Politica Internazionale

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mercoledì 30 novembre 2011

Una critica al ruolo della Germania nell'attuale fase di crisi

La turbolenza economica dell'europa alimenta dissidi e potenziali contrasti di ampia portata tra gli stati. Bersaglio principale è la Germania, che in forza della propria capacità economica, si è, praticamente attribuita, oltre che il ruolo guida, non sancito da alcun avallo politico democratico, anche il ruolo di moralizzatore nei confronti dei paesi in difficoltà. Il disagio verso questo atteggiamento tedesco sta montando in maniera esponenziale negli ambienti politici, sopratutto dei paesi definiti come PIGS, che oltre le misure draconiane di cui sono oggetto, dietro cui si vede chiaramente la mano tedesca, patiscono anche l'atteggiamento paternalistico proveniente da Berlino. In effetti la Germania ha intrapreso una politica a senso unico in nome del solo rigore, tralasciando la fase espansiva necessaria per la crescita. Il forte sospetto è che Berlino voglia applicare all'area euro una politica economica di questo tipo per preservare la propria crescita, rafforzando così, oltre alla propria economia, il conseguente ruolo primario in eurolandia, senza dare alcuna o poche possibilità alla crescita degli altri paesi, sacrificandoli soltanto al recupero del loro debito, misura che andrebbe così a rafforzare l'euro e quindi la stessa Germania, che avrebbe quindi un vantaggio doppio dalle misure cui intende costringere gli altri paesi. Una ipotesi del genere inquadrerebbe una alleanza sbilanciata, se non una vera e propria forma di supremazia velatamente nascosta. Se questo ragionamento è vero le alternative sono due: espulsione dall'area euro dei paesi più deboli, ipotesi praticabile fino a che non si include tra questi l'Italia, i cui effetti di una esclusione sarebbero ancora più nefasti per la moneta unica, oppure continuazione dell'attuale area con però sacrifici sempre maggiori per i pesi più deboli. Anche dal punto di vista morale, costringere le popolazioni i cui governi non sono stati all'altezza della situazione, rappresenta un abuso da parte dell'Unione Europea, che tra l'altro, ha le sue colpe concrete, grazie al proprio immobilismo di fronte al sorgere del problema; è infatti opinione diffusa che una azione subitanea, effettuata cioè in tempi più rapidi avrebbe limitato i sacrifici da imporre alle popolazioni degli stati in oggetto. La richiesta di rigore tedesca è comprensibile ma deve essere stemperata con provvedimenti con possano dare speranze concrete alle popolazioni oggetto delle misue di sacrificio, in sintesi la Germania per potere esercitare il suo ruolo di leadership deve essere quella locomotiva economica che dice di essere, ma facendone ricadere i benefici anche al di fuori dei suoi stretti confini, solo così si giustificherà ancora l'esistenza dell'euro con la prospettiva dell'unione politica in virtù di una alleanza a tutti gli effetti.

Dietro all'assalto all'ambasciata inglese

Le modalità dell'assalto all'ambasciata inglese a Teheran sono quelle già viste in Siria e peraltro, tatticamente già sperimentate, contro l'ambasciata USA, quando il presidente era Carter. Quella che appare più evidente è la similitudine con gli atti di Damasco, una vera e propria scelta di colpire le sedi di rappresentanza dei paesi ritenuti nemici. Un avvertimento chiaro a non continuare con la politica contraria verso il paese dove sono ospiti, ma non per concessione, ma in virtù di accordi internazionali liberamente sottoscritti. Sembra evidente che vi è una unica mano dietro questa strategia e non è difficile individuarla nei servizi fedeli al presidente iraniano in carica, che è anche il suggeritore che sta dietro le repressioni siriane. Purtroppo sta diventando una prassi, usata anche però in Egitto, quella di assaltare le ambasciate che dovrebbero avere assicurata la protezione del paese dove operano. Violare questo precetto del diritto internazionale mette su una brutta china qualsiasi rapporto tra stati, non assicurare l'extraterritorialità è poco meno che una dichiarazione di guerra aperta, che implica, per il paese che compie questa violazione, intraprendere una strada di isolamento praticamente scontato. Potrebbe essere una nuova modalità per rompere accordi sottoscritti in maniera ufficiale, obbligando i paesi i cui uffici diplomatici sono stati violati, ad agire in modo unilaterale chiudendo le ambasciate e, di fatto, rendere lettera morta il trattato bilaterale firmato. Sembra proprio questa la strada intrapresa dal regime iraniano: obbligare alla chiusura le ambasciate dei paesi che vengono individuati come potenziali nemici che agiscono sul territorio con modalità spionistiche. Il tutto si inquadra nella lotta al nucleare iraniano ed ai mai chiariti attentati verso scienziati locali impegnati nello sviluppo della tecnologia atomica. Che sia vero o meno l'Iran vede dietro a questi attentati il Regno Unito (e gli USA, certamente, ma non è ancora venuto il momento per affrontarli in modo così aperto) ed in più da un chiaro avvertimento agli altri stati, di cosa può aspettarli se insistono nelle sanzioni. E' il contrario di un atteggiamento conciliante, una situazione precipitata con il rapporto AIEA, ed insieme una sorta di ammissione di colpa sui reali scopi della ricerca atomica intrapresa da Teheran. In questo modo la strada è segnata: da un lato l'Iran vuole liberarsi della presenza dei diplomatici occidentali perchè tutti potenziali spie, dall'altro lato viene scelto il muro contro muro contro la comunità internazionale ed in special modo con l'occidente. Il Presidente iraniano spera ancora di potere agire contro gli USA ed i suoi alleati in virtù delle ampie discordanze che essi hanno con Cina e Russia, e sul breve periodo ha qualche ragione: in questo momento l'atteggiamento di Mosca e Pechino è di forte distanza da Washington, ed anche il nucleare iraniano è una leva da fare valere in un raggio più ampio dei rapporti tra questi colossi; ma se l'Iran riuscisse a raggiungere veramente l'obiettivo dell'atomica, anche i rapporti regionali, data la vicinanza con Cina e Russia, andrebbero per forza a cambiare. Se invece di girare le rampe dei missili verso ovest, Teheran le ruotasse verso est, la gittata degli ordigni nucleari potrebbe raggiungere facilmente i loro territori. E' una ipotesi remota, ma nessuno può prevedere l'evoluzione delle dinamiche dei rapporti tra gli stati, con la velocità dei cambiamenti, caratteristici di questa fase storica. Mosca e Pechino stanno conducendo un gioco molto pericoloso di cui potrebbero diventare a loro volta vittime, una minaccia di un'atomica in più, specialmente in mano a regimi non che non proprio garantiscono una condotta univoca, non è comunque da sottovalutare, anche per il solo fatto di potere potenzialmente variare rapporti di forza militare certi ed abbastanza definiti. L'attacco all'ambasciata inglese deve quindi fare suonare un campanello d'allarme non solo nella NATO e nell'occidente ma in tutto il consesso mondiale, sopratutto per quello che sotto intende, oltre alla gravità del fatto in sè, verso possibili negativi sviluppi per l'equilibrio mondiale.

