicurare l'applicazione dei diritti umani, se si può prevedere, ed auspicare, una riduzione delle pratiche violente, appare difficile che si attenuino le restrizioni sulla libertà di espressione in regime di partito unico. Sarà interessante vedere in che modo andranno a scontrarsi con questo scoglio le buone intenzioni cinesi, sempre che siano reali.

mercoledì 19 gennaio 2011

Nella sponda sud del mediterraneo pericolo di islamizzazione

I recenti fatti tunisini, giunti alle sollevazioni popolari algerine hanno innescato una situazione di potenziale pericolo per la sponda nord del Mediterraneo. Se, da un lato la situazione potrebbe avere sviluppi positivi indirizzando questi paesi verso una democratizzazione in grado di consentirgli uno sviluppo sociale ed economico che permettesse un salto di qualità per la popolazione, dall'altro il pericolo dell'islamizzazione della società si fa ora più concreto per diversi motivi. Nel caso tunisino il dittatore che governava lo stato con metodi clientelari manteneva il tessuto sociale impermeabile ad una diffusione dell'islam radicale, seppure con metodi anche violenti. Non si vuole, con questo riabilitare una figura certamente negativa che governava con un misto di clientelarismo familiare ed una violenza diffusa, impedendo le normali regole democratiche, il punto è un altro, in casi come quello tunisino la storia ci ha insegnato che le posizioni più radicali sono quelle che meglio intepretano le pulsioni popolari e ne guadagnano i favori nei momenti immediatamente successivi alla cacciata dei dittatori; quello che la Tunisia rischia è di passare da una dittatura terribile ma laica ad una ugualmente terribile ma religiosa. Siamo in un tessuto sociale indebolito da anni di dittatura, che non contiene o non gli contiene abbastanza gli anticorpi per scongiurare e resistere ad una nuova forma dittatoriale sebbene nascosta dietro tendenze plebiscitarie come potrebbe essere l'avvento di un movimento teocratico. Occorre ripensare a casi come l'Iran dove l'iniziale entusiasmo per la caduta del tiranno ha lasciato spazio ad una delusione più profonda per il nuovo potere salito a comandare la nazione. In questi casi il ruolo dell'esercito è fondamentale, se le forze armate vengono coinvolte nel processo di democratizzazione di solito sono un baluardo contro l'estremismo religioso. Ancora più complicata la situazione algerina per la presenza di sacche importanti di estremisti islamici spesso collusi con parti dello stato non proprio propense a regole democratiche, qui ancora più che nella vicina Tunisia il rischio che i fondamentalisti islamici si insedino al potere è concreto. Cosa vorrebbe dire per l'Europa ed in special modo per i paesi che stanno sulla sponda nord del Mediterraneo avere dei vicini governati da movimenti islamici, contando anche il regime di Gheddafi e l'Egitto dove il peso politico degli islamici diventa man mano più pesante? Ci sono vari aspetti che vanno considerati, il primo e più immediato è il flusso di persone clandestine che potrebbe aumentare vertiginosamente per seguire l'esempio libico di tenere sotto ricatto i paesi europei ed in special modo la Francia data l'origine di ex colonie di quel paese di Algeria e Tunisia, la seconda fonte di preoccupazione è di ordine economico dato l'alto numero di gasdotti che transitano da quei paesi, il terzo motivo è di ordine politico: per i fondamentalisti islamici potere governare due paesi che si affacciano direttamente sul Mediterraneo e sono ricchi di materie prime potrebbe essere un trampolino di lancio per la propaganda religiosa in tutte le sue forme da quelle pacifiche fino a quelle violente. Avere come coinquilini del Mediterraneo stati laici significa avere problemi in meno su più livelli, trattare con stati laici significa avere piani comuni di dialogo che favorirebbero la cooperazione comune ed in quest'ottica deve essere intrapresa e sviluppata l'azione della UE che deve dare sostegno ai movimenti politici e civili di origine laica per impedire di avere di fronte alle coste europee potenziali teocrazie.

