Politica Internazionale

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lunedì 31 ottobre 2011

Libia: Gheddafi aveva la bomba atomica

Il presidente del CNT libico avrebbe affermato che le bombe atomiche libiche sarebbero state trovate e sarebbero già a disposizione dei tecnici dell'AEIA. Sulla questione dell'arsenale atomico di Gheddafi erano spesso comparse notizie mai confermate, ora si tocca con mano il rischio che hanno corso i paesi più vicini allo stato libico, che il colonnello avrebbe potuto fare oggetto di bersaglio. Il ritrovamento pone domande, per certi versi scontate. Le disponibilità economico finanziarie, sicuramente ingenti del regime di Tripoli non possono confermare il possesso di una tecnologia molto avanzata, che richiede personale con conoscenze molto approfondite. Per intenderci il livello raggiunto dall'Iran, che non avrebbe ancora consentito lo sviluppo dell'ordigno atomico, è molto più avanzato di quello libico; non sarebbe stato, cioè, un problema di approvigionamento del materiale necessario, ma di conoscenza della materia. La conseguenza logica è che qualche paese che poteva disporre di ordigni già pronti possa avere rifornito l'arsenale libico, giacchè non è verosimile pensare ad un aiuto che comprendesse il passaggio di know-how verso la Libia. Sulla fine rapida, una volta catturato, del dittatore si è detto di tutto, anche la comodità che faceva una morte del genere per coprire segreti scomodi per nazioni sia di tipo democratico che autoritario, sia occidentali che no. La presenza della bomba atomica in Libia genera anche riflessioni parallele sulla guerra in Iraq, dichiarata per la presunta disponibilità di un arsenale nucleare da parte di Saddam Hussein, fatto poi rivelatosi falso ed anche costruito ad arte, ma, che comunque non ha impedito una guerra che si trascina ancora ora. Se allora serviva un pretesto per cancellare il regime iraqeno, come è possibile che la stessa ragione non sia stata pubblicizzata nelle fasi iniziali della guerra libica, che sono state oggetto di un acceso dibattito all'ONU. Questo silenzio appare ora interessato, non era certamente giudicato positivo fare conoscere questo fatto all'opinione pubblica mondiale, ma se da un lato si possono comprendere le ragioni tese a smorzare l'impatto mediatico, dall'altro lato risulta sospetta l'azione di occultamento di una motivazione così forte. Soltanto l'analisi, se ci sarà, delle bombe, potrà dire da quale direzione Gheddafi ha potuto dotarsene e se la verità riuscirà a venire fuori si annuncia un botto, certamente innocuo, ma altrettanto fragoroso.

Il Kenya si muove contro Al-Shabaab

Il Kenya attacca i seguaci del movimento Shabaab in territorio somalo. Le corti islamiche protagoniste di diverse azioni contro il paese vicino non sono più un fenomeno sostenibile per l'equilibrio regionale e costituiscono un pericolo concreto anche per Francia ed USA. I due paesi occidentali affiancano l'esercito kenyano materialmente contro i terroristi islamici, in special modo gli USA, stanno utilizzando droni telecomandati contro le postazioni più difficili da raggiungere all'interno del territorio somalo. Gli USA hanno sposato la causa del Kenya perchè permette di condurre una ulteriore azione repressiva contro la parte somala di Al-Qaeda, andando così ad inserirsi nella strategia complessiva contro il movimento estremista islamico. Per la Francia il ragionamento è differente, l'impegno militare in prima persona è giustificato dalla protezione degli investimenti fatti nella zona ed obiettivo dei radicali. La tattica militare del governo Kenyano è essenzialmente quella di tagliare le vie di comunicazione con la città di Chisimaio, che mediante il suo porto, assicura le entrate necessarie ad AL-Shabaab per la sua sopravvivenza. La rete Al-Shabaab è anche sospettata di essere dietro ai pirati che si muovono nel Golfo Persico e costituiscono un grave pericolo per le navi mercantili dirette verso il canale di Suez. Un ulteriore problema per il Kenya è l'afflusso della più consistente quantità di profughi del mondo, verso i suoi campi di accoglienza, dovuta alla grave carestia alimentare presente in Somalia. Una delle cause di questa migrazione di proporzioni bibliche e che il Kenya non riesce più a gestire è l'atteggiamento di Al-Shabaab verso gli aiuti alimentari, che vengono osteggiati con la scusa della provenienza dall'occidente cristiano. Gli estremisti islamici usano questa arma, molto più subdola che gli attentati, facendo pagare alla popolazione somala la loro strategia complementare all'uso della forza armata, ma di gran lunga più efficace per fiaccare lo stato vicino. Dietro al problema resta l'assenza endemica dello stato somalo che non riesce a ridarsi una struttura capace di governare il proprio territorio. Tuttavia non si comprende l'atteggiamento occidentale e dell'ONU che non pare volere prendere in mano la situazione in maniera risolutiva, impegnando sul campo forze armate sia di terra che aeree, capaci di cancellare le milizie islamiche e permettere di ricreare finalmente uno stato somalo sovrano. Ancora una volta nascono spontanee le domande sui criteri che determinano l'impegno in alcuni stati piuttosto che in altri.

venerdì 28 ottobre 2011

La sfiducia: nuova sensazione per gli USA

Quello che si è materializzato nel panorama politico degli USA, ed è opportuno analizzare, è lo sviluppo dei due movimenti anti sistema che stanno caratterizzando la scena americana: Tea Party e gli occupanti di Wall Street. Questa volta gli Stati Uniti sembrano non fare tendenza ed arrivare dopo, infatti le analogie tra i movimenti localisitici e di destra europea, anche estrema, presenti ben prima sulla scena ed il Tea Party non sono poche. Entrambi rappresentano un disagio sociale basato sulla paura dello straniero, sul timore di vedere rotti definitivamente equilibri basati sulla piccola proprietà e sulla troppo invasiva azione statale che soffoca le tradizioni, gli usi locali e l'iniziativa economica proveniente dal basso, con leggi restrittive ed incremento delle tasse. Chi manifesta contro Wall Street contesta il sistema da sinistra e si caratterizza per un'azione non violenta che tende a fare risaltare la natura pacifica del movimento che ha forti analogie con gli indignados spagnoli, tuttavia la peculiarità americana, valida in entrambi i casi è la ricerca del rifugiarsi in movimenti collocati fuori dai partiti e ciò rappresenta una novità per il panorama statunitense. La mancanza di fiducia nei soggetti canonici della politica americana, rende l'idea del pessimismo e del malcontento diffuso verso le istituzioni, che non appaiono capaci di risolvere i problemi del cittadino medio. La crisi economica ha fiaccato il motore principale del sogno americano: l'entusiasmo e l'ottimismo. Gli USA sembrano accartocciati su stessi, ripiegati nella ricerca di un isolazionismo e di un protezionismo innaturale per il paese americano, ma comune sia alla destra che alla sinistra. Esiste anche un fattore nuovo e particolare che influisce ulteriormente su questo clima: la presa d'atto che gli Stati Uniti non sono più la potenza mondiale che poteva comandare il mondo. Se c'è stato un effetto inaspettato della globalizzazione è avere trasformato i piedi del gigante in argilla, in sostanza anche gli USA hanno subito un notevole indebolimento che ha intaccato la ricchezza interna ed il prestigio internazionale. Ciò ha confuso gli americani, che ora reagiscono in maniera anomala secondo i propri soliti standard. Ma ciò è anche il segno che gli USA sono diventati una nazione normale, con quali effetti sul piano internazionale, sia economico che politico, è difficile da prevedere.

La Cina scende in campo per il finanziamento della zona Euro

La Cina sta valutando sulla possibilità di intervenire, con investimenti sostanziosi, direttamente entro i confini del debito dell'Eurozona. Per Pechino è vitale che i paesi dell'area euro non entrino in una crisi letale per le loro economie, che sono i migliori clienti delle merci cinesi. Non si tratta, infatti, come è logico di una operazione di beneficenza, la Cina ha necessità di non vedere ridursi la propria crescita oltre un livello determinato, per continuare a finanziare il proprio sviluppo. Presente la contrazione interna, Pechino deve fare tutto il possibile per sostenere la domanda all'estero dei propri prodotti ed inoltre deve diversificare l'investimento della propria grande liquidità disponibile. Infatti gli ingenti investimenti effettuati negli USA e che sono in sofferenza per le difficoltà dell'economia americana, necessitano di alternative, da cui ricavare anche guadagni di tipo politico, come, peraltro avvenuto negli Stati Uniti. Un primo salvagente per la zona euro potrebbe essere emesso nella misura di cento miliardi di dollari, che andebbero comunque ad aggiungersi ai più di 500 miliardi di dollari già investiti dal dragone cinese nel debito dei paesi europei. La destinazione della liquidità cinese potrebbe andare alimentare il già presente fondo salva stati oppure, in alternativa, il nuovo fondo che verrà creato. La Cina ha lasciato anche aperta la porta ad ulteriori investimenti nel caso si verificassero delle condizioni capaci di favorire la cooperazione bilaterale su benfici reciproci. Dietro queste parole si nasconde, neanche troppo velatamente, l'intenzione della Cina di assumere piena dignità come stato industriale, senza risolvere gli annosi problemi legati ai diritti sindacali e politici dei lavoratori e dei cittadini cinesi, per diventare una vera e propria economia di mercato. Pechino tenta di sfruttare il momento di debolezza dell'economia europea per non adeguarsi ai criteri della concorrenza, mantenendo il basso costo del lavoro e vendendo merci prodotte in assoluta assenza di garanzie per i lavoratori, permettendo così un prezzo di mercato più basso. Un'altra questione a cuore del governo cinese è l'abbattimento dei dazi, che secondo Pechino costituiscono una barriera alla concorrenzialità delle merci cinesi. In effetti è proprio questa la ragione di essere di tali dazi, compensare, almeno in parte le condizioni che favoriscono i prezzi bassi cinesi. Nonostante le difficoltà finanziarie presenti, l'Europa deve diffidare dalle offerte cinesi, che, se accolte, aprirebbero le porte senza limitazione alcuna, allo strapotere di Pechino in campo economico, rischiando di ridurre al rango di colonia, in un futuro neanche troppo lontano, il vecchio continente.

giovedì 27 ottobre 2011

Un conservatore come erede al trono saudita

La morte del principe ereditario saudita mette in pole position il potente ministro degli interni Nayef nella posizione di nuovo successore al trono. Nato nel 1933, ha ricoperto già in diverse occasioni la guida del paese quando il re saudita ha subito i recenti interventi chirurgici negli Stati Uniti. Il nuovo delfino è uomo di stato di orientamento conservatore che ha legami profondi con la setta wahhabita, che ha una visione molto rigida della parte sunnita dell'islam. L'attuale momento dell'Arabia Saudita, non pare tuttavia, uno dei migliori per l'ascesa di Nayef, con il paese impegnato in profondi contrasti interni sia dal lato delle richieste democratiche, che dal lato dei problemi con la minoranza scita, che richiede maggiore autonomia e migliori condizioni di trattamento, sia sul fronte dei diritti politici, che del lavoro. L'avvento di un conservatore rischia di irrigidire il dialogo e rallentare le timide riforme recentemente concesse, sia nei maggiori investimenti in favore di una sorta di welfare nascente, che nelle timide aperture politiche concretizzatesi con la possibilità dell'esercizio di voto nelle consultazioni a livello comunale. Nayef è un sostenitore della polizia religiosa, il Mutawa, fortemente criticato dai sauditi per i metodi spesso brutali con cui impone i propri criteri di moralità. Questa rigidità fa temere molti analisti che venga intrapresa una via ancora più repressiva, specialmente nei confronti delle minoranze in un momento in cui sarebbe necessaria una maggiore flessibilità per favorire un approccio più morbido ai problemi. Sul fronte della politica estera, proprio l'aspetto fortemente religioso lo pone come un nemico dell'Iran maggiore rappresentante della parte scita dell'Islam, continuando così nel solco tradizionale dei governanti sauditi e non ci dovrebbero essere variazioni neppure sull'alleanza con gli Stati Uniti, dove l'Arabia continuerà ad essere uno dei maggiori alleati strategici sia a livello regionale che globale, dal punto di vista militare che energetico. Tuttavia data l'età avanzata, i maggiori esperti di cose arabe, ritengono che l'erede al trono sarà un sovrano di transizione in attesa di nuova linfa che vada a ringiovanire il vertice del paese.