martedì 29 novembre 2011

L'affermazione dei movimenti islamici impone un nuovo approccio dei governi occidentali

L'atteggiamento dell'occidente nei confronti della primavera araba è stato di sostegno materiale e, salvo alcune eccezioni, di simpatia generalizzata. Nell'ottica democratica occidentale la caduta dei tiranni arabi, cui peraltro l'aspetto funzionale ai governi dell'ovest è risultato acclarato, è stata inquadrata nell'ottica positiva di un possibile sviluppo democratico della forma di governo di questi paesi. Tuttavia le ipotesi di un indirizzamento verso la predominanza di movimenti di tipo laico, più conformi al modello occidentale, stanno venendo progressivamente meno in virtù delle massiccie affermazioni elettorali di formazione di ispirazione islamica. Si tratta, è vero, di partiti di indirizzo moderato, in cui la componente islamica, pur ricoprendo la centralità dell'azione politica, non si richiama praticamente mai a sistemi violenti dell'affermazione dell'islamismo entro i confini sia della società, che dello stato stesso. Ma la connotazione, che resta profondamente religiosa, rischia comunque di costituire un ostacolo nei rapporti con i governi occidentali, proprio sulla dialettica del confronto, in vista di una maggiore integrazione tra queste parti, che mirano, entrambe a trovare nuovi terreni di dialogo. La preoccupazione, da parte occidentale, è di non riuscire a trovare intese praticabili nei rapporti tra gli stati, più facile dialogare con dittatori che davano un'impronta occidentale ai loro paesi, gli esempi di Egitto e Tunisia, a questo scopo sono altamente esemplificativi. Quello che sorprende è che l'ocidente non fosse preparato a risultati elettorali del genere in paesi dove l'unica struttura sociale alternativa al soffocante abbraccio dei regimi era rappresentata soltanto dal rifugio religioso. Piuttosto può essere un elemento di novità l'affermazione dei partiti islamici anche in Marocco, governato da una monarchia più illuminata rispetto ai governi dei paesi vicini. In questo caso il fattore di emulazione con gli stati contigui può essere una spiegazione. In assoluto il fatto è lampante, il risultato democratico parla chiaro e non può essere confutato con ritorni al passato o paure che devono essere superate ad ogni costo. Quello che deve cambiare è la disposizione verso movimenti di natura teocratica che imporranno inevitabilmente nei loro paesi modi di vita nettamente in contrasto con gli usi occidentali. D'altro canto questo è quello che è emerso o sta emergendo dalle indicazioni delle urne, vi è una omogeneità dei corpi elettorali delle nazioni al voto, che indica un bisogno, quasi fisiologico di regolare le società che si sono affrancate dai regimi in maniera più orientata ai valori religiosi propri, quasi a sviluppare una reazione ad una identificazione dei valori occidentali alle dittature decadute. Se questo è vero, rappresenta un punto fondamentale da cui partire per stabilire contatti consoni con i nuovi governi, trovando quel terreno d'intesa fondamentale nel rispetto dei nuovi indirizzi assunti, che contemplano una applicazione pratica dei precetti islamici. Questo punto deve essere, anzi coltivato in maniera assidua in maniera da non favorire una deriva estremista, intensificando i rapporti di vicinanza e di collaborazione in modo di favorire il rispetto e la comprensione reciproca.

lunedì 28 novembre 2011

Hamas ed Al fatah più vicini

Anche in Palestina si comprende l'importanza di annullare nel modo maggiormente possibile le differenze tra le due formazioni di più grande peso. Se questo è obiettivamente un progetto ancora troppo ambizioso, per le note distanze, l'avere compreso che intessere sempre maggiori legami tra i due movimenti rappresenta l'unico viatico per trovare quella unità del popolo palestinese necessaria alla costruzione dello stato. L'incontro avvenuto ad Il cairo il 25 novembre cerca di percorrere pienamente questa direzione, almeno nella forma dove si usa la rassicurante formula di avere rimosso ogni divergenza tra le due parti, cosa, ovviamente non vera, ma che segnala l'ampia volontà delle due formazioni di trovare un'intesa comune sempre crescente. Il primo appuntamento di rilievo concordato, entro il piano più vasto ed ambizioso di riconciliazione nazionale, sono le elezioni previste per il prossimo maggio. Si tratta, è bene dirlo subito, di una data che difficilmente potrà essere rispettata, perchè frutto di una previsione troppo ottimistica, minata dalle sempre presenti difficoltà di trovare una intesa sulla costruzione del nuovo esecutivo palestinese. Intorno alla questione del governo ruota l'accordo di riconciliazione nazionale, che doveva essere il collante principale per la ricostruzione dello strappo tra i due movimenti avvenuto quatro anni prima. In particolare Hamas si è irrigidito nella propria contrarietà al nome designato da Al Fatah, che altri non è l'attuale premier in carica: l'ex economista della Banca mondiale Salam Fayyad. Tuttavia sull'altro punto cruciale, che anzi ha risvolti programmatici ben maggiori, l'intesa è netta e rappresenta l'istituzione di uno stato palestinese entro i confini del 1967, con Gerusalemme Est come capitale. Anche sul piano militare la necessità di mantenere la tregua con Israele è condivisa da entrambe le parti; ciò significa molto, sopratutto per Hamas, perchè si riconosce che il processo di pace deve essere perseguito senza atti di terrorismo. Si tratta di una posizione che, tra l'altro, mette in grossa difficoltà Israele, che conta sull'estremismo di Hamas per trovare giustificazioni sempre nuove alla politica violenta del governo in carica di Tel Aviv, sopratutto sul tema delle colonie abusive che vengono di fatto permesse da Netanyahu. Inoltre la sempre minore divisione tra i due maggiori movimenti palestinesi mina una dei caposaldi della politica israeliana che contava, ed alimentava questa divisione proprio per allontanare lo spettro della creazione dello stato palestinese. Dietro il pesante lavorio per la distensione e l'accordo tra i movimenti palestinesi si distingue e si muove l'azione egiziana, che ritiene fondamentale per il grande paese confinante la creazione dello stato palestinese, come fattore di stabilizzazione regionale e l'allontanamento definitivo del problema alle proprie frontiere. Del resto una situazione stabilizzata su questo fronte, che da troppi anni mantiene una temperatura troppo elevata, va al di la del benessere del medio oriente ma riguarda il mondo intero. Una regolarizzazione definitiva della questione che comprendesse finalmente la creazione dello stato di Palestina, toglierebbe parecchie argomentazioni ad un estremismo islamico sempre più crescente ed operante in diverse aree del pianeta.