martedì 18 gennaio 2011

Uno scenario possibile del teatro globale nel 2027

La previsione del superamento della Cina sugli Stati Uniti è per il 2027, tuttavia molti segnali fanno propendere per l'anticipo del sorpasso a causa dell'andamento economico molto più favorevole a Pechino. C'è da dire che la Cina non è ancora incorsa in bolle speculative essendo una economia in via di espansione, ma la velocità di marcia dell'avanzamento cinese determinerà sicuramente l'incontro con questo ostacolo. Questo per dire soltanto alcune variabili dello scenario internazionale che sta maturando da qui alla data del previsto sorpasso. Quello che interessa è ipotizzare come sarà il mondo quando la Cina sarà, se ci sarà, davanti agli USA. Lo scenario più plausibile è l'Europa sempre alleata degli USA, la Cina centro di gravità di paesi importanti come l'India e del sudest asiatico, tranne la Corea del sud, con forti alleanze in alcuni paesi africani, sempre più legati a Pechino in forza di accordi economici sempre più stringenti; questo il primo quadro d'impatto sugli schieramenti definiti (anche se l'India potrebbe giocare un ruolo proprio più rilevante). Ci sono però varie incognite nel più vasto quadro d'insieme: si pensi a paesi come il Brasile e sopratutto la Russia, senza contare il magma sempre più variegato dei paesi musulmani. Cominciamo dalla posizione dei verdeoro: la grande potenzialità economica ne fa una potenza in rampa di lancio ma condizionata da freni non irrilevanti come la situazione politica che va verso una sempre maggiore diffusione del benessere che si scontra però con le inefficienze dei sistemi democratici giovani spesso imbavagliati da procedure sempre in via di affinamento. Non pare possibile che il Brasile vada a ricadere sotto l'influenza cinese, se non altro per affinità culturale maggiore con il mondo occidentale, seppure inquadrato in questo campo con canoni differenti rispetto ai paesi europei. Più difficile ipotizzare la collocazione della Russia, dalla fine della guerra fredda e con la caduta del comunismo, Mosca ha ondeggiato tra tentazioni occidentaliste e nostalgia dello stato di superpotenza, con gli USA la rivalità continua seppur mascherata da rapporti di collaborazione segnati però da diffidenza reciproca, con la Cina l'alleanza è strumentale e si sviluppa volta per volta su singoli temi per perseguire obiettivi di corto raggio, non pare probabile un'alleanza duratura tra Pechino e Mosca con quest'ultima subalterna; molto dipenderà dal processo di democratizzazione che si potrà sviluppare nell'impero russo, se questo sarà positivo lo sfogo naturale potrà essere un ingresso nella Unione Europea ed un'alleanza con gli USA su piani praticamente paritari. Resta il nodo più difficile da sciogliere: gli stati a governo islamico o che vanno in questa direzione; ipotizzare una lega araba tanto estesa dalla sponda sud del mediterraneo ai paesi dove Al Qaeda detta legge passando per Libano, Giordania, Palestina ma anche Iran ed Iraq appare di impossibile attuazione. Una possibilità è prevedere una sorta di riedizione dei paesi non allineati, grazie al coinvolgimento di altre nazioni non necessariamente islamiche, con un nocciolo duro intorno al quale coinvolgere paesi più tiepidi di volta in volta in relazione all'argomento trattato. E' chiaro che in questo terzo gruppo prevedere un'alleanza tra paesi islamici è un dato quasi obbligato, per come sta andando la radicalizzazione religiosa sempre più stati ricadranno in questa influenza.

lunedì 17 gennaio 2011

Il pericolo inflazione contro la ripresa mondiale

Un ostacolo si erge di fronte alla possibilità di ripresa dell’economia mondiale, questa barriera si chiama inflazione, il pericolo dell’aumento dei prezzi è un avvisaglia reale che si sta già manifestando in modo più contenuto nell’area euro, anche se con valori differenti, il più preoccupante dei quali si registra in Spagna con un tre per cento in incremento, ma con valori decisamente più alti nelle economie in espansione, i cosidetti paesi emergenti. Il pericolo riguarda da vicino India e Cina, ma anche il Brasile ne può essere contaggiato. Le conseguenze dirette potrebbero andare ad influire sia sul prezzo delle merci, contraendo le esportazioni ed i loro indotti, ma anche sul costo delle materie prime, in entrambi i casi a crollare sarebbero i consumi innescando un circolo letale per le speranze della ripresa. Ciò determinerà strategie di doppia azione tendenti al controllo dei prezzi ma senza fare mancare la necessaria liquidità al sistema economico per non strangolarlo, si tratterà di agire sul rialzo dei tassi, mantenendo a disposizione una riserva liquida in grado di intervenire per raffreddare il sistema economico globale. Tecnicamente la prima mossa dovrebbe essere l’apprezzamento dello yuan che potrebbe consentire in un sol colpo un taglio consistente alla fiammata inflazionistica, ma potrebbe non bastare sopratutto si ci si troverà di fronte al previsto aumento dei generi alimentari. In questo caso sarebbe d’uopo una politica economica ancora più coordinata tra i vari organismi economici che governano l’economia mondiale, in modo di articolare una risposta univoca e decisa alla necessità del difficile momento.