mercoledì 26 ottobre 2011

Il Qatar sostituirà la NATO in Libia

La NATO afferma di avere esaurito i propri compiti in Libia. Il capo di stato maggiore britannico, David Richards, in una riunione tra i comandanti dei paesi NATO, che hanno partecipato alla missione libica ed il CNT, ha dichiarato che i compiti dell'alleanza erano essenzialmente tre: fare rispettare la no fly zone, l'embargo e la protezione dei civili, come deciso dall'ONU; terminati questi incarichi non vi è più ragione di restare sul territorio libico. L'organizzazione atlantica cerca di sganciarsi facendo passare il fatto di avere adempiuto ai propri compiti in un'ottica puramente legalitaria, tuttavia, senza entrare nel merito della strategia politica dell'abbattimento del regime di Gheddafi, occorre rilevare che, per almeno il terzo punto, l'incarico NATO non è stato del tutto assolto. Infatti l'accanimento di alcune parti dei ribelli contro civili ritenuti, a torto o a ragione, fedeli al colonnello è stato troppo tollerato dalle forze dei volenterosi, che hanno lasciato dare libero sfogo a ritorsioni e vendette. Questo tralasciando il trattamento inumano riservato ai combattenti lealisti ed ignorato dalla NATO, che ha tentato di ripulirsi la coscienza proclamando a gran voce aperture di inchieste sul tema. Se la NATO lascerà il paese, la Libia non sarà lasciata sola a ricostruire le proprie forze armate e di polizia. Sarà infatti, probabilmente il Qatar a capo di una nuova forza multinazionale che sosterà nel paese oltre la fine dell'anno ed almeno fino a quando le condizioni del paese non saranno tali da garantire un adeguato livello di sicurezza interna. Le forze armate del Qatar avrebbero già operato con effettivi di terra nella guerra libica a fianco delle forze del CNT, tuttavia questa partecipazione non è mai stata riconosciuta dal governo del Qatar, che ha sempre smentito in modo ufficiale l'impiego di propri soldati direttamente sul campo di battaglia. L'appoggio al CNT necessitava di forze di terra direttamente sul terreno a completare il lavoro della forza aerea, ma il grosso degli uomini impiegati non poteva non provenire da un paese musulmano, per non urtare la suscettibilità della popolazione e sopratutto non generare dubbi circa possibili intenzioni "colonialistiche" di eventuali paesi occidentali presenti con propri uomini sul terreno. Non che questi siano mancati, ma sono stati, presumibilmente, impiegati soltanto in alcune operazioni mirate. D'altra parte il governo del Qatar non poteva ammettere lo schieramento di propri soldati in aperta violazione della risoluzione ONU, che ha consentito l'intervento aereo.

L'anomalia italiana

Le espressioni a volte di sorpresa, a volte di incredulità, spesso di commiserazione, che contraddistinguono i politici europei quando parlano dell'Italia, sono dovuti alla più grossa anomalia presente in un sistema politico democratico occidentale nella storia recente. Non si vuole qui dare un giudizio di opportunità o peggio morale sulla condotta del premier italiano, ma analizzare le cause che discendono dalla sua presenza e che vanno a determinare il blocco politico attualmente presente nel bel paese. Fin dalla sua entrata in politica, Silvio Berlusconi ha rappresentato una fonte di profonda divisione, sia tra le forze politiche che nella società italiana. Il confronto politico si è radicalizzato in maniera insana, esaltando la pura partigianeria e scavando un solco diventato ormai incolmabile tra le forze partitiche, che da avversari sono diventati esclusivamente nemici. Quello che si è instaurato è un clima dove alcuna collaborazione tra forze avverse è totalmente impossibile, anche in situazioni particolarmente difficili, dove l'unità nazionale dovrebbe essere un attributo indispensabile, l'unico dialogo possibile è una continua sequela di insulti fine a se stessi. Nonostante il paese italiano avesse attraversato la delicata fase del dualismo tra Democrazia Cristiana e Partito Comunista, avversari storici su fronti opposti, il rapporto tra questi due soggetti, pur nell'aspra dialettica politica, non è mai trasceso ad episodi di così basso livello come quelli attuali. Uno dei fattori dello scadimento del livello della politica italiana è stata la sua spettacolarizzazione che ne ha determinato la volgarizzazione. Le istituzioni si sono trasformate da un luogo paludato di forma alta, ben definita e rispettata ad un bivacco frequentato da personaggi improvvisati e non all'altezza. L'affermazione del partito azienda ha inserito nelle istituzioni personaggi senza l'adeguata preparazione ne la necessaria autonomia ed i partiti storici si sono adeguati verso il basso anche con fantasiose forme, come il partito leggero, che hanno distrutto anni di storia e tradizione associativa. Siamo così arrivati alla presa d'atto pubblica, in realtà già percepita da tempo, dai governanti europei. L'indegno siparietto della Merkel con Sarkozy, pur con tutte le giustificazioni che gli si voglioni accordare, rappresenta bene lo stato d'animo che alberga nelle cancellerie continentali. Quello che ferma l'Italia è il blocco politico a cui è costretta, la presenza ingombrante di Berlusconi riduce le formazioni politiche ad un comportamento astioso che non permette alcun costrutto. L'unica soluzione praticabile è quella di un governo senza l'attuale premier, come raccomandato da più parti in Europa, che permetta di affrontare una fase interna con maggiore pacificazione e consenta al paese di affrontare in piena concordia l'emergenza a cui è di fronte.

martedì 25 ottobre 2011

Per la Turchia si aprono possibilità enormi con l'islamismo moderato

Quello che si sta delineando nella sponda sud del Mediterraneo, con la primavera araba ancora in corso, è l'affermazione dei partiti islamici di stampo moderato. Pressochè sicura l'affermazione in Tunisia e molto probabile in Libia ed anche in Egitto, il risultato sarà comunque l'instaurazione della sharia a regolare la vita civile e penale dei cittadini. Il risultato democratico va così a rovesciare l'impostazione data dai tiranni, che, seppure con modalità diverse, privilegiava l'impostazione laica degli stati. Quello che è uscito dalle urne tunisine, cui dovrebbero seguire responsi analoghi anche dagli altri paesi arabi, è una ulteriore riprova della avversione della popolazione ai regimi precedenti. L'interrogativo è come si instaurerà e svilupperà il rapporto, sia su base globale che regionale, con gli altri stati, in special modo quelli occidentali della sponda opposta del Mediterraneo. Avere di fronte diplomazie provenienti da formazioni islamiche dovrà richiedere una nuova impostazione dei rapporti con questi nuovi governi, che dovranno, giocoforza comprendere una variazione dei rapporti bilaterali. Ma l'aspetto più temuto è una sorta di "iranizzazione" della sponda sud del Mediterraneo, la paura di un insediamento al governo non moderata, come effettivamente si presentano i partiti di ispirazione islamica che hanno tenuto a battesimo la primavera araba, è il vero spauracchio per i governi occidentali. A mitigare queste paure potrebbe esserci l'esempio turco, dove una formazione islamica moderata guida il paese anche con risultati eccellenti. Peraltro proprio la Turchia, cerca di ritagliarsi un ruolo guida, grazie ad una politica accorta e mirata allo scopo, per gli stati usciti dalla primavera araba. Questo fatto può essere una leva per l'occidente per scardinare la possibile diffidenza giustificata dei nuovi governi, dati i rapporti che le democrazie occidentali intrattenevano con i regimi caduti. Gli ottimi rapporti che Ankara intrattiene con entrambe le parti possono favorire dialoghi fruttuosi. Tuttavia questa strada può determinare una crescente importanza per la Turchia in una zona lontana dalla sua sfera d'azione, decretandone la crescente importanza non più come potenza regionale ma di vera e propria media potenza mondiale. L'ipotesi non è peregrina, non è detto che le diplomazie occidentali trovino le porte aperte come sperano, il ruolo turco è destinato a crescere nell'area mediterranea per la grande affinità che si svilupperà con le nuove formazioni al governo sul piano religioso e politico.

Benedetto XVI: un magistero attento ai problemi economici

La particolare attenzione che viene prestata dagli ambienti vaticani per l'economia e la finanza registra un netto cambiamento di rotta rispetto al papato precedente. Benedetto XVI ha avviato in sordina un magistero più attento ai problemi sociali che vanno inevitabilmente a connettersi con quelli dell'economia. Rispetto a Giovanni Paolo II, di cui non possiede la presenza quasi scenica, l'attuale pontefice ha avviato una attenta analisi sui problemi generati da una finanza sregolata, spesso condannandone gli eccessi, portatori di diseguaglianza profonda che mina le fondamenta della società. L'attenzione mostrata ai problemi del lavoro ed all'analisi spesso incentrata sull'inadeguatezza degli stipendi dei lavoratori, ha mostrato un lato di Ratzinger sconosciuto, anche nei modi e nelle parole con cui ha condannato questi comportamenti, uscendo anche dalle consuete espressioni misurate, per dare maggiore enfasi al rilievo effettuato. Con il documento uscito ieri sulle storture della finanza e la rimarcata necessità di una riforma in senso maggiormente garantista per per le parti più povere del sistema, la Chiesa cattolica si pone in prima linea, gettando sul piatto tutta la sua autorità, ed espressamente, contro i guasti del neoliberismo, andando contro la politica economica portata in auge fin dagli anni '80 dalla Tatcher e Reagan e continuata fino agli attuali eccessi dai loro successori, anche di segno politico opposto. Tale documento, molto duro, seppure espresso con le consuete sfumature curiali, non può non essere stato avvallato dal Pontefice, confermando così la linea intrapresa sull'argomento. Si individua così che la Chiesa cattolica intende governare in modo fattivo questa emergenza ponendosi come protagonista contro la dottrina economica neoliberista che sta condizionando i tempi attuali. Questa direzione dice chiaramente che i tempi devono cambiare inaugurando una stagione dove il solidarismo e la mutualità devono rimpiazzare la concorrenza sfrenata e l'assenza di regole. Ratzinger, che sembrava il campione della conservazione, dimostra invece sull'argomento, una conoscenza ed una visione più aperta e lungimirante di tanti governanti in carica, che abbozzano soluzioni temporanee prive di progettualità. L'idea di un organismo mondiale che governi la finanza in senso globale, nella sua semplicità rappresenta la soluzione più appropriata per rimettere il fenomeno sotto controllo e si concilia con l'ecumenismo come fondamento della misura. Se la Chiesa continuerà a mantenere l'attenzione su queste materie sarà un avversario in più per chi si oppone alle necessarie riforme per ridare fiato all'economia del mondo.

lunedì 24 ottobre 2011

Il Vaticano per un governo mondiale della finanza

Sul tema del governo dell'economia e della finanza mondiale il Vaticano presenta la propria proposta centrando il bersaglio e dicendo quello che in pochi ammettono: la necessità della creazione di una nuova autorità mondiale che coinvolga, non solo le grandi potenze economiche mondiali, ma anche i paesi in via di sviluppo e le nazioni in fondo alla classifica del reddito e che sia destinata a governare i processi finanziari e monetari a livello globale, con la riscrittura delle regole degli scambi e con l'esercizio del controllo dell'osservanza dei nuovi regolamenti. Questa è la sostanza del documento presentato dal Pontificio consiglio per la giustizia e la pace. La soluzione rappresenta insieme una conclusione naturale di una riflessione attenta allo svolgimento della cronaca economica e la logica definizione di un problema che saprà suscitare diverse contrarietà negli ambienti finanziari e politici, gelosi della propria autonomia di gestione. Il documento verte essenzialmente su due cardini principali, che costituiscono le indicazioni su cui deve svilupparsi il nuovo governo mondiale della finanza: la prima è, appunto la creazione di un organismo che regoli e controlli l'andamento economico finanziario, che non deve essere, per forza, creato ex novo, ma ne può essere utilizzato uno già esistente ampliandone ed integrandone poteri e funzioni. Un esempio concreto può essere la Banca Mondiale, che potrebbe essere individuato come istituto sul quale impiantare le nuove funzioni. Il secondo cardine è la riforma del sistema monetario, che deve essere ripensato in modo da favorire in senso maggiormente egualitario gli scambi finanziari, in maniera tale da favorire non il bene di una parte pa il bene comune dell'intero sistema. Anche se la visione pare utopica, rappresenta un chiaro segnale del bisogno della chiesa di affermare della necessità di un cambiamento dell'andamento attuale. Ma oltre le indicazioni che si potrebbero definire tecniche, nel documento sono presenti valutazioni politiche e morali che vanno in senso contraio ai canoni ed ai principi che hanno governato l'economia fino ad ora. Quello che la situazione impone è una riflessione radicale sulla ricaduta sociale che hanno avuto le teorie neoliberiste in campo economico, con un giudizio finale completamente negativo. La Chiesa si dimostra contraria alla totale assenza di regole che dagli anni '80 del secolo scorso hanno travolto le forme di salvaguardia delle famiglie e delle persone, individuando queste cause come possibili motivi di sovvertimento dell'ordine democratico e della stabilità sociale. Il documento arriva ad individuare la necessità della tassazione delle transazioni finanziarie come elemento di riequilibrio sia macro che microeconomico; nel primo caso andando ad alimentare la costituzione di un fondo mondiale per di riserva per le economie in crisi ed il loro conseguente risanamento, mentre nel secondo caso potrebbero andare a finanziare strumenti su base statale in grado di assicurare forme di welfare avanzato. Il documento è in ultima analisi la condanna della globalizzazione affermatasi senza alcuna forma di controllo, tanto decantata dai governi di stampo liberista ed ora finalmente individuata come fattore di disturbo sociale.