venerdì 25 novembre 2011

Dietro alla crisi dell'Euro

Sulle prospettive dell'euro ormai le ipotesi si sprecano. Mai come in questo momento, dove perfino i titoli tedeschi vanno invenduti, non vi è alcuna certezza, addirittura sulla vita della moneta unica europea. E' una situazione paradossale, fino all'estate, ma anche dopo, l'euro era la divisa più forte, tanto da sostituire, in alcune economie, il dollaro come moneta di riferimento. L'avvitamento di alcune economie, prima fra tutte quella greca, che si è scelto di non salvare fin da subito con interventi strutturali da parte dell'Europa, dispensando, viceversa, anche con ragione, consigli e rimbrotti, ha rotto la diga che ha permesso alla speculazione di sfondare, trascinando nella difficoltà altri paesi, ben più pesanti nella complessità del sistema. Ma perchè proprio ora l'euro è entrato in difficoltà, quando le condizioni erano già presenti e conosciute prima? La sola spiegazione della speculazione non può convincere completamente, non può essere soltanto una somma di speculatori tesi a guadagnare dalla sconfitta dell'euro a determinarne la sua possibile fine. E' vero che sono stati fatti errori marchiani e ripetuti da più di un soggetto che doveva regolamentare e sopratutto vigilare sulla questione, ma questo può bastare a decretare una simile e rovinosa caduta? Il sospetto che ci sia una o più mente pensante dietro a questo sviluppo di cose non può non sfiorare chi è spettatore dei fatti. Senza dubbio, anche se sul lungo periodo, una caduta dell'euro, con il ritorno a tutta la frammentazione delle singole monete nazionali, sopratutto senza una organicità univoca dell'economia europea, conviene sia alla Cina che agli USA. L'Europa, forse tranne la Germania, che sarebbe però fortemente indebolita, diventerebbe un conveniente mercato da colonizzare, non solo in senso strettamente economico, ma anche politico. La difficoltà sarebbe riuscire ad assorbire un periodo dove il principale cliente di Pechino e Washington, non sarebbe più in grado di ricevere le merci, fatto parzialmente bilanciato dalla nuova condizione europea di non essere più un concorrente pericoloso. In questa fase la contrazione delle vendite potrebbe essere ulteriormente compensata indirizzando il flusso di vendita verso nuovi mercati in espansione e l'incremento verso la clientela dei maggiori paesi emergenti. L'Europa, divisa e con le monete locali tornate in auge, sarebbe costretta, specialmente nelle economie più deboli a fare ricorso a politiche inflattive per ricercare maggiore competitività per i propri prodotti, ma nel contempo sarebbe costretta ad un indebitamento incontrollato per l'approvigionamento delle materie prime, diventando cosi' preda di potenze dotate di maggiore liquidità. E' una prospettiva reale, che si può ostacolare soltanto con l'unità continentale di tipo politico, anche soluzioni più ristrette, mantenendo cioè una unione monetaria dei soli paesi con economie virtuose, come prospettato da alcune ipotesi, si arriverebbe soltanto ad un soggetto comunque più debole nell'agone internazionale, non in grado di avere il sufficiente peso politico per bilanciare il peso dei soggetti più grandi. Se tale ipotesi può sembrare fantapolitica, si pensi alla strategia cinese di riempire di immigrati con grandi disponibilità economiche, che quindi generano più di un sospetto sulla reale necessità di lasciare la loro terra di origine, i paesi occidentali. Tale metodo appare chiaramente guidato da una strategia politica alle spalle del fenomeno, che contempla una sorta di invasione dal basso nelle strutture produttive del paese oggetto dell'immigrazione. Queste avanguardie costituiscono l'inizio della colonizzazione sopratutto perchè rifiutano una integrazione con il tessuto sociale pre esistente, rinchiudendosi in comunità a se stanti, che finiscono per fornire argomenti ad i gruppi e partiti localistici, che tanto premono su queste tematiche. Ancora una volta l'antidoto è il rafforzamento dell'unione politica continentale, per rinforzare e rilanciare la moneta unica, unico baluardo sicuro contro le speculazioni economiche.