giovedì 13 gennaio 2011

Cina ed Iran si incontrano per il problema nucleare

Ali Bagheri responsabile del programma nucleare iraniano ha incontrato mercoledì Zhang Zhijun vice ministro degli affari esteri cinese, l'incontro rientra nella strategia iraniana che contempla l'invito a paesi esteri alla visita dei siti nucleari della repubblica islamica. L'Iran sta cercando di sfondare l'accerchiamento a cui è stato sottoposto dalle Nazioni Unite coinvolgendo paesi non allineati della natura pacifica della sua ricerca nucleare anche attraverso visite ai suoi siti. L'incontro diretto con la Cina dimostra come l'Iran stia puntando, dopo avere contattato paesi importanti ma di minore rilevanza internazionale, come la Turchia, alla massima potenza alternativa agli USA per perorare la sua causa. E' vero che la Cina è anche il massimo partner commerciale dell'Iran e questo costituisce un canale preferenziale, ma questo incontro, se dovesse mutare l'atteggiamento cinese in favore iraniano, porrebbe la repubblica popolare in una luce problematica con il resto del mondo. I doveri della Cina, come nuova superpotenza, non gli consentono più certe libertà da battitore libero, certi incontri, su tematiche così particolari, potrebbero creare problemi diplomatici non da poco su di un teatro economico sempre in espansione per Pechino. A meno che questo non sia un comportamento voluto per dire agli USA che la politica estera cinese è libera da ogni condizionamento di sorta e che segue dei propri percorsi anche al di fuori dell'ONU. La scelta della politica estera, più volte ribadita da Pechino, è di non interferire negli affari interni degli altri stati, tuttavia il caso dell'atomica iraniana pone interrogativi e questioni che vanno aldilà dei confini di Teheran, troppe implicazioni riguardano il problema nucleare, sopratutto in relazione ai problemi con Israele. Non è possibile che la Cina sottovaluti questi aspetti, più realmente è credibile che voglia ritagliarsi un proprio spazio internazionale su problematiche di grande respiro: lo studio per essere una grande superpotenza passa anche da qui.

mercoledì 12 gennaio 2011

USA e Cina: il G2

Siamo arrivati al dunque, la visita del Segretario di Stato USA Gates a Pechino è propedeutica alla visita negli Stati Uniti del presidente cinese Hu Jintao che sarà a Washimgton il 19 Gennaio. Siamo di fronte all'unico G possibile: il G2, non c'è G20 che tenga, quella è solo la serie B del pianeta. Le questioni che contano sono una partita a due, per il resto poco più che briciole, non tanto per l'entità economica in gioco, che rimane consistente, ma per le strategie d'insieme che potrà scaturire. I temi sul tappeto che riguarderanno il confronto tra le due superpotenze verteranno sul militare, la finanza, il mercato valutario, le energie rinnovabili fino ai materiali rari essenziali per l'industria informatica, di cui la Cina detiene circa il 90%. Siamo di fronte a due paesi che sono su piani prospettici diversi: la Cina, pur essendo ancora dietro, è in ascesa, il sorpasso dovrebbe avvenire nel 2027, secondo previsioni per difetto perchè precedenti all'ultima crisi finanziaria, il PIL è cresciuto del 10% e le strategie finanziarie di Pechino puntano a rilevare l'intero debito dei paesi più ricchi, specialmente in Europa con il duplice fine di acquisire know-how ed alleati in seno al G20, possibili alleati da schierare proprio contro gli USA (di cui peraltro Pechino è il più grosso finanziatore del debito). La longa manus cinese ha già un potenziale potere molto elevato su molti paesi in virtù della grande liquidità disponibile grazie al gran volume di esportazioni dovuto al mantenimento artificiale del basso valore dello Yuan, tuttavia, come tutti i paesi in grande espansione, anche la Cina soffre della malattia chiamata inflazione, che colpisce sopratutto nei valori dei prodotti alimentari. E' vero che la Cina non gode di buon credito nelle opinioni pubbliche mondiali per come tratta il tema dei diritti politici, ma in questa fase storica l'economia gode di una supremazia netta sulla politica ed i numeri di Pechino sono tali da consentirgli di calmare le acque. Gli Stati Uniti per contro sono in evidente difficoltà sia dal lato economico che dal lato dell'appeal, il sogno americano, seppur lungi dall'essere tramontato, non gode più del grande credito del secolo scorso, in più la Cina è l'avversario più forte con il quale gli USA vengono a scontrarsi: l'URSS non è paragonabile sia dal punto di vista economico che politico con la Cina. Gli USA arrivano a questo incontro con una situazione economica in rotta, la disoccupazione e la diminuzione della ricchezza dovuta ad un impoverimento in costante aumento porta il paese a stelle e strisce molto vicino alla deflazione con una debolezza della domanda che rischia di fare crollare il grande mercato interno, che, però, si nutre in gran parte di prodotti cinesi. Nessuno può permettersi il black out, la Cina dovrà cedere sulla rivalutazione della propria moneta e perdere qualcosa in termini di guadagno, ciò consentirà una iniezione di liquidi nel mercato americano ed a cascata in quello europeo, mai come ora un'intesa non solo è possibile ma necessaria per ridare fiducia all'economia del pianeta.