L'influsso della morte di Gheddafi

Come hanno agito sulla psiche dei dittatori, in carica e no, le immagini drammaticamente crudeli della morte di Gheddafi? Sono state un monito, un vaticinio spaventoso, che ha avuto un qualche effetto o sono state catalogate come evento inevitabile per chi non ha avuto la mano sufficientemente salda nella repressione, per chi non ha avuto il polso della situazione ed ha sottovalutato la ribellione, fidandosi delle prerogative fin li acquisite e quindi sopravvalutandosi di fronte ad un pericolo imminente? Lo svolgimento della crisi libica sfociata in guerra civile rappresenta un ottimo insegnamento per chi è ancora in sella e sicuramente si è visto nei logori panni di Gheddafi. La morte violenta del colonnello può costituire una svolta, in un senso o in un altro delle rivolte in atto? Se un fattore psicologico esiste non pare influire troppo su chi è al governo, la fine pur tragica di un "collega" non cambierà i piani di chi vuole mantenere il potere, semmai potrebbe esserci un inasprimento sulla scia dell'emotività; il grosso effetto psicologico potrebbe, al contrario essere, sui dimostranti, una spinta emotiva sulla base della concreta possibilità di rovesciare un regime. Un effetto psicologico del genere non è da sottovalutare per un regime non più saldo, costretto ad incrementare le forme e la violenza della repressioni. La via imboccata da Siria, Arabia Saudita, Yemen è caratterizzata da ripetute violenze tese a soffocare il dissenso ormai pubblico, è vero che questi paesi non possono contare sull'aiuto della NATO, e ciò è da considerare assolutamente certo per l'Arabia che è funzionale agli USA, ma per la Siria e lo Yemen la situazione potrebbe cambiare. L'errore di queste dittature è stato non interpretare all'inizio lo spirito delle proteste, non si sono operate concessioni ed aperture, se non in modo blando in Arabia Saudita, inoltre la mancanza di un ruolo cuscinetto svolto dall'esercito egiziano nel paese dei faraoni, ha determinato una spaccatura sociale con le forze armate che potevano essere un fattore calmierante. La vicenda libica dimostra che la fine del tiranno è possibile ed è tanto più possibile perchè il tiranno muore, non come in Tunisia o in Egitto, e questo fatto assume un valore simbolico enorme, che rimarrà a lungo impresso in quei popoli che patiscono sotto il giogo delle dittature. Se le repressioni continueranno ad essere violente la resa dei conti non potrà che essere violenta.

domenica 23 ottobre 2011

Sulle presidenziali USA spunta la variabile Iraq

Nelle elezioni americane ritorna centrale il tema degli esteri e della perdita di centralità e del ruolo di potenza mondiale degli USA. Il problema è connesso con il tutti a casa decretato da Obama per le forze americane presenti in Iraq. Fino a poco tempo fa non era prevedibile che una mossa del genere potesse rivelarsi un boomerang per il presidente in carica, con gli USA focalizzati sul fronte interno della crisi economica ed il gran sforzo economico e di vite umane avviato a finire, il ritiro dall'Iraq sembrava il più grosso spot elettorale per la competizione del 2012. Ma i repubblicani stanno trovando un punto debole nella strategia democratica di Obama: un Iraq sguarnito dalla potenza militare americana rischia di finire sotto la nefasta influenza iraniana, lo stato sempre più inquadrato come il nemico numero uno per la bandiera a stelle e strisce. L'eliminazione fisica di Saddam Hussein, Bin Laden e Gheddafi non garantisce a Barack Obama di avere la certezza di non fare trovare più sulla strada degli Stati Uniti un nemico forse ancora più pericoloso ed insidioso come Ahmadinejad. L'evoluzione militare iraniana, che punta ad inserire l'arma atomica nel proprio arsenale, mette in allarme gli analisti americani più vicini al Partito Repubblicano. Una espansione dell'influenza iraniana sul travagliato Iraq metterebbe in discussione delicati equilibri sia dal punto di vista interno tra sciti e sunniti, che da quello diplomatico, contribuendo a riscaldare la tensione già presente tra Arabia Saudita ed Iran. Con un quadro del genere il dispiegamento americano degli anni passati potrebbe risultare inutile ed un lavoro incompiuto. In effetti, anche tralasciando il tema della supremazia USA in campo mondiale, argomento caro ai Repubblicani, gli argomenti sollevati per l'abbandono dell'armata americana in Iraq non possono che sollevare qualche legittimità sulle questioni poste. In questa ottica un abbandono completo dell'Iraq sembrerebbe vanificare anni di sforzi per raggiungere obiettivi ritenuti il caposaldo dell'intera politica estera americana. La brusca marcia indietro potrebbe generare confusione anche in un elettorato concentrato su argomenti diversi e lontani, aprendo un vero e proprio squarcio nella tattica elettorale di Obama. In effetti si tratta di due diverse visioni contrapposte, se il Presidente in carica ha sempre reso pubblico, fin dalla campagna elettorale di cinque anni prima, l'intenzione di sganciare gli USA dai vari conflitti ereditati dall'amministrazione precedente ed ha proseguito nelle emergenze successive mantenendo un basso profilo per gli Stati Uniti, per i repubblicani storici la tendenza è sempre stata del tutto opposta. Semmai una convergenza con Obama su questo tema poteva esserci dal movimento del tea party, che ha sempre prediletto i temi di economia interna a discapito dei grandi problemi di politica internazionale. Ma la questione cardine rimane sul tappeto, quale sarà il destino degli equilibri regionali se l'Iraq verrà abbandonato al suo destino? La questione è da valutare attentamente poichè se si verificasse la necessità di un ritorno da zero per sopraggiunte necessità sarebbe una sconfitta storica per Obama ed anche su queste previsioni a lungo termine si giocherà l'esito delle presidenziali del prossimo anno.

Svizzera alle urne con la paura dell'immigrazione

La Svizzera va alle elezioni con la paura dell'immigrazione. Nonostante la crisi che colpisce il mondo intero un altro paese europeo si rinserra al suo interno alimentando il fuoco di xenofobia che attraversa il continente. La tragedia norvegese provocata da Breivik rimane un monito inascoltato, le formazioni di estrema destra si fanno forza sulla paura del diverso e sulla conseguente possibilità che vada ad intaccare il proprio patrimonio. La visione è miope e talmente limitata, che il razzismo elvetico del partito dato per favorito, il Centro democratico dell'Unione, raggiunge vette molto elevate, tanto da temere l'immigrazione dalla UE e in special modo dai lavoratori provenienti dalla Germania. Non che vi siano gradi e livelli di razzismo in base alla nazione di provenienza dell'immigrato, ma la chiusura di un paese che si trova all'interno del continente e che è esso stesso una aggregazione di etnie, provoca ancora più sconcerto in una qualsiasi analisi del fenomeno. E' troppo facile affermare che su i capitali che la Confederazione accoglie, spesso in maniera poco chiara, non viene fatta alcuna analisi di provenienza, che al contrario sarebbe opportuna, tuttavia, pur nel rispetto della volontà dei cittadini elvetici, un organismo come la UE, colpita direttamente dalla propaganda elettorale del partito di maggioranza, dovrebbe trovare forme sia di pressione che di ritorsione contro un governo formato da esponenti di una formazione che ne fa oggetto di pura xenofobia. Inoltre l'Unione Democratica di Centro afferma di avere già raccolto più di 100.000 firme per un referendum che possa revocare gli accordi di libera circolazione con la UE.
La tendenza all'isolazionismo svizzero pare così accentuarsi e forse sarebbe il caso che Bruxelles accontentasse gli elvetici con una revisione degli accordi in essere con la UE.

La Libia verso una Repubblica islamica moderata

Archiviata in modo tragico la pratica Gheddafi, per la Libia si apre ora concretamente la transizione alla democrazia. Si tratta di una novità per il popolo libico, che non ha mai esercitato il diritto di voto, tuttavia la grande quantità di emigrati, di cui molti hanno fatto ritorno per combattere il regime del colonnello, ha preso dimestichezza, seppure in modo indiretto, con le regole del sistema democratico. Ma quello che più preoccupa l'occidente non è la scarsa pratica al pluralismo, bensì il timore di una deriva verso una forma di governo pesantemente influenzata dalla religione islamica. Va detto che i quaranta anni di governo di Gheddafi sono stati caratterizzati da una forma di religiosità addomesticata in funzione dell'amministrazione del rais, dove la fede islamica originale è rimasta confinata nelle aree più riservate dei clan tribali, mentre nelle zone metropolitane si è trattato si una forma religiosa annacquata dalle tendenze funzionali al regime. Questo è stato uno dei fattori che ha determinato un islamismo di tipo moderato che è quello fondamentalmente presente in Libia. Un altro fattore è la ferrea repressione operata dal regime sui movimenti fondamentalisti islamici, che infatti, non sono mai riusciti a costruire una propria organizzazione efficiente sul territorio. Le premesse, quindi, per evitare una deriva fondamentalista del paese vi sono tutte, anche se la tendenza che pare più favorita sia quella di una repubblica islamica, il genere dovrebbe essere di tipo moderato. L'affermazione di tale tendenza, a ben vedere, è una naturale conseguenza dell'assenza di partiti e movimenti negli ultimi quaranta anni di storia libica, dove il culto della personalità di Gheddafi doveva andare a riempire ogni forma di possibile associazionismo; soltanto i clan tribali hanno rappresentato l'unica forma di socialità e con tutti i loro difetti di chiusura ed isolamento sono stati l'unica forma di alternativa all'onnipresente stato centrale. Con questo stato di fatto la religione rappresenta l'unica bussola cui fare riferimento, ma questo non vuole dire necessariamente che ci sia una affermazione possibile dell'integralismo, l'attività del CNT è stata contraddistinta da assenza di proclami religiosi ed il lavoro sia militare, che diplomatico svolto con i paesi e le organizzazioni occidentali ha dimostrato la presenza di un dialogo fattivo. Il possibile sviluppo in senso islamico moderato non deve essere quindi temuto, la Libia non pare dirigersi verso una repubblica islamica di tipo iraniano in versione mediterranea, ma ha concreto bisogno di qualcosa di solido cui ancorarsi dopo un lungo periodo di vuota oppressione.

giovedì 20 ottobre 2011

Turchia e Kurdistan iraqeno contro il PKK

La Turchia lancia l'offensiva in Iraq, dopo avere subito l'attacco più grave degli ultimi anni dal PKK. Il governo del Kurdistan iraqeno, che gode di autonomia amministrativa nell'ambito dello stato dell'Iraq, avrebbe dato il proprio benestare esplicito alle forze armate turche. E' questo l'elemento di novità nel quadro del conflitto, il Kurdistan iraqeno vive la presenza, sul proprio territorio del partito armato curdo, come un problema, sia sul fronte interno, che su quello esterno. Lo sviluppo economico turco, che ne ha determinato il rango di locomotiva della regione, ha intrecciato con il Kurdistan diversi accordi, anche per la contiguità territoriale e l'ostacolo PKK, non conviene a nessuno. L'autonomia normativa di cui godono i curdi iraqeni, frutto anche dell'intermediazione USA, guadagnata con l'aiuto nella guerra contro Saddam, ha permesso alla regione autonoma uno situazione di indipendenza abbastanza vicina ad una entità statale, che di fatto, rappresenta la maggiore forma di autonomia per il popolo curdo. Non è ancora la nazione sognata, ma è la cosa più vicina ad essa, che i curdi hanno mai avuto a disposizione dalla dissoluzione dell'impero ottomano. Questa forma di autonomia ed indipendenza è ritenuta ormai troppo preziosa per essere inficiata dalla continua alterazione del difficile equilibrio, che le azioni militari del PKK stanno portando. Peraltro l'escalation militare intrapresa dal PKK è dovuta a questioni che rientrano nella sfera dei curdi interna alla Turchia. Lo sganciamento dalla protezione del PKK per i curdi iraqeni potrebbe significare un distacco da una più generale accezzione della lotta a favore di tutto il popolo curdo, per privilegiare la parte iraqena. Oltre al fatto economico vi è anche il peso militare dell'esercito di Ankara, che è uno dei meglio equipaggiati ed addestrati della regione, in forza, anche, dell'appartenenza alla NATO. Militarmente uno scontro con le forze armate turche è insostenibile e quindi il Kurdistan iraqeno non può che prendere atto della situazione e fare buon viso a cattivo gioco. Piuttosto è difficilmente interpretabile la scelta di attacchi in campo aperto da parte del PKK, anzichè optare per una tattica fatta di attentati contro obiettivi urbani. Una spiegazione possibile è che il livello di prevenzione e controllo dell'apparato turco sian diventato talmente efficace da costringere il PKK ad agire soltanto al confine tra Ankara e Bagdad. A supporto di questa tesi vi è anche la reprimenda di Erdogan contro il partito filo curdo BDP, accusato di troppa benevolenza nei confronti del PKK: il tutto pare una strategia tesa ad isolare nel modo più completo possibile il movimento curdo in Turchia, ma questa potrebbe essere anche la ragione dei rabbiosi attentati.