martedì 22 novembre 2011

Superare il G7

Il numero uno di Goldman Sachs, Jim O'Neil, prevede che entro il 2027 la Cina sarà l'economia numero uno del mondo e che il PIL di India e Brasile crescerà in maniera esponenziale. Da qui la necessità di una riforma del G7, che dovrebbe riunire le maggiori economie mondiali per dare gli indirizzi dello sviluppo. Il funzionamento del G7 è infatti sostanzialmente fermo, se non per pochi aggiustamenti, alla sua fondazione avvenuta nel 1975. Da allora troppo è cambiato sia sul piano economico, che politico ed il mondo è totalmente diverso, grazie ai grandi mutamenti che hanno ridisegnato lo scenario internazionale. Non ha più senso tenere fuori dal ristretto gruppo che dovrebbe guidare l'economia mondiale sistemi economici come la Cina, il Brasile, l'India e la Russia, che costituiscono i principali motori dell'economia della terra. Secondo O'Neil la partecipazione al G7 di ben tre paesi che fanno parte dell'area euro: Germania, Francia ed Italia non ha alcun senso, sopratutto se si pensa alla forza economica non solo dell'Italia, ma anche della Francia, viceversa, una unificazione effettiva delle economie mediante riforme del governo dell'euro, sarebbe preferibile perchè porterebbe un solo socio nel G7, ma con una forza maggiore. Una partecipazione più fattiva delle nuove potenze al governo dell'economia dovrebbe essere ormai un fatto assodato, che nessun G20 mitiga, perchè troppo ampio. Viceversa un consesso più ristretto potrebbe prendere delle decisioni più appropriate, nell'ottica effettiva della potenza economica. Certo sarebbe una perdita di potenza per l'occidente ridotto, nella migliore delle ipotesi alla presenza di USA, Gran Bretagna, Giappone ed Europa (area Euro), con l'eliminazione anche del Canada perchè troppo piccolo come economia. Forse quello da riformare è proprio il pensiero della logica economica nella visione complessiva che non deve più privilegiare uno scenario che favorisce, in ambito decisionale, le economie più ricche. Però non visto da occidente questo teorema sembra volere ribadire la supremazia delle economie più ricche di più antico lignaggio, penalizzando le economie emergenti, che però sono quelle che stanno diventando prevalenti. La necessità è di riequilibrare anche in altri ambiti, quello che rappresenta la normativazzione che si cerca di dare al mercato, anche in altri ambiti, come quello sovranazionale: si pensi alla costituzione che regola il Consiglio di sicurezza dell'ONU, ancora fermo al periodo immediatamente successivo al secondo dopoguerra: l'apertura a maggiori soggetti potrebbe favorire una maggiore integrazione, necessaria a compensare la sempre crescente globalizzazione. Tuttavia anche prendere in esame la creazione di organismi ex novo, sopratutto per l'economia, potrebbe rappresentare una soluzione per ricercare nuove forme di governo dell'economia mondiale potrebbe essere una soluzione da percorrere. Considerando questa possibilità, ma non solo, l'apporto dell'occidente dovrebbe essere di natura maggiormente normativa, per fare sviluppare quelle legislazioni necessarie per garantire una concorrenza equa attraverso la tutela del lavoro estesa a tutte le economie, almeno quelle più rilevanti, con una maggiore permeabilità in quei sistemi economici più restii a garantire le sicurezze di base al mondo del lavoro. Si tratta di una sfida epocale per riformare in senso più ampio tutta l'economia del pianeta verso una maggiore equità, che possa garantire un pieno accesso alle opportunità per tutti i lavoratori del sistema terra.

Sulla cattura del figli di Gheddafi possibili contrasti tra CNT e Corte dell'Aja

Con la cattura di Saif al Islam, l'unico figlio di Gheddafi rimasto sul suolo libico ed il capo dei servizi segreti, Abdala Senussia, il CNT dovrebbe avere eliminato, almeno dal territorio nazionale, le potenziali minacce costituite dalla presenza di esponenti del vecchio regime. Il problema che si pone ora per la comunità internazionale è come si comporterà la giustizia libica nei confronti dei due esponenti del clan Gheddafi; l'esecuzione sommaria del dittatore libico è ancora impressa per la ferocia dei modi ed i sospetti che l'hanno accompagnata e per come sia avvenuta nonostante il mandato di cattura della Corte penale internazionale dell'Aja. Analogo mandato era stato spiccato contro i due esponenti appena catturati per crimini contro l'umanità. L'intenzione della Corte con sede in Olanda sarebbe quella di processare in ambito internazionale sopratutto il figlio di Gheddafi, che era destinato alla sua successione e si ritiene condividesse con il padre diversi segreti inerenti allo stato libico, tuttavia il vice presidente del CNT Abdelhafiz Ghogaha già annunciato che i due saranno giudicati da un tribunale del nuovo stato. Le ragioni di questa decisione sono duplici, da un lato il bisogno di cancellare la vergogna dell'uccisione di Gheddafi ed accreditarsi come stato di diritto pienamente operante e capace di garantire le condizioni per un giusto processo, dall'altro lato, però, potrebbe esserci l'interesse di scavalcare la Corte dell'Aja e quindi l'opinione pubblica internazionale, per impedire la divulgazione di segreti scomodi per le potenze alleate al CNT. Su questo tema si è discusso parecchio e per gli aspetti della repentina morte di Gheddafi, avvenuta in maniera alquanto sospetta, si riversano anche i timori per una possibile fine del figlio. Nonostante questa volontà del CNT di effettuare il processo in Libia, il nuovo governo deve comunque collaborare con la Corte dell'Aja per dimostrare almeno le proprie buone intenzioni in campo giuridico sul piano internazionale, anche perchè il governo libico non ha esercitato il proprio diritto di contestare la competenza della Corte internazionale, in quanto i capi d'accusa contestati agli imputati sono i medesimi. Quello che appare è un CNT ancora poco abituato a rapportarsi con le organizzazioni internazionali, in bilico tra il desiderio di regolare entro i propri confini le questioni con il passato regime e nello stesso tempo di apparire affidabile sul piano internazionale. La questione è fondamentale per l'immagine del regime che si rifletterà sul piano internazionale, una esecuzione sommaria non sarà tollerata dalla comunità internazionale, ed è ormai fuori dalle opzioni disponibili per il nuovo governo libico, che, anzi, dovrà prepararsi ad per effettuare un processo con tutte le garanzie, anche se probabilmente in contrasto con la Corte dell'Aja.