martedì 11 gennaio 2011

Secondo HRW la Cina continua a negare i diritti civili

Human Rights Watch denuncia che la Cina continua a violare i diritti umani, contravvenendo agli stessi obiettivi che il governo di Pechino si era dato fin dal 2009. Il programma che la Cina aveva varato, probabilmente più che altro per gettare fumo negli occhi al resto del mondo, prevedeva l'introduzione di diritti civili e politici, la tutela delle minoranze all'interno dei confini statali, la cessazione della tortura e delle carceri segrete ed inoltre la cooperazione in fatto di diritti umani con altri paesi. Human Rights Watch ha rilevato che la Cina fa uso sistematico della delazione e di capi di imputazione fumosa per incarcerare i dissidenti, violando i più elementari diritti civili e bloccando la libertà di stampa e di espressione intervenendo sulla pubblicazione di giornali e siti internet. Non poco ha pesato la vicenda del premio Nobel Liu Xiaobo che ha messo in risalto la condizione dei dissidenti cinesi. In evidenza anche il gran numero delle condanne a morte eseguite, che fanno della Cina il paese che fa maggiormente uso della pena capitale. La difesa della Cina punta sulla riduzione della povertà della popolazione e del diffuso benessere nonma non tocca i temi dei diritti civili, insistendo sulla industrializzazione del paese.

Nella UE nel 2009 un solo attentato islamico


Un’interessante studio dell’Europol, organismo intergovernativo che costituisce la polizia dell’Unione Europea, ha analizzato i 294 attentati compiuti sul suolo della UE nel 2009 ed ha appurato che un solo attentato, compiuto in Italia, è da attribuire a matrice islamica. Il risultato dello studio offre spunti interessanti di riflessione per i continui allarmi procurati da minacce islamiche; non che il risultato di questo studio debba fare abbassare la guardia di fronte al fondamentalismo islamico, tuttavia la reale portata di tali minacce risulta, proprio per i risultati evidenziati, almeno ridimensionata. E’ chiaro che l’evidenza mediatica scaturita dall’attentato dell’undici settembre ha condizionato in maniera del tutto diversa la percezione di un possibile attacco islamico, percezione rinforzata anche dagli attentati di Londra e Madrid, ma ad essere cambiata è stata anche la modalità di azione e prevenzione degli organismi di polizia e vigilanza degli stati, che hanno dovuto variare radicalmente il loro approccio al terrorismo esterno. Gran parte del successo dei risultati che lo studio dell’Europol illustra dipendono proprio dal successo della prevenzione ottenuto dal costante lavoro delle polizie europee congiunto all’azione diplomatica; ma assodato questo è importante focalizzare l’uso strumentale fatto dai governi e dai media sulla spada di Damocle che ha gravato sulla società europea e rappresentata in concreto dalla minaccia terroristica islamica. Da un lato le alleanze con gli USA e la NATO hanno obbligato i governi europei ad allinearsi ad una politica dove l’avversario doveva essere demonizzato, mentre dal lato dei media riportare le notizie con più o meno enfasi ha costituito una cassa di risonanza di sicuro effetto. Dallo studio è risultato che la gran parte degli attentati  siano stati effettuati da movimenti indipendentisti o schegge di gruppi anarchici o di estrema destra, si è trattato di atti terroristici provenienti non dall’esterno ma dall’interno dei paesi vittime, in special modo per quanto riguarda Spagna e Francia ha riguardato ben 237 attentati dai separatisti, ma in quel caso pesa l’attività dell’ETA. Nel rapporto dell’Europol vi è una riflessione interessante: si stima, infatti, che le forze di polizia temano maggiormente l’attentato di matrice islamica perché potenzialmente in grado di provocare una mortalità maggiore con una singola azione, ciò trova motivo rilevante nella modalità avvenuta nei già citati attentati di Londra e Madrid.