UE e Balcani, un processo lungo e difficile

L'Unione Europea aprirà a nuovi paesi come soci nell'organizzazione. La strada delle nuove adesioni punta a sud-est, verso i paesi nati dalla dissoluzione della Jugoslavia. In effetti sulla carta geografica manca la continuità territoriale, che si interrompe proprio in corrispondenza della penisola Balcanica. Tuttavia la situazione dei balcani non presenta affatto una uniformità nel processo di ammissione della UE. Se per la Slovenia essere un paese UE è un dato di fatto fin dal 2004, completato anche dall'appartenenza alla zona euro e per la Croazia diventare membro a tutti gli effetti sarà realtà a Luglio 2013, grazie ad avere maturato tutti i requisiti necessari per l'ammissione, in una trattativa tutt'altro che facile e durata diversi anni, richiesti da Bruxelles, per gli altri paesi balcanici l'iter in corso non è dei più semplici. Il paese più importante, la Serbia, ha compiuto diversi progressi sul piano internazionale, ma deve ancora risolvere difficili questioni interne relative ai movimenti nazionalisti presenti nel paese ed ai problemi con il Kosovo.
Problemi analoghi, sebbene ancora più esasperati, creano difficoltà alla Bosnia Ezegovina, dove i difficili rapporti tra le tre etnie del paese (serbi, croati e musulmani) provocano sia l'impasse interna, con l'impossibilità di creare un governo stabile, sia l'avvio di concreti negoziati con Bruxelles per l'ingresso nell'Unione Europea. Più vicino all'organizzazione europea pare il Montenegro, che, sulla carta, ha avviato una politica legislativa in grado di fermare la malavita e la corruzione, tuttavia sarà necessario che alle intenzioni seguano i fatti con una reale applicazione delle leggi emanate in un paese che fa degli affari illeciti uno dei motori della propria economia.
I paesi in maggiore difficoltà nell'ingresso nella UE sono il Kosovo, che ha difficoltà ad essere riconosciuto come entità statale dal panorama internazionale (solo 83 paesi lo riconoscono come stato sovrano sui 193 dell'ONU) ed è parte attiva nella controversia con la Serbia, insieme con l'Albania che attraversa una lunga crisi politica e non è in grado di assicurare la stabilità necessaria per avviare riforme strutturali, che garantiscano i requisiti richiesti dalla UE. Oltre ai problemi dei singoli stati, la situazione balcanica va vista in un quadro di insieme su di un territorio che presenta contrasti atavici tra le varie popolazioni e sacche di arretratezza in cui sarebbe essenziale l'intervento UE da subito e non successivo alla risoluzione di requisiti difficilmente raggiungibili. Se la UE vuole veramente inglobare queste zone nel suo seno deve, forse fare uno sforzo preventivo per ottenere un maggiore convolgimento, prima di tutto ottenendo più convinzione delle popolazioni, che vivono nelle zone in questione. Ma vi è anche l'altra faccia della medaglia, dove si deve considerare se la UE, in questo momento deve insistere su di questo processo di integrazione o se deve valutare meglio se nell'attuale momento storico sia da posporre tale azione. La situazione economico finanziaria in corso, una delle più difficili degli ultimi anni, il problema migratorio, molto sentito, che in caso di ammissione dei paesi balcanici è destinato ad aumentare, andando così ad aggravare la situazione sociale dei paesi europei, sono fattori su cui Bruxelles deve compiere attente valutazioni, perchè non sempre una maggiore unione determina una maggiore forza.

mercoledì 19 ottobre 2011

Il confronto tra Turchia e Curdi si aggrava

La questione curda si ripropone con tutta la sua violenza. Dopo i ripetuti attacchi dell'estate appena trascorsa da parte delle truppe turche in territorio iraqeno, dove si trovano le roccaforti del PKK, il partito curdo dei lavoratori, principale soggetto autore degli attentati contro le forze armate di Ankara, ha iniziato a rispondere con una ritorsione su vasta scala che ha visto la morte di ventiquattro soldati turchi ed il ferimento di altri diciotto. Gli attacchi si sono svolti sul confine dello stato iraqeno, successivamente la rappresaglia turca, avvenuta sconfinando in Iraq, ha determinato la morte di quindici militanti del PKK. La tattica militare curda è consistita in una serie di attacchi a posti di frontiera della gendarmeria turca, che è stata colta impreparata dalla simultaneità delle azioni. La risposta turca, infatti è stata affidata ad una azione combinata di truppe d'elite di terra con l'appoggio dell'aviazione militare. Secondo gli esperti le azioni dal cielo non bastano per avere ragione delle forze curde e questo ne è l'esempio più lampante. Per la Turchia il problema curdo sta diventando sempre più pressante, la scarsa autonomia concessa alle comunità curde presenti sul territorio di Ankara ed i problemi connessi alla rappresentatività ed alle stesse condizioni dei curdi sul suolo turco, non sono migliorate in un quadro di generale miglioramento delle condizioni generali del paese, che sta attraversando un periodo di boom economico e di crescente importanza sulla scena politica internazionale. Paradossalmente il problema che ora assilla più Erdogan viene da un fronte interno che è sempre stato caldo, ma che ora sta diventando l'ostacolo più difficile da superare per la nuova immagine che la Turchia vuole offrire al mondo e sopratutto all'Europa, nei confronti della quale non è mai tramontato il sogno di un ingresso nella UE, malgrado i ripetuti rifiuti. Il premier di Ankara ha più volte dichiarato di volere percorrere una via democratica per la soluzione della questione, che riguarda circa quindici milioni di cittadini turchi di etnia curda, che rappresentano una quota consistente nella totalità degli oltre settantasette milioni di abitanti. La maggiore rivendicazione del PKK è una riforma dello stato in senso pluralistico che non collima con l'indirizzo della coalizione al governo di matrice islamica, seppur moderata. Le mancate concessioni autonomistiche alla minoranza turca sono fonte, così di continua disputa ed incidenti tra i due contendenti, che non paiono muoversi dalle loro posizioni. In più per la Turchia, che è stato sovrano, le continue azioni su suolo straniero, seppure tacitamente sopportate dal governo di Bagdad, potranno diventare fonte di problemi a riguardo della violazione di altro stato, fintanto, che, almeno non sia raggiunto e sottoscritto un accordo di mutua cooperazione tra i due stati. L'eventualità non pare, però di immediata percorribilità per il contributo dato dai combattenti curdi contro Saddam Hussein. Una soluzione potrebbe essere il coinvolgimento degli USA, a cui l'appoggio dei combattenti curdi è stato quasi essenziale e che può vantare una buona influenza su Ankara come importante membro NATO. Del resto per gli americani un focolaio del genere in una zona così cruciale non deve certo fare comodo ed un investimento di esclusivo tipo diplomatico potrebbe raggiungere risultati tali da permettere, se non di spegnere, almeno circoscrivere l'incendio.

Egitto: la strana alleanza tra militari e radicali islamici contro i copti

Nell'Egitto del dopo Mubarak i disordini di cui sono stati vittima i copti nascondono una strategia dell'esercito, che ora occupa, di fatto, il potere. Se era vero che il regime precedente garantiva una maggiore protezione ai cristiani egiziani, questo fatto ha determinato il fatto che la comunità cristiana diventasse invisa agli ambienti più radicali dell'islam nazionale. Per certi versi si è manovrata una percezione sbagliata, che ha configurato nella protezione accordata da Mubarak una contiguità con il regime. Il rovesciamento del precedente governo ha avuto come protagonista la piazza, dove la parte islamica più radicale, pur non avendo un ruolo di guida preponderante, ha però avuto un fondamentale ruolo logistico e tattico, sopratutto con l'organizzazione dei Fratelli Musulmani, capaci di fornire una struttura alla protesta spontanea. Tuttavia il moto proveniente dalla rivolta della società civile non avrebbe potuto avere successo senza un tacito appoggio delle forze armate, che hanno saputo sganciarsi per tempo della dittatura, andando così a ritagliarsi il ruolo determinante che ha permesso la transizione di potere. Nonostante le dichiarazioni ufficiali, ora a comandare in Egitto sono i militari, che cercano di posticipare la data delle elezioni mettendo sempre nuovi paletti verso il regime democratico. La paura degli uomini con le stellette è di una proiezione troppo in avanti del paese, che possa relegare le forze armate su di un piano secondario, anche perchè le forze armate, forse, non hanno ancora insabbiato tutte le correità compiute con il vecchio regime. Il potere dei gruppi islamici più radicali rappresenta comunque una influenza sulla società civile e dietro le quinte non è difficile individuare una possibile comunità d'intenti proprio tra questi gruppi e l'esercito. In questa fase politica dell'Egitto, aperta ad ogni possibile sviluppo, trovare una sorta di nemico comune sul territorio nazionale, i copti nella fattispecie, rappresenta un parafulmine su cui concentrare le attenzioni per distoglierle da altre questioni, ancora più delicate. Le prove di questa alleanza sotterranea sono nel protagonismo e nella parzialità dell'intervento dell'esercito teso ad affiancare i gruppi islamici contro i copti e nella repressione a senso unico negli scontri. Quello che emerge è uno scenario dove l'Egitto inaugura la strada verso la democrazia in maniera sbagliata, lasciando una percentuale consistente, il 10% della popolazione, in una situazione di inferiorità; l'aspetto non confessionale della nuova forma di governo manca da subito e ciò rappresenta un problema per il prosieguo sulla strada della modernizzazione del paese.

martedì 18 ottobre 2011

Sociologia della violenza di piazza nell'era delle crisi finanziarie

La grande impressione degli scontri di Roma segue i fatti di Atene, che si sono ripetuti più volte da questa primavera, ed anche quelli di Londra, dove alcuni dimostranti hanno sottoposto le città dove si effettuavano cortei di protesta, a distruzioni e saccheggi, con tattiche assimilabili ad organizzazioni militari. Fatta implicita la condanna di questo modus operandi, che va anche ad inficiare le ragioni dei dimostranti pacifici, occorre analizzare la portata del fenomeno. La presenza di un'area antagonista fortemente militarizzata e capace di dimostrazioni di forza è un fatto relativamente nuovo. L'avversione militare al potere costituito, dalla fine degli anni '60 fino agli anni '80 inoltrati, avveniva con movimenti e bande armate organizzate in rigide strutture burocratico militari, che praticavano la così detta lotta armata con obiettivi ben definiti sia singoli, nel caso della lotta armata di matrice di estrema sinistra (in particolar modo in Italia e Germania), che più ampi, fino ad essere ricompresi nella definizione di strage, nel caso della destra estrema, specialmente nel caso italiano. Una serie di fattori ha determinato la fine dei movimenti terroristici, sia di natura investigativo poliziesca, sia per le mutate condizioni sia sociali che internazionali, tra cui la caduta del muro di Berlino e le sue conseguenze è stata uno dei fattori maggiori. Ma la rabbia sociale è rimasta e la fine dei partiti tradizionali, con la progressiva affermazione del così detto partito leggero, ha costituito la mancanza di una diga capace di contenere e controllare, almeno in parte, il fenomeno. La progressiva affermazione di sempre maggiori differenze di reddito e di possibilità hanno creato un aumento della forbice della diseguaglianza, andando ad alimentare il numero delle persone, sopratutto giovani, senza rete di protezione sociale. La crisi economica ha fatto il resto: un'ondata di rabbia ha travolto questi movimenti che hanno visto come unico sfogo l'esercizio della violenza in un contesto pubblico, sia come modo di protesta, sia come affermazione estrema delle proprie rivendicazioni. Non sembra che con questi movimenti vi siano margini di trattativa, l'assunto che sembra caratterizzarli pare il "tanto peggio, tanto meglio", ed il rifiuto di ogni forma di dibattito canalizzato e regolato da norme solitamente accettate, non fa che confermare l'assoluto rifiuto per la società che combattono. Va detto che ai componenti iniziali dell'area antagonista: squatter, componenti dei centri sociali, che, all'inizio, pur essendo determinati e combattivi, non sommavano una grande quantità di elementi, si sono aggiunti progressivamente numeri consistenti provenienti da espulsi dal mondo del lavoro, appartenenti a territori su cui sono stati progettate infrastrutture non condivise dai residenti e genericamente vittime della situazione finanziaria. Ciò che contraddistingue l'azione violenta è il senso di profonda ingiustizia che costringe a caricare il peso di manovre finanziarie fatte da altri soggetti sulla collettività, rifiutando il modo di manifestare pacifico, perchè ritenuto inutile. La devastazione che prende di mira banche, agenzie interinali ed edifici governativi ha il chiaro scopo di rimarcare il rifiuto di una società in cui non riconoscersi. Un fatto nuovo è la internazionalità del movimento violento, che determina, oltre ad una condivisione comune delle idee, degli scopi e delle finalità, anche una intercambiabilità ed un mutuo sostegno degli stessi attori fisici che compiono le devastazioni: non è raro vedere scritte e striscioni in greco e spagnolo in Italia e viceversa, che dimostrano la presenza di elementi di altri stati nella nazione dove si svolgono le manifestazioni. Come ovviare a questo fenomeno? Se in una prima fase la prevenzione è il mezzo più efficace, sul lungo periodo non basta puntare sulla limitazione dei movimenti degli elementi ritenuti più pericolosi, ed anzi una soluzione del genere protratta nel tempo rischia di innescare fenomeni di emulazione che vanno soltanto ad aumentare le fila di questi movimenti. Scartando l'ipotesi più ovvia, che è quella di sistemare le storture del sistema economico finanziario mondiale, perchè la più difficile da percorrere, occorrerebbe mettere in campo una azione sociale capillare, capace da un lato di smussare le evidenti difficoltà pratiche della gran parte degli aderenti a questi movimenti e dall'altra canalizzare queste forme di associazionismo di ribellione in forme più costruttive di volontariato verso le stesse fasce sociali, come, in parte già avviene con le attività di molti centri sociali in tutta Europa.