lunedì 21 novembre 2011

Il nuovo pericolo per la democrazia si chiama tecnocrazia

Passata la prima fase di euforia, sulla nomina del nuovo governo tecnocratico italiano cominciano a crearsi dubbi e domande. Il necessario cambio, praticamente imposto da una Unione Europea impaurita dalle possibili conseguenze di un crollo italiano, porterà nelle case dei cittadini del belpaese una serie di sacrifici, che non ne miglioreranno la situazione rispetto all'immediato passato. Si dirà, ed in parte è vero, che sono provvedimenti necessari ed investimenti per migliorare il futuro, tuttavia se il peso del risanamento continuerà a ricadere sulla stessa parte della popolazione, ciò dovrà essere, per forza, materia di analisi da parte dei burocrati di Bruxelles. Senza un'adeguata ripartizione dei sacrifici su base proporzionale della ricchezza manca uno dei requisiti principe per cui è nata la stessa Unione Europea: l'uguaglianza, sia in senso letterale, che in senso lato. Attualmente per l'Europa, appare sempre più chiaro, le questioni di fondo, quelle riguardanti i principi, sono rimaste indietro rispetto ai freddi numeri, l'urgenza di riportare a valori adeguati gli indici economici ha tralasciato il metodo sul come riportare entro binari prestabiliti i fondamentali economici. La percezione, da lontano, è che agli eurocrati, sia di matrice politica, che di matrice burocratica, interessi il solo raggiungimento del risultato, come se i numeri indicassero poi la reale conseguenza sulla maggior parte dei cittadini. Se questo è vero, lo è però, solo fino ad un certo punto: senza una equa redistribuzione della ricchezza e quindi un benessere maggiormente diffuso, l'efficienza dimostrata dai risultati vale poco, se non per garantire ulteriore benessere a chi già lo aveva. La questione è fondamentale per un analista di fatti politici, il nuovo governo italiano, che non gode, se non formalmente, ma non effettivamente, di una investitura democratica, è composto da si da tecnici, ma che provengono per buona parte da settori dai quali maggiormente si individuano le colpe della situazione attuale. Non che i nuovi ministri italiani siano, fino a prova contraria, tra chi ha causato la crisi, ma ragioni di opportunità avrebbero consigliato scelte differenti. Ma il silenzio, anzi l'entusiasmo, europeo su questa direzione intrapresa la dice lunga all'approvazione riservata ad un governo che costituisce un precedente pericoloso. A parte dubbi di natura di legittimità più che condivisibili, quello che l'Europa ha avvallato è un governo che vuole garantire una direzione ben incanalata da Bruxelles senza che il corpo elettorale italiano possa esprimere un parere vincolante. Il fatto negativo è che la UE eserciti una funzione non statuata nei confronti di un paese, colpevole finchè si vuole di leggerezza politica ed economica, facendo ricadere letteralmente la sua decisione dall'alto, pur con tutte le attenuanti di urgenza che hanno provocatola misura. Certamente le istituzioni italiane, fin dal Presidente della Repubblica, non sono state obbligate da un golpe militare, e pagano la scarsa competenza in materia economico finanziaria del precedente governo, ma in questo caso sono state ostaggio di Bruxelles. E qui si ritorna all'inizio di questa riflessione, le decisioni che andranno a subire i cittadini italiani, che sono è bene ricordarlo le vittime di questa situazione, giacchè non è vero come si dice che hanno vissuto al di sopra delle loro capcità, ma la verità è semmai il contrario (perlomeno per la maggiore parte di essi), saranno quindi frutto di una mancanza di legittimità, che potrà essere solo sanata da provvedimenti effettivamente tesi a stabilire una equità sociale fin qui mancata tramite una effettiva redistribuzione della ricchezza e delle opportunità sociali. Allora, se questo si verificherà, si potrà giustificare l'ingerenza europea perchè attuata in nome dei principi ispiratori dell'unione sovranazionale del vecchio continente, viceversa sarà solo un ulteriore passo verso la tecnocrazia totale, una forma più soft di dispotismo, ma sempre una interruzione di democrazia. Occorre prestare attenzione a questo possibile sviluppo della UE, l'Italia in questo senso può costituire un valido laboratorio per chi vuole portare la barra delle decisioni in mano agli esperti escludendo di fatto le decisioni di merito, quelle che solo la politica può portare.

sabato 19 novembre 2011

Kenya ed Israele si alleano contro Al Shabab (e contro l'Iran)

Tra Israele ed Iran non c'è solo il conflitto potenziale che ruota intorno all'atomica di Teheran, ormai tra i due paesi esiste tutta una guerra sotterranea fatta di alleanze ed aiuto ai reciproci nemici. L'ultimo caso riguarda la fornitura di supporto al Kenya nella lotta contro la milizia Al Shabab, che con frequenti incursioni dalla parte somala della frontiera, porta il terrorismo islamico mediante azioni militari ed attentati fin dentro il territorio di Nairobi. Lo scopo è formare una coalizione contro il fondamentalismo islamico, cui dietro si sospetta ci siano i concreti aiuti iraniani. L'alleanza conviene ad ambo le parti, per il Kenya la competenza militare e l'attrezzatura israeliana possono costituire un sostanziale rafforzamento della misure adottate schierata contro le milizie islamiche, per Israele il lavoro diretto sul campo può consentire un lavoro di intelligence in maniera di ricavare informazioni di prima mano, sia sull'attività di Al Shabab, che sui suoi canali di supporto, tra cui si sospetta la fattiva attività dell'Iran. Del resto la presenza della repubblica islamica nella regione non rappresenta un mistero, la marina militare iraniana pattuglia il golfo di Aden, ufficialmente per combattere la presenza della pirateria che sovente attacca le navi mercantili, durante la recente carestia il regime di Teheran ha donato alla Somalia una cifra attorno ai 43 milioni di dollari ed è diventato il principale partner commerciale del paese del corno d'Africa. E' logico che avere soldati e funzionari israeliani al confine di un paese dove certamente stazionano omologhi iraniani può diventare una fonte di confronto pericoloso e, se possibile di peggioramento della situazione regionale proprio tra Kenya e Somalia. Un aggravamento dei rapporti tra i due stati potrebbe causare una situazione molto più pericolosa sul fronte delle grandi migrazioni provocate dalle carestie ed in parte aggravate dall'atteggiamento delle milizie islamiche, che impediscono il fluire regolare delgi aiuti, indirizzando verso il Kenya grandi masse di disperati. E' una tattica usata per mettere in ginocchio il paese kenyano, aggravata ulteriormente dai ripetuti rapimenti avvenuti sul confine dei due stati, operati nei confronti di cittadini europei. Con queste tattiche Al Shabab prova a sfondare in Kenya e quindi ad allargare la sua zona di influenza e di conseguenza portare l'estremismo islamico nel paese di Nairobi. La zona è considerata particolarmente fertile per un possibile attecchimento del fondamentalismo islamico proprio per le grandi masse di somali, la cui gran parte è proprio di religione islamica, costretti a fuggire dalla fame e tenuti all'oscuro delle manovre di interdizione sui rifornimenti alimentari operati da Al Shabab. Per Israele è necessario cercare di bloccare questa tendenza proprio per togliere consenso alla nazione iraniana, che necessita di sempre un maggior numero di alleati, ma l'alleanza con il Kenya, al di la della necessità strumentale, significa anche dimostrare al panorama diplomatico mondiale, che Tel Aviv possiede ancora capacità di trovare nuove sponde con cui intessere rapporti internazionali.