lunedì 10 gennaio 2011

La deriva dell'azione politica: un triste dato comune

L'attentato di Tucson pone in risalto la radicalizzazione dell'agone politico trasceso da confronto ad attuazione di minacce. Non è un caso che riguarda i soli Stati Uniti, lo scadimento qualitativo del dibattito politico perpetrato attraverso i principali protagonisti del confronto, i politici, ed amplificato in modo scandalistico da tutti i media sta generando picchi di violenza. Non si è arrivati all'improvviso a questa situazione, si è passati attraverso vari gradi di confronto che dal dibattito serrato è peggiorato in pubblici insulti, diffamazioni ed uso di fatti privati spesso distorti ad arte. In questa pratica non vi è differenza religiosa o di latitudine o peggio di cultura, il livello dello scadimento è tale che è comune a tutti i paesi. Riguardo ai fatti americani, che, data il loro recente accadimento, possiamo usare come esempio, è stato giustamente stigmatizzato il comportamento del movimento del Tea Party. La campagna del movimento di Sarah Palin è stata da subito improntata ad una violenza verbale eccessiva, tesa a scaldare volutamente gli animi, si è creata un'offerta politica basata non su proposte costruttive ma sulla denigrazione dell'avversario, presentato in modo artamente distorto in modo da essere percepito come nemico dello stato, dei valori cristiani e finanche tacciato in modo esplicitamente razzista. E' stata essenzialmente ed in maniera cruda un'operazione di marketing costruita apposta per piacere alla parte più retriva ed arretrata degli USA, ma probabilmente gli effetti hanno superato le intenzioni. Cercare di cavalcare simili pulsioni è senza ombra di dubbio  pratica da politici consumati e non dilettanti praticamente allo sbaraglio, i risultati danno un ritorno immediato in termini elettorali, riempiendo anche vuoti di potere creati da difficoltà di partiti tradizionali, ma dopo si ci può trovare ad affrontare situazioni delicate come quella di Tucson, e si rischia di andare vicino ad essere incolpati per istigazione. L'analisi del comportamento politico del movimento del Tea Party non presenta peculiarità e singolarità americane, tanto è vero che si trovano analogie con altri casi nel mondo: sfruttare le parti più conservatrici ma nel contempo anche più arretrate con forme di populismo che fanno leva su proposte semplici e senza la dovuta articolazione richiesta per affrontare i problemi consente una presa  agevole su grandi masse. Una caratteristica di fondo è la presenza dell'elemento religioso che permette una gamma più vasta di strumenti, in quest'ottica è indicativa la pratica di alcuni gruppi radicalisti islamici che fanno coincidere l'azione politica con le posizioni religiose più oltranziste.In Europa pratiche analoghe sono ormai comuni a movimenti localistici e territoriali che puntano la loro propaganda politica contro il diverso con toni sempre più urlati. In conclusione la deriva sta caratterizzando i nostri tempi, si è imposta una sorta di globalizzazione del modo di praticare l'azione politica livellata verso il basso, un modo che non cerca soluzioni ma propone l'annientamento dell'avversario senza la ricerca del confronto fattivo: nulla di più contrario alla ricerca del bene comune