Il fenomeno degli indignati

Il movimento degli indignados aumenta sempre di più ed incontra sempre maggiori adesioni, anche da persone che possono essere riconosciute come appartenenti dell'establishment della stessa finanza. Le questioni messe sul tappeto sono ormai pressanti, perchè agiscono concretamente sulla vita dei cittadini, dal ceto medio in giù. La grande mobilitazione giovanile è integrata con persone di età più elevata ed è un dato comune in tutto il movimento. La connotazione distintiva non è solo politica, che anzi pare minoritaria a livello generale, ma rientra sopratutto nei concreti bisogni dei cittadini che dimostrano e di quelli che danno soltanto un appoggio morale al movimento. La grande novità del movimento è l'opposizione, anzichè ad una causa politica, tranne che per l'Italia dove la situazione su quel versante è particolarmente esacerbata, ad una causa basata sull'utilizzazione della leva finanziaria. L'invasione nella vita pratica delle persone degli effetti dell'azione finanziaria ha determinato una compressione dei redditi andando ad eroderne la ricchezza, fino ad un punto che pare di non ritorno. Le persone non protestano più tanto per le idee ma per le condizioni di vita a cui loro malgrado sono sottoposte, anche in conseguenza di mancati interventi di protezione da parte dello Stato. Lo stesso Stato diventa quindi bersaglio per la manifesta incapacità di gestire l'emergenza, di cui, alla fine, resta esso stesso vittima. Se da un lato vi è infatti concreta incapacità degli uomini di governo, è altresì vero che la situazione risulta ormai incancrenita e trovare forme di interventi che non intacchino il sistema finanziario in modo da avere grosse ripercussioni sul sitema produttivo e sociale è praticamente impossibile. Il caso greco è esemplificativo di cosa potrebbe succedere, ed in effetti pur non essendoci le condizioni così negative a livello macro in molte altre nazioni, le ricadute a livello sociale sono spesso ugualmente gravi. Quello che si sta concretizzando è un arretramento significativo del sistema sociale di ammortizzazione e di aiuto nei confronti delle famiglie, che, è bene ricordarlo continuano a pagare tasse anche per questi servizi. Senza colpire significativamente le storture finanziarie la rabbia della folla è destinata a salire ed episodi come quelli di Roma non saranno, purtroppo, più isolati. Se, disgraziatamente, nel movimenti degli indignati dovesse prendere campo una componente violenta, data la diffusione del fenomeno si rischierebbe di travisare le ragioni del movimento, ma al tempo stesso si arriverebbe a situazioni di pericolosità sociale capaci di creare concreti casi di instabilità politica. Il problema è diventato troppo grosso per cercare soluzioni separate in ogni singolo stato, è necessario trovare soluzioni condivise a livello sovranazionale per governare e riformare il fenomeno della finanza.

venerdì 14 ottobre 2011

L'ombra sull'Europa

Una inchiesta del settimanale francese "Paris Match" ha rilevato che il 43% dei belgi ritiene che nel nazismo vi siano degli spunti interessanti circa i principi che salvaguardano la nazionalità del paese e le misure per stimolare l'economia. A parte l'ovvia e negativa considerazione sulla convenienza di individuare degli aspetti postivi nel nazismo, la rilevazione offre spunti interessanti per comprendere l'attuale fase che si è sviluppata in Europa e basata su distorte interpretazioni delle accezioni nazionalistiche e particolaristiche, che hanno avvantaggiato partiti o gruppi, non necessariamente di estrema destra, fondati sull'esaltazione del localismo, sulla chiusura agli stranieri con discriminazioni sia economiche che civili. Chi ha dato un giudizio positivo, anche solo su alcuni aspetti, del fenomeno nazista, non può averlo espresso per ignoranza (anche perchè alcune domande erano precise e circostanziate), ma consapevole di esprimere assertività su di una questione molto delimitata. Fatta questa premessa, doverosa per ciò che riguarda la parte metodologica, occorre capire perchè alcune persone, che vivono in un tempo relativamente vicino agli anni del fenomeno in questione, possano legarne in maniera positiva alcuni aspetti al momento attuale. Il senso di disagio per una immigrazione non regolata, spesso serbatoio per la manovalanza della delinquenza, una percezione, spesso errata, della distribuzione delle risorse, un senso di qualunquismo montante che, giunto all'estremizzazione delle istanze localistiche, spesso professate a discapito di altri territori della stessa nazione, sono, essenzialmente le ragioni che hanno determinato l'apprezzamento di alcuni aspetti della teoria nazista. Il fenomeno è una chiara conferma del successo dei partiti di estrema destra nel nord Europa, che ha portato fino ai tragici fatti norvegesi. Sono mancate risposte politiche, che governassero la trasformazione del mondo in cui viviamo, la delusione dei cittadini ha indirizzato la protesta anzichè su posizioni costruttive verso una chiusura indotta che ha il solo scopo di difendere quelli che sembrano priviliegi in pericolo. Ma nonostante queste ragioni, che sono effettive e reali, la tristezza che ispira questa analisi deve lasciare il posto ad una rabbia ragionata, che abbia come scopo la sconfitta di questi apprezzamenti per una dottrina politica da cancellare, il pericolo che la storia ritorni è sempre presente, anche se non in quelle forme l'assolutismo può ripresentarsi in maniera più subdola e manipolare le coscenze per i propri scopi. Ma forse ha già iniziato.

Il puzzle della tensione mondiale

C'è un sottile filo che lega le zone calde del pianeta. Ogni zona a rischio è collegata in qualche modo all'altra in un puzzle della tensione. Sulla carta geografica l'area di maggiore pressione è quella medio orientale, una fascia mediana che parte da Israele, attraversa la Siria, l'Iraq, l'Iran. In questa zona vastissima, che è stata la culla della civiltà, si addensano i pericoli maggiori per la pace mondiale. Però è anche vero che l'Afghanistan ed il Pakistan sono limitrofi, mentre i paesi del Mediterraneo del sud sono contigui ad Israele e Libano. E stiamo parlando soltanto di pericolo militare. Se allarghiamo l'orizzonte anche sulle questioni economiche la zona "rossa" si allarga ai paesi contigui al Pakistan, che confina con un territorio continuo che abbraccia India, Cina e Russia, giganti e rivali. Ora focalizzandoci soltanto sui pericoli militari appare chiaro che le guerre in corso e che sono, in qualche modo, dichiarate si stanno svolgendo in Afghanistan e Libia rappresentano conflitti limitati, che pur nella loro gravità, non paiono in grado di allargarsi se non in modo limitato e comunque ciò vale soltanto per il caso afghano, visto che quello libico è destinato a concludersi. Il caso iraqeno è differente perchè quello che è in corso è una sorta di guerra civile, che rischia un vuoto di potere, capace di innescare qualcosa di maggiore. Il paese è nel mirino di Arabia Saudita ed Iran, che sottotraccia stanno già affrontandosi, ed inoltre potrebbe subire una secessione da nord ad opera dei Curdi; qui la situazione si complica perchè proprio il nord iraqeno è spesso teatro di azione delle truppe turche che sconfinano oltre il proprio territorio, creando un precedente pericolosissimo. La questione curda è fuoco che cova sotto la cenere e prima o poi dovrà essere affrontata, tuttavia il problema, per la pace mondiale, non è così pressante come la risoluzione della questione palestinese. Intorno a questa disputa ruota il destino di diverse situazioni collegate. Intanto finchè la Palestina non avrà il proprio stato sarà sempre un alibi per il mondo arabo, un alibi facile da usare sia per i terroristi che per gli stati. Nel secondo caso l'Iran ne è stato uno dei maggiori utilizzatori, fomentando attraverso questo motivo diversi gruppi ed ergendosi a difensore del popolo islamico. La Repubblica degli ayatollah sta usando la tattica di portare al limite gli avversari, ma la corda è vicino a rompersi. L'ultimo fatto ha soltanto ottenuto il risultato di compattare ancora maggiormente l'alleanza americana con l'Arabia Saudita. Inoltre il timore della bomba atomica iraniana sta prendendo campo ed il governo di Teheran pare schiacciato tra opinione pubblica internazionale ed opposizione interna. In questi casi si possono fare mosse avventate, la pericolosità del governo in carica appare enorme. Gli USA potrebbero così prevenire una eventuale azione iraniana, probabilmente diretta su Israele, con una ritorsione giustificata dal fallito attentato sul suolo americano. E' uno scenario possibile, che solo la diplomazia può evitare momentaneamente e lasciando inalterato il problema dell'armamento nucleare in mano agli Ayatollah. Per ora è meglio fermarsi qui, ma le connessioni non finiscono.

giovedì 13 ottobre 2011

Arabia Saudita-Iran: le grandi avversarie islamiche

Il mancato attentato contro l'Arabia Saudita riporta alla ribalta la rivalità tra Riyad e Teheran, che si basa su rivalità di tipo etnico, tra arabi e persiani, ed anche religioso, in conseguenza della disputa sulla legittimità dell'eredità del profeta che ha dato vita alle due principali visioni dell'islam: sunniti e sciti. Successivamente l'inimicizia è cresciuta con l'avvento degli ayatollah, vissuto dai sauditi come una minaccia per il loro regno.
Anche la scelta saudita di schierarsi come più fedele alleato nella regione, degli USA, ha contribuito a scavare ulteriormente il solco tra i due paesi. Recentemente, con le ribellioni coincise con la primavera araba, Riyad ha accusato Ahmadinejad di avere fornito sostegno alla minoranza scita presente nella penisola araba, che ha causato diversi problemi con manifestazioni e scioperi. L'Iran ha manovrato i dimostranti, che peraltro manifestavano per giusti motivi, per cospirare contro il governo saudita, provando ad aprire un fronte interno, a suo favore, per destabilizzare il paese. La comune frontiera che corre tra i confini dei due stati adiacenti, favorisce i timori sauditi sul possibile sviluppo della bomba atomica iraniana, tanto da fare diventare l'Arabia Saudita uno dei principali fautori della politica statunitense contro la ricerche nucleari di Teheran. Tra i due paesi si profila anche la questione iraqena, su Bagdad, infatti, hanno entrambi delle mire per ampliare l'influenza sia politica che economica, l'Iraq è stato fino ad ora un paese a maggioranza scita ma governato da sunniti, questa rivalità rischia di trasformarsi in un pericoloso confronto proprio grazie alle mosse dietro le quinte che stanno facendo Riyad e Teheran. Anche sul lato economico i due paesi vanno in direzioni opposte con scopi nettamente contrari: l'Arabia Saudita ha necessità di calmierare il prezzo del greggio per esercitare una strategia produttiva basata sul lungo periodo e tende quindi a ridurne la produzione di barili di petrolio, cosa che non fa l'Iran, che ha necessità di liquidi immediata per sostenere i suoi livelli produttivi intaccati dalla crisi mondiale. Questa nuova crisi tra i due paesi rappresenta un innalzamento di una temperatura già elevata, che rischia di sfociare in un pericoloso peggioramento che può avere ricadute, non solo per l'equilibrio regionale ma per gli assetti mondiali.