mercoledì 16 novembre 2011

Mentre gli USA si rafforzano in Australia, si delinea il nuovo duopolio mondiale

Gli USA ridisegnano la loro strategia militare, che dovrebbe seguire al progressivo sganciamento, se ciò sarà possibile alla luce dei sempre nuovi sviluppi di politica estera, da Iraq ed Afghanistan. La nuova regione di importanza strategica ritenuta fondamentale è stata da tempo individuata nel continente oceanico ed in Australia in particolare, per fronteggiare quella che è la nuova superpotenza antagonista americana: la Cina. L'alleanza con il paese dei canguri procederà in maniera graduale con un invio di truppe dapprima contenuto e poi in incremento, fino a raggiungere un numero di effettivi intorno a 2.500. Obama ha sottolineato che sia USA che Australia sono due paesi tradizionalmente amici, che sono entrambi nel Pacifico ed hanno interessi comuni sia economici che militari. E' chiaro che l'obiettivo, neanche tanto occulto, di questo messaggio è Pechino, che d'altronde, ha accolto in maniera tutt'altro che favorevole l'iniziativa americana. Del resto per gli USA gli assetti del continente asiatico sono sempre più importanti, per la visione di Obama è preminente tutelare non solo gli alleati presenti nell'area come Giappone e Corea del Sud, ma presidiare anche le importantissime rotte commerciali del Pacifico per non lasciarne alla Cina il predominio. La presenza in Australia si configura quindi come presidio e base logistica degli Stati Uniti in una zona che sta accrescendo la propria importanza nella politica estera di Washington. Quello che si va a delineare è quasi una riproposizione dello scenario bipolare del secondo dopo guerra, mitigato però dalla presenza di altri attori sulla scena che limitano la preponderanza dei due soggetti principali. La UE, la Russia, l'India, il Brasile e la galassia dei paesi arabi che si sta formando a seguito dello sviluppo delle primavere arabe, costituiscono dei soggetti che possono fare pendere la bilancia da una parte o dall'altra, ma non sembrano avere sufficiente autonomia da diventare una potenza tale da inserirsi nel confronto del duopolio sino americano. Inoltre vi è tutta quella fascia di paesi emergenti, sia in Asia che in Africa che dispongono grandi risorse naturali capaci di condizionare i mercati e sui quali si gioca la partita delle influenze delle due superpotenze. La strada imboccata dai rapporti di forza tra i due stati che si pongono come guida del mondo, sia pure in maniera differente, si svilupperà quindi verosimilmente in una continua ricerca di alleanze che diventerà, entro certi limiti mobile, lo scenario non si baserà più su blocchi definiti rigidamente, ma attorno ad alleati più fedeli verranno creati nuovi legami meno rigidi. Un esempio di questa situazione in divenire potrebbe essere l'attuale Pakistan, che da una alleanza mai compiuta con gli USA, sta dirigendosi verso più stringenti rapporti con il colosso cinese. Nell'assetto mondiale che sta nascendo la caratterizzazione della fedeltà, sopratutto per i paesi che si affrancano dalla povertà più estrema, sarà frutto di opportunità da cogliere al volo per capitalizzare le proprie risorse all'interno dello scacchiere internazionale.

Euro ed Unione Europea non sono separabili

La vita della moneta europea è ad un bivio. Nata come collante preventivo all'unificazione politica del vecchio continente, è stata lasciata a se stessa, senza un governo effettivo che ne regolasse la vita e le funzioni, forse anche in maniera deliberata dietro a cui nascondere speculazioni e malfunzionamenti delle economie dei singoli stati. Tuttavia, pur con tutti i limiti imposti da una cattiva gestione, l'Euro ha fornito, fin dove ha potuto e comunque più delle singole monete statali, una protezione efficace contro gli effetti delle svalutazioni selvagge ed ha saputo contenere i valori a due cifre caratteristici dell'inflazione degli anni precedenti alla sua adozione. Certo non è una valuta ben vista da speculatori e finanzieri d'assalto, a cui si aggiungono in un'alleanza inedita, ma non troppo, i leader ed i seguaci dei partiti nazionalistici e localistici, che hanno riscosso tanto successo in Europa. Le ragioni, è logico sono differenti ma non dissimili, per i primi l'euro ha costituito un ostacolo alle manovre speculative generando un argine che purtroppo si sta sgretolando, per i secondi l'impossibilità di agire sulla leva della svalutazione ha impedito pericolose oscillazioni del valore e la conseguente instabilità monetaria. Non è quindi peregrina l'idea che dietro ai demolitori della moneta unica vi siano, oltre che gruppi tesi al mero guadagno, anche soggetti con obiettivi più politici riguardo al ritorno delle monete nei singoli stati. Ciò collima con chi è contrario all'Europa unita, delegittimare e quindi ridurre l'euro all'impotenza, significa stroncare anche l'unione politica fin qui tanto faticosamente costruita. E' una visione che pareva sopita ma rinasce grazie alle disgrazie della moneta unica, forse alimentate anche da chi non vuole l'unificazione europea. La scelta che si impone è un chiaro cambio di passo nella questione dell'importanza delle strutture governative sovranazionali, senza un potere accresciuto di Bruxelles nei confronti delle sovranità statali, la UE resta una mezza figura, facile preda di veti incrociati e senza alcuno sbocco definitivo. La crisi dell'euro, tra i tanti svantaggi, ha anche il pregio di potere mettere fretta a chi crede nell'unione politica, ma finora è rimasto in mezzo al guado, dato che per uscire dalla attuale difficile situazione occorre accelerare sulla preminenza degli strumenti comuni proprio riguardo alla gestione della moneta unica. Si è più volte sottolineato che il punto debole dell'euro è la mancanza di uniformità delle economie aderenti, soltanto quindi regole comuni dell'economia e della finanza possono portare aggiustamenti tali da correggere queste differenze. Ma queste decisioni che vanno ad impattare sull'insieme dei paesi aderenti alla zona euro sono prima di tutto decisioni politiche ed andrebbero quindi a costituire il nucleo fondante di provvedimenti comuni più ampi, tali da gestire una più efficace gestione sovranazionale, capace di integrare in tutte le sue forme l'Europa, come deve essere una federazione compiuta di stati. Però questo impone, finalmente scelte nette e definitive, da dentro o fuori, per tutti. Non dovrà esserci più posto per chi galleggia a metà ed usa l'Europa solo per allargare i propri mercati o intascare i sostanziosi contributi europei. Neppure dovrà esserci posto per chi non aderisce in toto alle istituzioni ma non alla moneta unica, i due aspetti sono inscindibili e non negoziabili, perchè una loro separazione significa mancanza di piena convinzione europeista. E' questa la sfida che devono portare a compimento gli europeisti cominciando l'opera di convincimento a livello locale, dove in definitiva si annidano i principali ostacoli.