mercoledì 5 gennaio 2011

Cristianesimo ed Islam sempre più divisi

Un recente sondaggio di Le Monde ha rilevato che oltre il 40 per cento dei francesi e dei tedeschi vive l'Islam come una minaccia. Le cause sono la scarsa integrazione con i popoli autoctoni, i costumi sessuali, la condizione femminile e perfino gli usi gastronomici. Questo disagio è comune con altre nazioni europee, non siamo più, come nel secolo scorso, quando l'immigrato era visto come una minaccia perchè sottraeva posti di lavoro, ora la minaccia è il suo credo religioso. Si tratta di un salto di qualità che, a prima vista, sembra una contraddizione nel mondo della globalizzazione, in realtà è la naturale conseguenza di un processo incompleto dettato da esigenze che il mondo dell'economia ha imposto al mondo della società. La riflessione pare slegata dal contesto sociale e culturale ma non è così, le condizioni di vita imposte dalle nuove regole economiche hanno determinato un rinserrarsi nella propria religione e cultura da parte di grandi masse sradicate dalle loro nazioni, su questo ha fatto leva il processo di radicalizzazione religiosa intrapreso dai movimenti più estremi determinando un incremento delle situazioni di progressivo autoisolamento delle comunità islamiche fuori dal suolo patrio. Quello che si sta scavando è un solco profondo che minaccia un'integrazione sempre più obbligata, la sempre minore importanza delle guide religiose moderate acuisce il problema già dal momento della partenza dei flussi migratori, chi arriva, in gran parte, è già poco disposto ad una integrazione nella nuova società. E' anche vero che la sempre maggiore riduzione degli investimenti statali in materia di immigrazione non aiuta e non favorisce il processo, ma il dato della percezione della popolazione è oltremodo allarmante. Se poi si pensa a quanto successo in Egitto, solo la punta dell'iceberg della condizione dei cristiani nei paesi musulmani, si ci convince sempre più che stiamo entrando in un'epoca che sarà caratterizzata dai conflitti religiosi, infatti se lo scorso secolo, un'epoca storica finita, era caratterizzato dalla contrapposizione Est-Ovest, ora si rischia un ritorno al tempo delle crociate. In realtà l'attuale contrapposizione sta diventando Nord-Sud ed i due poli si stanno identificando con cristianesimo ed islamismo, non è una semplificazione eccessiva anche perchè l'identificazione ora sta abbracciando anche i laici delle rispettive religioni, se non si pone un freno costruendo ed intensificando il dialogo tra le parti moderate la profondità del solco della divisione rischia di diventare incolmabile.

martedì 4 gennaio 2011

UE: la difficile presidenza dell'Ungheria

Il fatto che l'Ungheria sia ora Presidente di turno della UE, non fa altro che mettere ancora di più sotto i riflettori la gravità della legge illiberale sulla stampa adottata dal paese magiaro. Ma il problema che oltrepassa i confini ungheresi è lo scontato conflitto istituzionale che si sta sviluppando in seno a Bruxelles. La domanda di fondo è se l'esercizio della presidenza possa essere legittimo esistendo un vizio di fondo così grave come la promulgazione di una legge contro la libertà di parola, certamente contraria ai principi ispiratori dell'Unione Europea. Che non esista una norma che regoli casi come questo è una falla del sistema sovranazionale, tuttavia era obiettivamente difficile prevedere che nel 2011, il vecchio continente potesse essere ancora affetto da problemi del genere. Probabilmente l'eccesso di buona fede del legislatore europeo, che confidava nello sviluppo costante delle istituzioni democratiche, ha generato un caso non da poco e destinato a fare scuola e, ci si augura, anche a produrre nel sistema quei necessari anticorpi legislativi capaci di ovviare a casi del genere. Ma il problema contingente è adesso, la Germania ed il Lussemburgo sono le prime nazioni che hanno espressamente dichiarato di non gradire che sul suolo europeo sia vigente una legge illiberale, altri paesi seguiranno i primi due; prevedere un conflitto istituzionale a breve non è un'idea peregrina, anche perchè l'Ungheria non pare recedere dai propri propositi. Il timore è quello di assistere ad una grave impasse operativa della UE in un momento dove le decisioni devono essere le più veloci possibili. Quello che ci si augura, a parte l'ovvio stralcio della legge sul bavaglio alla stampa magiara, è un maggior peso delle istituzioni europee nel contrastare  provvedimenti del genere el'avvio di un processo di ripensamento dei criteri non solo dell'allargamento ma anche del mantenimento della composizione dei paesi della UE.