Gli USA premono su Cina e Russia contro l'Iran

Gli strascichi della vicenda dei falliti attentati negli Stati Uniti, addebitati all'organizzazione dell'Iran, aprono una fase pericolosa. Anche se per ora la strategia statunitense è quella di inasprire le sanzioni e coinvolgere tutto il Consiglio di sicurezza nella condanna a Teheran, filtrano notizie di allerta per le forze USA. L'obiettivo primario è quello di coinvolgere, nelle sanzioni contro l'Iran, la Cina e la Russia, restie ad ingerirsi negli affari interni degli stati. Le due superpotenze hanno rifiutato di sanzionare Teheran per la questione nucleare, lasciando, di fatto, uno spazio di manovra, sul piano internazionale, all'Iran. Un coinvolgimento di Cina e Russia metterebbe la repubblica islamica in grossa difficoltà di fronte al mondo. Il peso specifico delle sanzioni condivise anche da Pechino e Mosca, salirebbe parecchio e ridurrebbe lo stato iraniano ad un pesante isolamento diplomatico. Il lavorio diplomatico americano sta spingendo in questa direzione, anche se è pressochè impossibile ottenere un voto unanime in sede di Consiglio di sicurezza dell'ONU, per la presenza del Libano, governato dal movimento Hezbollah, uno dei maggiori alleati di Teheran. Tuttavia la chiave per portare verso gli USA i due pesi massimi del Consiglio di sicurezza è l'importanza della mancata vittima dell'attentato, infatti l'Arabia Saudita è il più grande produttore di petrolio e potrebbe gettare sulla bilancia la sua forza determinante di fornitore di greggio, argomento a cui è particolarmente sensibile la Cina. Se l'Arabia riuscirà ad essere determinante in questo senso, potrebbe avere anche un ruolo essenziale per scongiurare una eventuale opzione militare, che sta montando in alcuni ambienti americani. L'amministrazione americana, infatti, pur non ritenendo praticabile in tempi immediati questa soluzione, non scarta a priori una ritorsione armata verso obiettivi iraniani. Ciò darebbe l'avvio ad una pericolosa escalation diplomatico militare che coinvolgerebbe l'intero pianeta andando verosimilmente a sconvolgere gli attuali equilibri. Soluzione che potrebbe essere scartata nel caso Washington trovasse soddisfazione sul piano diplomatico.

mercoledì 12 ottobre 2011

Sventato attentato iraniano in USA

Se, come sembra, l'Iran ha tentato veramente di assassinare l'ambasciatore saudita a Washington, occorre fare alcune riflessioni per cercare di comprendere quale tattica ha intrapreso Teheran. L'obiettivo del rappresentante della monarchia sunnita, con la quale l'Iran si contende il primato dell'islamismo, significa, appunto, dare un duplice segnale forte sulla scena internazionale ai propri alleati, infatti colpire sul territorio americano l'ambasciatore saudita avrebbe significato dare una dimostrazione di forza di non poco conto. L'attentato rientrerebbe in un piano più vasto, che avrebbe avuto come obiettivo anche diplomatici israeliani. Si tratterebbe, cioè, di un strategia volta a mettere in allarme le cancellerie dei paesi alleati contro l'Iran e l'estremismo islamico. Il momento attuale, per sviluppare questi piani concorda con la difficile situazione di isolamento di Israele, le continue sommosse degli sciti in Arabia Saudita ed anche la complicata situazione di Obama alla vigilia delle elezioni presidenziali. Se azioni terroristiche ripetute possono portare ancora più scompiglio in situazioni particolarmente cariche di tensione, il periodo attuale presenta occasioni favorevoli. Tuttavia per quale ragione l'Iran si deve esporre alle naturali ritorsioni, prestando il fianco per un attentato che alla fine non è neanche riuscito? Un motivo può essere una perdita di leadership che l'Iran sta subendo per gli sviluppi sia della primavera araba che dei nuovi assetti geopolitici che stanno favorendo nuovi soggetti come la Turchia. L'Iran vuole fare presa sui soggetti più estremi, Hezbollah, Talebani, Siria, dimostrando di avere una forza in grado di affrontare soggetti più forti. Se questa ipotesi dovesse essere vera, sarebbe una spia che la situazione per l'Iran non sarebbe tanto buona, questa azione potrebbe costituire la mossa della disperazione, anche per contrastare l'ondata di opposizione interna che non si è mai sopita.
Ma quello che ora rischia di aprirsi è un inasprimento delle relazioni tra USA ed Iran, peraltro già sufficientemente tese. Sarà difficile che Washington accetti la teoria di Teheran, che ha definito ridicola la ricostruzione americana. Sulle possibili forme di ritorsione americane la speranza è che si concretizzino con un aggravemento delle sanzioni, come annunciato dalla Clinton, tuttavia non sono da escludere azioni più pesanti, che però potrebbero suscitare reazioni non prevedibili, con conseguenze fortemente negative sugli assetti attuali.

Per la nuova Libia è l'ora di gestire il petrolio

Il conflitto libico continua nelle ultime roccaforti gadafiste, ma Sirte è praticamente caduta e la sua conquista da parte delle truppe del CNT è vissuta come fortemente simbolica per il legame della città con il clan del colonnello, mentre le ultime sacche di resistenza si oppongono, alle ormai truppe governative, soltanto nella zona di Bani Walid. La NATO ritiene che togliendo l'ultimo accesso al mare ai lealisti di Gheddafi, il conflitto sia veramente alle battute finali. Intanto il governo libico di transizione inizia ad addentrarsi nella gestione della maggiore ricchezza del paese: il petrolio. Una delle molle che ha scatenato il conflitto è stata la condizione di povertà del popolo libico, addebitata, oltre alla gestione del rais, anche alla corruzione fortemente estesa nei gangli burocratici del sistema di governo di Tripoli. Una delle maggiori branche dell'amministrazione di Gheddafi ad essere contaminata dal fenomeno della corruttela è stata proprio quella relativa alla gestione dell'oro nero. L'intenzione dei nuovi amministratori libici è da subito quella di esaminare i contratti per trovare chi si è arricchito a scapito dei cittadini. Sul fronte dei contratti per la fornitura di greggio, motivo di trepidazione di diversi governi occidentali, alla ripresa della piena produzione è prevista la priorità verso le raffinerie domestiche, per soddisfare principalmente i fabbisogni interni, lasciando per l'esportazione l'eccedenza. Tuttavia la Libia è un paese di tre milioni di abitanti, con necessità contenute, questa affermazione pare la premessa per una ricontrattazione delle destinazioni e delle quantità delle forniture del petrolio. Non è un mistero, che l'aiuto al CNT sia stato fortemente interessato, l'intervento immediato di Francia e Regno Unito è stato dettato anche dall'esigenza di incrementare le proprie importazioni di greggio dal paese libico a scapito di chi se ne avvantaggiava maggiormente e cioè l'Italia. Roma ha più volte ribadito che i contratti precedentemente presi non si toccano, ma la fase in cui entra la vicenda, non pare assicurare l'assunto italiano in toto, il futuro del petrolio libico sarà oggetto di una trattativa serrata, che lascerà degli scontenti sul terreno.

martedì 11 ottobre 2011

II punto più basso di Netanyahu

L'evoluzione della questione delle colonie israeliane costruite su territori palestinesi prende una via inaspettata e destinata ad aumentare la tensione. Benjamin Netanyahu avrebbe chiesto la creazione di un pool di specialisti per cercare di dare una via legale alla legittimità degli insediamenti sui territori. Oltre che illegale per la stessa legge israeliana, perchè in contrapposizione con la posizione della Corte Suprema, che dal 1979 considera illegali gli insediamenti ebraici costruiti sui terreni privati palestinesi, questa novità è in contrasto con gli stessi ordini impartiti dal governo in carica, che prevedono, per l'esercito, l'ordine di smantellare diverse colonie. Inoltre le stesse autorità israeliane considerano fuori legge, tutte le colonie costruite dopo il 2001, a prescindere anche dalla regola che considera legali quelle costruite sulla base della proprietà della terra.
La comunità internazionale, abbraccia una visione più ampia, considerando illegali tutti gli insediamenti posizionati nella West Bank ed a Gerusalemme Est occupate fin dal 1967. Netanyahu, con questa decisione, si dimostra ostaggio della estrema destra ebraica e mostra scarsa lungimiranza e poca attitudine all'esercizio del governo del paese; infatti una decisone tale mostra il fianco ad una prevedibile serie di critiche senza possibilità di replica. La base legale che il premier vorrebbe utilizzare, per rendere legali le colonie dovrebbe costruirsi sul principio ottomano (il che sarebbe un aspetto comico, se non fosse un tragico ossimoro) che prevede che la terra incolta o abbandonata sia destinata allo stato. Ora è evidente, che anche si volesse applicare una regola di uno stato che non esiste più, totale contraddizione giuridica, pur recependola nel proprio ordinamento, non si vede come si possa conciliare la destinazione dei terreni ad un'altra entità statale, soltanto confinante con lo stato legittimo. In questo modo si viola espressamente il diritto internazionale ed anche quello civile. Se il capo del governo israeliano intende controbattere con questa mossa all'operazione di Abu Mazen presso l'ONU, non fa altro che confermare la propria pochezza e rende esplicito il proprio pensiero di potere contare sempre sugli USA, anche se è chiaro che il Presidente americano non può che condannare questo espediente. Netanyahu gioca d'azzardo contando sulle prossime elezioni americane e sulla necessità per Obama del voto ebraico. Ma la sensazione è che questa alzata d'ingegno possa rompere una corda già molto consumata, gli americani, infatti, si sono focalizzati maggiormente sui problemi di casa propria ed addirittura, per Obama una condanna esplicita di Israele potrebbe costituire una boccata di ossigeno nei sondaggi.

La Birmania libera 6.300 prigionieri

La Birmania, messa alle strette dalle sanzioni di UE ed USA, annuncia la liberazione di 6.300 prigionieri. Tuttavia non viene precisato dagli organi statali birmani, se sono inclusi anche i prigionieri politici. La richiesta degli Stati Uniti e dell'Unione Europea verteva sul rilascio di circa 2.100 prigionieri politici, oggetto, quindi di abusi circa i propri diritti civili. Ed è proprio la questione sui diritti umani, non rispettati dalla passata giunta militare birmana ad essere la causa delle sanzioni di America ed Europa. Il nuovo governo birmano, pur avendo una impronta più libertaria è comunque espressione dei militari, che sono il vero soggetto forte dietro al governo. Ma la pressione sia internazionale, che interna, sta costringendo al cambiamento, seppure lento e graduale, il governo del paese, che sta operando progressive aperture in favore dei diritti civili e politici. I reclusi liberati rientrano nel piano avanzato dal governo al Presidente del paese, che richiedeva il rilascio dei cosiddetti prigionieri di coscienza e quelli che non costituiscono una minaccia alla stabilità dello stato ed alla pubblica tranquillità del paese. Con questa misura il governo della Birmania spera di attenuare la pressione di cui è oggetto e di cancellare le sanzioni per inserirsi a pieno titolo nell'economia della regione.

lunedì 10 ottobre 2011

Per l'Egitto il problema dell'intolleranza religiosa

La primavera egiziana rischia di frantumarsi sugli scogli dell'intolleranza religiosa. I gravi incidenti de Il Cairo riflettono una situazione sempre sull'orlo della crisi ed a rischio di potenziali incendi. Il movimento di liberazione contro la dittatura di Mubarak è stato essenzialmente privo di connotazione religiosa, anche se la preparazione tattico logistica dei Fratelli musulmani ha agevolato e di molto la ribellione di piazza. Tuttavia il movimento islamico ha mantenuto un basso profilo, accodandosi insieme agli altri partiti e movimenti per le istanze di libertà per l'Egitto. Le reazioni dei copti sono state invece piuttosto fredde alla rimozione di Mubarak. In effetti la minoranza cristiana sotto il regime caduto, godeva di una maggiore protezione, che non nella fase attuale di transizione, dove l'esercito, di fatto al potere, non riesce o non vuole garantire una adeguata salvaguardia alle persone ed alle cose copte. La scintilla degli ultimi sanguinosi incidenti è stata proprio uno sfregio ad una chiesa copta, che è stata incendiata da estremisti islamici. Il vuoto di potere che si è venuto a creare dalla caduta di Mubarak, facilita i movimenti dei gruppi più estremi sia da parte islamica che cristiana. Il futuro dell'Egitto rischia di avvitarsi sul tema della libertà religiosa, pur essendo un paese a maggioranza islamica, risulta impossibile non tenere conto del 10% di popolazione copta; il dubbio è questo: è matura la nazione per esercitare una democrazia ed un autogoverno che non si fossilizzi sulla questione religiosa? Se questa maturità manca, per l'Egitto rischia di aprirsi una contesa che può diventare molto pericolosa, fino a sfociare in una autentica guerra civile; inoltre già molti copti hanno o stanno per lasciare il paese, indebolendo quella peculiare funzione di diversità che può essere, invece un elemento di stabilità per il nuovo governo. Senza una pacificazione nazionale, uno degli scenari più probabili che si apre è il governo "sine die" delle forze armate, che possono utilizzare il pretesto come normalizzazione del paese nella direzione che più conviene alle alte gerarchie con le stellette, con la conseguente soppressione delle garanzie fondamentali per quanto riguarda i tanto ricercati diritti civili. Se così sarà il fallimento della primavera egiziana sarà completo.