martedì 15 novembre 2011

In Siria assalto alle ambasciate

Il regime siriano allarga la linea della repressione dai civili verso le ambasciate estere. L'escalation di Damasco segna un fatto nuovo nei fatti siriani, andando a colpire gli uffici diplomatici di Arabia Saudita, Turchia, Qatar e Francia, colpevoli agli occhi del regime di condannarne l'operato. L'operato siriano sembra quasi un avvertimento in preparazione della riunione dell'imminente Lega Araba, quando si riuniranno i ministri degli esteri dell'organizzazione sovranazionale, che ha più volte condannato l'operato di Assad. Inoltre, per la Siria si aggiunge anche la posizione pesantemente critica della Turchia, che fino ad ora, pur condannando le violenze del regime di Damasco, non aveva ancora intrapreso passi ufficiali contro il governo. Ankara ha, infatti deciso la completa evacuazione di tutto il proprio personale diplomatico, andando così a sottolineare la completa incapacità di garantire la sicurezza del governo di Damasco alle legazioni diplomatiche. Il passo turco ha il significato di condannare esplicitamente l'amministrazione siriana ed i suoi metodi, gettando sul piano diplomatico tutta la propria importanza acquisita nella regione; tale mossa si completa con il prossimo incontro del ministro degli esteri di Ankara con i rappresentanti dell'opposizione siriana, vertice, peraltro che non rappresenta una novità, dato che si è tenuto già lo scorso mese.
Il mancato rispetto delle sedi diplomatiche in Siria, pare una tattica ormai consueta nella pratica repressiva attuata da Assad, che si concretizza con manifestazioni di appoggio al regime che finiscono per assaltare l'ambasciata di turno del paese che ha espresso o appoggio ai ribelli o reprimende per le repressioni governative. Perfino la sede dell'ambasciata dell'Arabia Saudita è stata violata, pur essendo a pochi isolati dagli uffici dello stesso Assad, una delle zone più sorvegliate della capitale siriana, fatto questo, che sta a dimostrare l'assoluto appoggio del regime alla pratica delle ritorsioni contro le sedi diplomatiche. La palese violazione delle consuetudini del diritto internazionale, che sanciscono il principio di extra territorialità delle sedi diplomatiche, rappresenta la grande difficoltà del regime ha governare sia l'opposizione interna, che quella, ritenuta ben più pericolosa, proveniente dal mondo diplomatico, sopratutto di matrice araba. La pressione su Assad proveniente dal mondo musulmano, specialmente sunnita, mentre l'Iran appoggia apertamente Damasco, ha una sua giustificazione nel timore di un allargamento a macchia d'olio delle proteste, già faticosamente represse proprio in Arabia Saudita ed Oman. Sopratutto Riyad preferirebbe che la situazione siriana andasse a normalizzarsi, anche con aperture che potrebbero essere causa di possibile emulazione di oppositori interni, con una uscita di scena del presidente Assad, in maniera tale da tacitare al più presto la questione siriana. Anche la Francia ha richiamato l'ambasciatore siriano affinchè il suo stato si attenga al rispetto dei reciproci obblighi dettati dal diritto internazionale, mentre si attende ancora l'azione dell'Unione Europea, nella speranza che le questioni economiche non distolgano Bruxelles dal proprio ruolo diplomatico.

lunedì 14 novembre 2011

Politica e mercato: invertire la rotta

Con l'insediamento del nuovo governo greco ed il prossimo insediamento di quello nuovo italiano si sancisce una sorta di sospensione della supremazia della politica a favore dell'economia. E' vero che ora ciò vale per una parte ridotta, per adesso, dell'occidente, ma in futuro la prassi potrebbe allargarsi. Per Grecia ed Italia si è comunque scelto all'interno del proprio ordinamento una soluzione più veloce di quella scelta da altri grandi malati dell'area euro, Irlanda e Spagna, infatti hanno optato per la soluzione elettorale, che preserva la democrazia fino in fondo, ma non assicura quella velocità di aggiustamento dei mercati che le situazioni di Atene e Roma, stanno richiedendo. Beninteso non si tratta di colpi di stato, la transizione governativa è o sta avvenendo, nell'alveo delle regole scritte dalle rispettive leggi fondamentali, pur essendo caratterizzate da dispositivi normativi dettati da una urgenza pressante. Quello che interessa rilevare è che l'influenza del mercato si è spinta talmente avanti da potere condizionare gli assetti politici di una nazione, non più in maniera occulta, ma in modo aperto e chiaro. Questo è un riflesso, innanzitutto di oltre vent'anni di teorie liberiste, che hanno imperato sull'economia, sull'industria, sulla finanza fino a sopravvanzare anche sulla politica. Alla fine la politica è stata vittima di se stessa, nella misura in cui ha favorito l'espansione delle teorie liberiste; l'attività politica si è come ripiegata su se stessa lasciando campo libero ad una sorta di autoregolamentazione, in realtà guidata eccome, dettata dal mercato, che ha generato una dialettica costruttiva sempre più flebile, in favore di un dialogo nel ruolo deputato alla democrazia, il parlamento, sempre più volgare e distante dalle modalità consuete dell'esercizio della vita democratica. Una politica sempre più distante dai cittadini e dalle esigenze della società ha finito per non essere più utile neppure a se stessa ed è stata scavalcata per la propria inefficienza. E' come se lo stesso mercato richiamasse ai suoi doveri la politica, rinnegando esso stesso le teorie liberiste, che avrebbero dovuto favorirlo. E' presto per dire se questa tendenza dovesse prendere campo in maniera ulteriore, tutto dipenderà dai dati economici e finanziari che si svilupperanno, un'altra nazione indiziata ad andare in questa direzione potrebbe essere la Francia, se il suo sistema bancario dovesse andare incontro a pericolosi sviluppi, tuttavia è ormai un dato sicuro che anche i governi più saldamente in carica, stanno mettendo a fuoco strategie di aggiustamento progressivo per non essere travolti da leggi del mercato che stanno cercando di cannibalizzare i sistemi politici. La ricerca di maggiore equità e la lotta stessa alle diseguaglianze più estreme che si sono sviluppate, rappresentano la migliore base di partenza per un ritorno da protagonista della politica nell'agone sociale, sia di ogni singolo paese che a livello più globale, ma dovrà essere una politica rigenerata al suo interno e maggiormente sensibili a quei temi che consentano la creazione di dighe efficaci affinchè non si ripeta mai più la deriva di questi anni.