lunedì 3 gennaio 2011

Prospettiva libanizzazione per l'Egitto

La situazione egiziana, dopo l'attentato alla chiesa copta di Alessandria è sull'orlo di un terribile abisso: il pericolo concreto di unalibanizzazione dello stato è ora più concreto. La progressiva islamizzazione del paese, fattore comune con tutta la fascia del basso mediterraneo e non solo, ha rotto, di fatto, equilibri millenari, basati sul reciproco rispetto e la pacifica convivenza. Il fattore scatenante è stato il tipo di islamizzazione che ha preso campo, non di tipo moderato ma caratterizzato da un'elevata radicalizzazione. Il cristiano non è più visto come un conterraneo di fede diversa, ma un potenziale agente occidentale, un nemico sul suolo patrio o peggio un traditore. Le condizioni dei cristiani sono peggiorate sia dal punto di vista religioso che civile, non è raro che per lavorare debba essere dichiarata la confessione religiosa, discriminando così i non mussulmani. In Egitto la delaicizzazione della politica ha introdotto nel parlamento formazioni basate su di una visione estrema dell'islamismo, che ha favorito una separazione sempre maggiore in chiave confessionale delle componenti sociali del paese. La tensione è andata sempre più innalzandosi, anche per motivi economici, fino all'attentato di Alessandria. Un'ipotesi verosimile, tra le tante, può essere che, come affermato dagli inquirenti, si sia trattato di un attentato effettuato dall'organizzazione terroristica Al Qaeda, in questo caso si potrebbe ipotizzare che sia stato  compiuto con la chiara intenzione di soffiare sul fuoco per esasperare una situazione già fortemente compromessa. Provocare una guerra intestina potrebbe significare il coinvolgimento del mondo occidentale dalla parte dei cristiani, generando problematiche tali in grado di portare allo scontro diretto. Forse quello a cui mirano gli attentatori è l'unità islamica politica e militare, progetto da sempre percorso da Bin Laden, compattando i movimenti più estremi con una guerra di religione. Anche la questione palestinese, in quest'ottica assume un valore sempre più importante, sarà importante che i due contendenti seguano un profilo più basso possibile per non esasperare gli animi.

domenica 2 gennaio 2011

La Grecia vuole fortificare la frontiera con la Turchia

La Grecia pensa di costruire un vallo al confine con la Turchia sul modello di quello tra USA e Messico. E' la soluzione, secondo Atene, per bloccare il flusso più corposo di immigrazione illegale verso l'Europa, che passa proprio da questa frontiera. Se, da un lato, vi è del vero sull'entità del problema è anche assodato che siamo in un territorio piuttosto caldo dal punto di vista delle relazioni internazionali. Grecia e Turchia non si sono mai viste di buon occhio, ma in questo momento i rapporti tra i due stati confinanti sono vicini allo zero. La Turchia è sempre in lizza per entrare nell'Unione Europea e la costruzione di un confine invalicabile da parte del vicino più immediato è vissuto come l'ennesima bocciatura alle sue aspirazioni europeiste. Senza malizia la mossa greca desta qualche pensiero non proprio limpido sulle reali intenzioni dell'operazione. L'entrata nella UE del paese turco sposterebbe le frontiere dell'unione più a sud ed Atene non sarebbe più così l'estremità di Bruxelles; ciò potrebbe far perdere cospicui finanziamenti destinati al presidio delle friontiere. Costruire, con un investimento anche cospicuo, un sistema di fortificazione con la Turchia avrebbe l'effetto immediato di rafforzare gli scettici all'ingresso nella UE del nuovo paese rallentandone ulteriormente il processo di ingresso e nel caso di funzionamento del controllo dell'immigrazione illegale costituirebbe una prova aggiuntiva contro il paese del Bosforo, tra l'altro accusato, tra le righe, di non fare molto per impedire il passaggio dei migranti. Sarebbe il colpo definitivo all'ipotesi di un allargamento verso la Turchia dell'Unione Europea, l'occasione tanto desiderata dai contrari per porre fine ad ogni velleità europeista del paese della mezza luna. Atene è consapevole di fare leva su questi sentimenti: no all'immigrazione illegale  e no alla Turchia, sono ragioni che permettono di sfondare porte aperte nei movimenti localistici e particolaristici, al governo in buona parte dei paesi dell'europa, proprio su questi alla fine fa leva la costruzione del vallo. Bruxelles ancora una volta si distingue per l'attendismo incerto, ancora una volta la mancanza di una guida univoca lascia le cose alla propria deriva: è l'ennesima prova della necessità di istituzioni europee meno compassate, più forti e più indipendenti.