La FAO preoccupata per l'aumento dei prezzi agricoli

La FAO suona l'allarme per gli aumenti e l'elevata volatilità dei prezzi dei generi alimentari. I dati registrati a livello mondiale suscitano una vera e propria preoccupazione per la nuova crisi a livello planetario che rischia di innescarsi a breve. Mentre gli effetti nefasti della crisi alimentare del Corno d'Africa sono ancora sotto gli occhi di tutti, le conseguenze delle crisi finanziarie e delle guerre, possono causare il dilagare di nuove emergenze legate al fattore cibo. Innazitutto il costo dei combustibili, anche dovuto alla guera di Libia ed in generale alle dimostrazioni legate alla primavera araba, ha inciso fortemente sui costi di impresa, andando a contribuire al rialzo del prodotto finale. Ma il costo del genere agricolo risente anche della nuova tendenza di impiegare vasti terreni alla coltura di prodotti destinati a diventare bio-carburanti, diminuendo, di fatto, la quantità di produzione di generi alimentari, risultando un nuovo elemento di aumento del prezzo. La preoccupazione della FAO si incentra, in special modo, sulle conseguenze per i piccoli agricoltori, del terzo e quarto mondo, che costituiscono una parte essenziale della società di quei paesi che non possono vantare una più complessa organizzazione produttiva. Il ruolo sociale di produttori in quelle economie, svolto dai piccoli coltivatori è fondamentale per prevenire la denutrizione ed assicurare le condizioni di vita basilari alla cittadinanza. Aumenti di componenti che concorrono alla determinazione finale del prezzo possono avere anche conseguenze psicologiche sul lavoro dei piccoli produttori agricoli, infatti se il margine di guadagno diminuisce, si abbassa anche la disponibilità all'aumento dell'investimento sia finanziario, che lavorativo. Il presidio assicurato dai piccoli agricoltori è ritenuto, dalla FAO, fondamentalmente strategico nel quadro della lotta alla denutrizione, pertanto focalizzare i problemi dei piccoli produttori, significa sapere dove intervenire per prevenire le crisi. Infatti i dati raccolti indicano una direzione di intervento per le Organizzazioni internazionali che preveda aiuti economici integrativi, sia gratuiti che a tassi particolarmente vantaggiosi, per alleviare le difficoltà economiche dei piccoli produttori in modo da potere garantire la certezza delle quantità di raccolto. Dovrebbe essere un interesse anche delle nazioni più ricche, al di la delle pure intenzioni umanitarie, cooperare per questi risultati, infatti alcune delle maggiori cause di migrazione sono la fame e la carestia. Consentire uno sviluppo sostenibile per i paesi più poveri significa calmierare anche i processi migratori e quindi anche combattere in modo preventivo ed efficace fenomeni di potenziale delinquenza, innescati dalla povertà assoluta.

sabato 8 ottobre 2011

Redistribuzione: una necessità mondiale

Per una volta gli USA arrivano dopo, non fanno tendenza e sono ad inseguire. Fa specie vedere che gli Stati Uniti si accodano al sentire sociale di movimenti che stanno tracciando la strada in nome di una diversa percezione dell'ordine presente. Anche se può sembrare strano accomunare la piazza egiziana, gli indignados spagnoli, le tendopoli di protesta israeliane ed i cittadini che occupano Wall Street, esiste un denominatore comune che associa persone di diversa religione, etnia e possibilità: manifestare contro le enormi differenze generate da storture del sistema economico ed anche politico. E' vero che per gli egiziani, e prima per i tunisini, poi i libici e via di seguito l'enorme seguito delle primavere arabe, la molla che ha fatto scattare la ribellione è stata individuata nella mancanza di libertà derivante dalle dittature, ma anche l'aspetto economico ha pesato in maniera determinante per la discesa in piazza. E' questo l'aspetto che più accomuna sud e nord del mondo, a volte vicini anche fisicamente, solo poche miglia di mare con la Spagna, la mancanza di opportunità causata dalla scarsa redistribuzione del reddito in favore di concentrazioni sempre maggiori della ricchezza. Che sia in ragione di sistemi dittatoriali di tipo politico o più soft, di tipo prettamente finanziario, la compressione delle possibilità, della restrizione del margine operativo delle risorse economiche della maggioranza dei cittadini, ha chiaramente superato il livello di guardia. Negli Stati Uniti, non in Egitto, il paese delle opportunità, del sogno americano, l'uno per cento della cittadinanza detiene la gran parte della ricchezza a discapito del restante novantanove per cento. Ci sono dati, tra le pieghe delle statistiche americane, che si possono definire soltanto orribili; dati che segnalano una povertà terribile nel paese più ricco del mondo: uno per tutti la vita media del bracciante agricolo statunitense è di soli 49 anni. Così si spiega la velocità di diffusione, una vera e propria macchia d'olio, della protesta negli USA, che malgrado le tante avvisaglie, sta cogliendo di sorpresa i governi statali e quello federale. Per ora la sola risposta è stata una ondata indiscriminata di arresti che segnala il chiaro disorientamento della politica americana. Difficile prevedere come andrà a finire, ma questa volta senza una radicale riforma del sistema finanziario, è molto probabile che chi dimostra possa aumentare in modo esponenziale. Per Obama si tratta di un grosso problema, alla vigilia delle elezioni. Chi va in piazza è lo zoccolo duro del suo elettorato, senza quei voti una riconferma è impossibile, ma per le riforme di cui c'è bisogno, occorrerebbe avere la maggioranza alla camera, dove i repubblicani operano un vero e proprio fuoco di sbarramento a difesa del liberalismo più spinto, vero colpevole della crisi economica. Tuttavia proprio quelle leggi del mercato che hanno originato lo sfascio attuale potrebbero venire in aiuto dei dimostranti. La contrazione della produzione dei paesi emergenti, entrati nel vortice dell'inflazione, provocherà una riduzione del PIL mondiale, a quel punto solo una diversa allocazione delle risorse, operata per legge potrà salvare il mondo in cui viviamo. Una nuova visione della fiscalità dovrà essere il primo passo per girare i capitali finanziari verso investimenti produttivi in grado di assicurare lavoro e consumi. L'obiettivo deve essere redistribuire la ricchezza in proporzioni più favorevoli per la maggioranza dei cittadini, assunto che vale per tutti i paesi. Senza diminuire il peso della finanza il destino è una sommossa continua e continuata.

venerdì 7 ottobre 2011

La Russia preoccupata per i missili USA in Europa

La Russia guarda con preoccupazione agli sviluppi tattici dello scudo spaziale che gli USA stanno incentrando in Europa. L'episodio che ha fatto innalzare la tensione è l'accordo tra USA e Spagna per l'uso della base navale di Rota da parte di quattro navi da guerra della marina statunitense. La Russia vive come un accerchiamento gli impianti missilistici americani presenti in Europa e giudica un pericolo per la stabilità continentale la mancanza di accordi condivisi tra tutti i paesi interessati dal raggio di azione dello scudo spaziale. L'aumento del potenziale missilistico degli USA in Europa, è il vero nodo della questione. Mosca vede variare gli equilibri a suo sfavore a pochi chilometri dalle sue frontiere e pur non essendo in corso con gli USA alcuna diatriba, vuole preservare la sua capacità offensiva ed anche difensiva, senza che queste siano messe in discussione da mutati rapporti di forza. In parte si può ascrivere questo timore ad un retaggio proveninente ancora dalla vecchia contrapposizione est-ovest, di cui l'URSS era uno dei due poli centrali. La nostalgia dell'impero sovietico, per lo meno sul tema della politica estera e della difesa, è sempre presente sia nella classe dirigente che nella popolazione russa ed è una leva da usare quando si è in crisi di consensi. Tuttavia ciò non basta a spiegare l'allarmismo russo, occorre anche considerare la situazione geopolitica di Mosca, che si trova un poco al margine delle grandi decisioni internazionali. Sorpassata dal crescente attivismo cinese, che usa l'espansione economica come vettore per aumentare il proprio peso politico, e fuori dall'asse decisionale USA-UE, Mosca non riesce a riprendere il ruolo che aveva negli anni '80 dello scorso secolo, pur avendo ancora potenzialità da grande potenza. Ma la Russia paga la scarsa influenza che può vantare sul resto del mondo, non ha saputo mantenere gli stretti legami con le repubbliche nate dalla disgrgazione dell'URSS, se non per pochi stati satelliti e non ha saputo neppure allargare la propria influenza verso quei paesi emergenti, che potevano avere bisogno di un alleato forte per portare avanti le proprie politiche. La Russia si trova così a dovere soffrire per un senso di inferiorità sul proprio continente, tuttavia è pur vero che la capacità dei missili americani presenti in Europa sarebbe in grado di garantire di colpire in maniera significativa il territorio russo. Sarebbe questa una occasione per ridiscutere degli armamenti presenti sul suolo del vecchio continente, per ripensare un diverso approccio, che preveda un sempre minore impiego di questi armamenti di dissuasione.

L'UNESCO riconosce il diritto alla Palestina di essere uno stato

L'UNESCO riconosce a maggioranza, 40 voti su 58, il diritto della Palestina ad essere riconosciuto dall'ONU come 194° stato delle Nazioni Unite. Dei diciotto mancati consensi, soltanto quattro paesi hanno votato espressamente contro: USA, Germania, Romania e Lettonia, mentre quattordici sono state le astensioni, tra cui si contano Francia e Spagna. L'Europa, quindi, continua a non avere una posizione univoca sulla questione, se non quella della necessità di riprendere i negoziati. E' una posizione pilatesca, che rimanda ad altri la gestione della questione e non favorisce quel ruolo di preminenza internazionale che la UE vuole darsi. Del resto sono proprio posizioni come quella europea e di molti paesi che compongono la stessa UE, ad avere costretto i dirigenti palestinesi a muoversi autonomamente verso la richiesta del riconoscimento internazionale, quale extrema ratio del blocco dei negoziati, di fatto imposti dal governo israeliano ed avallati dalla pochezza della diplomazia USA. Con il riconoscimento dell'UNESCO, agenzia ONU per l'educazione, la scienza e la cultura, la Palestina continua la sua manovra di accerchiamento diplomatico di Israele, costretto a mandare giù bocconi sempre più amari sul piano internazionale. Gli USA, sempre più in ostaggio dell'elettorato ebraico, contestano con fermezza, per mezzo di Hillary Clinton, la decisione dell'UNESCO, e continuano nella loro linea che non prevede uno stato palestinese senza negoziazione, ma di fatto, non esercitano la loro influenza sul governo israeliano per la ripresa delle trattative, che Tel Aviv, peraltro, vuole solo a parole, continuando ad permettere l'instaurazione di nuove colonie in Cisgiordania. Per come si sta evolvendo la situazione non si può non dare ragione ad Abu Mazen per la sua tattica pacifica ed efficace capace di portare all'attenzione del mondo il problema palestinese, alla fine è palese che per i palestinesi è l'unica soluzione praticabile.

mercoledì 5 ottobre 2011

Per Erdogan Israele ha l'arma atomica

Erdogan sceglie di tenere alta la tensione tra il suo paese ed Israele. Infatti ha dichiarato che lo stato israeliano rappresenta una minaccia per la regione, dato che possiede la bomba atomica. Israele non ha mai confermato ne smentito di essere una potenza nucleare, tuttavia è ragionevole credere che le sue forze armate siano dotate di testate atomiche. L'assetto geopolitico della regione, da sembre in bilico e poco stabile ha senz'altro favorito, nel quadro dell'alleanza con gli Stati Uniti, la dotazione di testate atomiche, anche alla luce dei progressi iraniani sulla ricerca nucleare e delle ripetute minacce di Teheran verso Israele, divenute oramai caposaldo della politica estera del paese degli ayatollah. La denuncia di Erdogan ha una sua logica, sia nei modi, che nei tempi. Sulla veridicità della dichiarazione del primo ministro turco non paiono esserci dubbi: la Turchia è un componente fondamentale della NATO per la regione e fino a poco tempo prima era uno dei maggiori alleati di Israele, con il quale intratteneva e sviluppava rapporti militari, sia strategici che tecnologici, quindi Erdogan parla con cognizione di causa sulla presenza di testate atomiche nel paese della stella di David. Fare in questo momento questa affermazione pone Israele in una ulteriore cattiva luce che potrebbe accentuarne l'isolamento e le difficoltà generate dal processo di riconoscimento dello stato palestinese alle Nazioni Unite. Erdogan con questa dichiarazione schiaccia il piede sull'acceleratore della battaglia diplomatica contro Israele, innescata dalla vicenda della flottiglia per gli aiuti a Gaza e crea non pochi problemi alla diplomazia USA, impegnata a ricucire, peraltro senza successo, il grave strappo.

La complicata situazione afghana verso la pace

La pace in Afghanistan diventa un problema sempre più complicato. Il governo Karzai ha rotto le trattative con i talebani, questa decisione apre nuovi scenari, con nuove implicazioni ed anche nuovi attori che si muovono dietro le quinte. Intanto questa decisione potrebbe provocare un ritardo nel ritiro delle forze NATO, con ricadute negative sulle possibilità di rielezione del Presidente Obama, in programma nel 2012. La complicazione per gli USA, aggrava una situazione già difficile con il Pakistan, colpevole secondo Washington di proteggere i terroristi della rete Haqqani, fortemente sospettati, oltre che dell'assassinio del mediatore ed ex presidente afghano Rabbani, anche di altre azioni terroristiche avvenute al confine tra Afghanistan e Pakistan contro le forze NATO. Il problema di fondo, rilevato sia da Washington che da Kabul, è che le azioni terroristiche principali partono dal territorio pakistano, da cui deriva il sospetto che l'infrastruttura statale di Kabul, se non, almeno in parte, collusa, non eserciti il dovuto controllo sulle organizzazioni terroristiche, che usano il territorio pakistano. Tuttavia, l'abbandono della trattativa con il movimento talebano obbliga il governo afghano a volgere lo sguardo verso Islamabad, nonostante le premesse di cui sopra non siano affatto positive. La mossa di Karzai è rischiosa perchè pare difficile ottenere stabilità per lo stato senza coinvolgere, almeno, la parte moderata dei talebani e costringe l'Afghanistan a puntare tutte le sue carte verso il Pakistan. Questo, però, potrebbe riavvicinare i due paesi, appunto ultimamente divisi, non soltanto per le questioni del terrorismo, ma anche perchè dietro a ciacuno dei due stati si staglia l'ombra di due soggetti tra loro in feroce competizione. Infatti se la Cina ha puntato sul Pakistan, riuscendo anche ad incrinare ulteriormente il rapporto tra Islamabad e Washington, l'India si è mossa in Afghanistan per guadagnarlo alla propria causa. Questa manovra ha avuto un duplice effetto negativo sui pakistani da sempre storici nemici dello stato indiano ed in più influenzati dal giudizio negativo dei cinesi. D'altra parte la strategia indiana è comprensibile, nella guerra commerciale con i cinesi è obbligatorio ribattere colpo su colpo all'occupazione degli stati, sia in ottica di sviluppo di mercato commerciale, che di possibile incremento di mano d'opera. Ma questo sviluppo della battaglia commerciale tra i due colossi della crescita rischia di complicare il processo di pace afghano e la stessa lotta ai gruppi terroristici. Per gli USA, il Pakistan, sia dal punto di vista strategico che politico, dovrebbe essere un alleato fondamentale e per altro lo è stato, fin quando non sono venuti a galla tutti i dubbi sulla lealtà di alcuni suoi apparati statali, ora il rapporto sempre più stretto con la Cina rappresenta un elemento di ulteriore raffreddamento dei rapporti. Ma la posizione geografica del Pakistan è essenziale per la stabilità dello stato afghano, questo è l'elemento di fondo dal quale ogni analisi ed ogni direzione che si vuole intraprendere non può prescindere. Il groviglio che si è creato, sia dal punto di vista politico, diplomatico ed anche commerciale pare difficilmente districabile e forse l'unica opzione praticabile senza troppi ostacoli è un intervento esterno, ad esempio l'impegno di un mediatore internazionale sopra le parti e senza secondi fini che non siano la pace nella regione.

martedì 4 ottobre 2011

Il Senato USA contro la svalutazione della moneta cinese

Il senato degli USA sta per aprire un dibattito sulla presentazione di un disegno di legge che possa permettere di imporre sanzioni commerciali contro la Cina a causa del mantenimento della sotto valutazione della moneta cinese operata da Pechino. La bilancia commerciale americana nel 2010 ha registrato un deficit con la Cina di 273.000 milioni di dollari. La Cina ha espresso, attraverso il proprio governo, il profondo rincrescimento per la possibile misura restrittiva, che viene vista come una chiara violazione delle norme dell'Organizzazione mondiale del commercio (OMC) e che può pregiudicare le relazioni commerciali tra i due paesi. In realtà la questione del deprezzamento artificiale dello yuan è una questione sul tappeto da tempo, la strategia cinese di mantenere una svalutazione artificiale rientra nel più ampio piano per favorire le esportazioni di prodotti cinesi sui mercati più ricchi. La pratica cinese, in effetti, rappresenta un chiaro episodio di concorrenza sleale ed inoltre se si pensa alle condizioni di lavoro e di salario della manodopera, la posizione commerciale di Pechino non può che essere letta in maniera scorretta. Fino ad ora sia gli USA, che la UE, non hanno fatto passi ufficiali tali da pretendere un allineamento della moneta cinese al suo effettivo valore. Se il disegno di legge al Senato USA, dovesse andare in porto, sarebbe una svolta nella guerra commerciale tra Cina ed Occidente, che potrebbe innescare una pericolosa escalation di ritorsioni da ambo le parti, sopratutto nel caso americano, vi sono implicazioni legate ad aspetti più ampi della sola diatriba commerciale, come la grossa fetta di debito pubblico USA in mano a Pechino. Tuttavia la posizione degli Stati Uniti pare compatta di fronte al problema dello yuan, infatti intorno al disegno di legge c'è l'accordo pressochè unanime sia di democratici che di repubblicani. Il parere dei politici, in questo caso, riflette il comune sentire della popolazione americana, che ormai vive ogni occasione in contrasto con gli USA come un attentato verso la nazione, specialmente nel campo economico, dove la situazione si fa sempre più delicata.

Putin propone una unione che vada da Lisbona a Vladivostock

Putin illustra il suo programma internazionale per superare l'attuale fase di crisi economica globale. Sul quotidiano Izvestia, il primo ministro russo, espone le sue tesi, in un articolo che propugna l'integrazione euro asiatica, creando un mercato che comprenda il territorio da Lisbona a Vladivostock. La ricetta di Putin è ambiziosa, ma anche condivisibile nella sua visione, forse un poco utopica, ma certamente carica di significati sia economici, che politici ed anche sociali. La necessità di cercare sempre nuove soluzioni in ambito geopolitico, al fine di aggregare sempre più soggetti, per creare organismi sempre nuovi, anche attraverso il rafforzamento di unioni già esistenti, sembra per Putin, l'unica soluzione per superare gli ostacoli imposti dal processo di globalizzazione mondiale e le sue evidenti patologie. L'integrazione si rende necessaria per sommare forze, che da sole non sono più sufficienti, per contrastare le difficoltà sempre crescenti in materia economica e politica. La Russia e la UE sono già legate dal rapporto creato dal mercato degli idrocarburi e del petrolio, dove la prima è il maggiore fornitore della seconda. Ciò rappresenta una ottima base di partenza per sviluppare ulteriori contatti capaci di ampliare i legami già presenti, vantaggiosi sopratutto per Mosca, che finanziariamente ha una grossa dipendenza dal mercato sopra citato. La necessità di sottolineare questa esigenza è data anche dal fatto che il processo di ingresso della Russia nell'Organizzazione mondiale del commercio ha subito forti ritardi; inoltre alla Russia non basta più l'integrazione che ha sviluppato nell'area dell'ex URSS, dove Mosca gioca un ruolo preminente. Nonostante l'importanza riconosciuta al modello seguito alla disgregazione dell'impero sovietico, quello della formazione della Comunità degli Stati indipendenti (CSI), che ha permesso di continuare i legami storici e sociali, quello che più preme alla Russia è di sviluppare organizzazioni che possano contrastare la crisi economica. L'eliminazione delle dogane dovuta alla creazione allo spazio economico unico tra Russia, Kazakistan e Bielorussia rappresenta un punto di partenza dell'integrazione ma Mosca deve guardare necessariamente ad occidente per potere contare su di un mercato capace di assorbire i suoi prodotti in maniera consistente. Lo sbocco naturale non può che essere la UE, anche se nello spazio dell'ex URSS, l'aggregazione con altri stati deve ancora progredire. Infatti occorre coinvolgere l'Ucraina ed il Tagikistan. Ma la UE resta l'obiettivo di fondo, nelle intenzioni di Putin. In effetti una organizzazione, per lo meno basata sugli scambi economici, che abbracci l'intero continente europeo avrebbe una facilità di sviluppo di fondo grazie alle comuni radici storiche e per la contiguità territoriale, quasi una evoluzione naturale della stessa Unione Europea. Il progetto di Putin appare così non una novità, ne una intuizione rivoluzionaria, ma ha il merito di riportare all'attenzione, sia dell'opinione pubblica, che dei governi, un tema ricco di possibilità e di sviluppi. Non è da poco nell'impasse del momento.

lunedì 3 ottobre 2011

La bomba cinese

La bomba economica più pericolosa per il mondo intero è innescata e se dovesse esplodere le conseguenze sono difficilmente immaginabili. Se si paragona, infatti la situazione cinese a quella greca, si capisce che quest'ultima, pur essendo grave ed avendo provocato parecchi problemi al mondo economico finanziario, è niente di fronte alla potenziale crisi del dragone. Primo aspetto: l'elevato indebitamento delle amministrazioni locali cinesi ha raggiunto il 27% del totale dell'economia e sopratutto l'80% di questi debiti sono ritenuti dagli analisti economici inesigibili. Sarebbe il default per molte amministrazioni locali, ripianabile soltanto con un corposo intervento centrale mediante una massiccia immissione di liquidità. Ciò sarebbe già difficile con condizioni ottimali dei valori fondamentali ma la situazione attuale di Pechino, malgrado i tanti tentativi del governo per mascherare la reale condizione del paese, non è tale da consentire una cura del genere senza ripercussioni. Secondo aspetto: anche in Cina si ritiene che stia per scoppiare a bolla speculativa immobiliare sia per ragioni finanziarie che per ragioni sociali, tanto che gli esperti del settore ritengono il mercato immobiliare cinese non più attraente per gli investitori, da cui ne sta già derivando un mancato afflusso di capitali da immettere sul mercato cinese degli investimenti. Terzo aspetto: l'alta inflazione cinese sta già determinando un rallentamento della produzione, che rappresenta soltanto un primo effetto del fenomeno inflattivo, che è andato a pesare in maniera maggiore sui generi alimentari, alimentando il già presente ed elevato scontento della popolazione. Quarto aspetto: pur essendo una dittatura, che basa la propria stabilità su di un controllo ferreo, il che non dispiace al mondo della finanza, le mutate condizioni sociali del paese hanno fatto emergere un malcontento di fondo, che viene contenuto a stento dall'amministrazione statale. Le smaccate diseguaglianze economiche, l'alto grado di corruzione giunti ai problemi ambientali, peggiorati dalla massiccia industrializzazione ed alla esigenza sempre più pressante di allargamento dei diritti civili e politici, fondamentali per partecipare al processo decisionale del paese, creano una situazione che mette potenzialmente a rischio, il pur radicato sistema politico cinese. Per l'economia basta anche il solo sentore di una possibile instabilità per abbassare il rating; d'altra parte non è possibile credere ad un perdurare di tale stato di cose ragionando sul lungo periodo, ma è la potenzialità che può spaventare le borse. Questi aspetti di problematica sociale potrebbero acuirsi velocemente se si dovesse verificare un calo considerevole dell'occupazione, che andasse a colpire il grosso della forza lavoro. L'aumento esponenziale del malcontento, mitigato dal salario, potrebbe esplodere anche in maniera violenta qualora venissero a mancare i requisiti occupazionali, che in questi anni, hanno anche svolto da ammortizzatore politico. Come si vede i presupposti per una crisi cinese ci sono tutti e non è necessario che si verifichino tutti, è sufficiente che anche uno solo di questi aspetti problematici si verifichi per avere riflessi negativi importanti sul sistema economico mondiale. In più la Cina non è all'interno di alcuna organizzazione come la Grecia, che può intervenire in aiuto, anche perchè il colosso cinese non è inquadrabile in una organizzazioni in termini paritari; la Cina ha una grandezza sproporzionata, elemento che si può trasformare, in caso di crisi, da vantaggio a svantaggio enorme, perchè il fattore moltiplicativo dell'elemento negativo può consentire un effetto a catena travolgente. Sarebbe opportuno che la finanza e l'economia occidentali si preparassero all'evenienza di una crisi cinese, ed anche dal lato politico non è da sottovalutare il possibile movimento di masse in fuga dal dragone cinese.