venerdì 11 novembre 2011

Il rilancio della UE passa per la perdita di sovranità degli stati

Il potere di indirizzo delle istituzioni europee, in realtà della Germania ed in misura minore della Francia, si sta concretizzando, andando ad influire sulle scelte degli uomini che andranno a governare i paesi con maggiori problemi. Se per certi versi pare una invasione del concetto di sovranità, questa visione deve essere, invece superata, alla luce dei nuovi assetti imposti dalla presenza di organizzazioni sovranazionali ed anche dalle soluzioni richieste dalle situazioni contingenti. In realtà le due questioni sono intimamente legate, in un quadro generale di comunità degli stati è normale che se esistono dei problemi gravi in una parte, che oltretutto possono riverberarsi nella totalità, debbano essere ammesse delle "invasioni" in quella che era comunemente definita sovranità nazionale. Gli elementi che concorrono a superare il vecchio concetto sono, nell'attualità del momento, sia di ordine politico che economico, ma in un futuro anche prossimo potrebbero diventare anche di ordine militare. Tale processo, peraltro, dovrebbe essere una logica conseguenza dell'evoluzione, in senso compiuto dell'attuazione dell'Unione Europea da soggetto sovranazionale in soggetto nazionale, secondo le concezioni più tradizionali del termine. Ma ciò sarebbe vero in una situazione ottimale, puramente teorica, un caso da laboratorio politico, non inficiato da tutte quelle variabili di singolarità presenti in ogni singolo stato e rappresentate da istanze localistiche ed interessi limitati ad argomenti ristretti. Certo le modalità di cambio di governo in Grecia e prossimamente in Italia, devia da quella che dovrebbe essere una modalità, che seppure non ancora codificata, dovrebbe incentrarsi su indicazione, certamente non vincolante, dell'autorità di Bruxelles. Purtroppo, proprio la scarsa autorità politica di Bruxelles non può procedere ed allora la responsabilità ricade sul paese capofila dell'Europa: la Germania ed in maniera minore sulla Francia. Esiste una sostanziale differenza circa la leadership dei due paesi nei confronti dell'Unione Europea, pur avendo di fatto creato un direttorio a due, Parigi non ha le stesse prerogative e le stesse esigenze di Berlino. Infatti per la Francia, nonostante le pose e gli atteggiamenti tipici della grandeur, si tratta, in sostanza, di salvare un sistema bancario fortemente esposto ad una grande quantità di titoli tossici, che in caso di crollo provocherebbe l'implosione finanziaria dello stato. Per la Germania è diverso, pur mossa anche da mere esigenze di cassa e di salvaguardia del proprio mercato, è l'unico stato con gli indici in ordine e possiede quindi i titoli per esercitare un ruolo di guida, fortemente supportato e condiviso dalla classe politica, anche se esistono, al contrario, dubbi rilevanti nell'opione pubblica. Tuttavia un aspetto importante della preminenza tedesca è proprio il convinto europeismo del governo in carica. L'analisi di questi aspetti porta diritto alla questione del restringimento della sovranità, di fatto, per alcuni stati, principio che se ora è valido per alcuni potrà essere esteso anche ad altri, pure per casistiche differenti. Nell'area di una comunità di stati che aspira ad una unione ben più stringente della attuale, pur con tutti i distinguo e le resistenze da considerare, occorre accettare, in assenza di norme codificate, l'iniziativa di chi ha più titolo, anche in funzione di salvaguardia, anche suo malgrado, del membro in difficoltà, pena la fuoriuscita dal sistema comune. E' un punto di partenza forzato e forzoso, ma che costituisce, pur nella negatività del momento attuale, l'aspetto più positivo possibile per dare finalmente slancio ad una unificazione politica dell'Europa più completa e reale.

giovedì 10 novembre 2011

Iran: cosa farà Israele?

Può Israele decidere di attaccare da solo l'Iran, perchè teme lo sviluppo definitivo dell'arma atomica di Teheran? La questione è di vitale importanza, cercare di capire cosa vorrà fare il governo israeliano è fondamentale per capire in quale direzione andrà l'equlibrio mondiale. Allo stato dell'arte, nonostante l'unanime condanna proveniente, almeno dall'occidente, solo Tel Aviv spinge per una soluzione militare, che preveda di colpire le installazioni atomiche in terra iraniana. Gli USA, pur avendo ricompreso come una possibile soluzione quella dell'intervento armato, ne hanno per il momento scartato l'attuazione per ovvi motivi di opportunità di politica sia estera che interna. Netanyahu, tenendo fede alla sua fama di duro spinge per l'intervento armato, tuttavia non si comprende se sta bluffando o se oserebbe veramente bombardare in modo unilaterale l'Iran. In ogni caso quello che cerca è di forzare la mano agli statunitensi, cui non approva la condotta giudicata sostanzialmente di basso profilo, nei confronti di Teheran. Infatti è impensabile, che, in caso di attacco da parte di Tel Aviv, anche non concordato con Washington, gli USA lascino poi al loro destino gli israeliani. Ma in questo caso l'intervento della forza armata a stelle e strisce sarebbe un evento obbligato che avrebbe conseguenze, probabilmente irreparabili, a livello di rapporti diplomatici. Ben diverso il caso di una soluzione armata concordata, anche ottenuta anche con comportamenti esasperanti e condannati, non in pubblico, dal governo USA. Per ora l'Iran non pare cedere alle provocazioni israeliane e mantiene la propria linea, anche se un episodio che partisse da Teheran, per quanto improbabile, farebbe la gioia di Netanyahu, che vorrebbe avere una occasione, anche minima, tale da giustificare una azione armata contro l'Iran. Pur comprendendo i timori di una testata nucleare puntata verso Gerusalemme, per decifrare quello che appare un comportamento folle da parte di Israele, tanto che neppure gli USA lo approvano, non vi è altra spiegazione che i servizi segreti di Tel Aviv abbiano notizie certe di un progresso iraniano molto vicino alla costruzione della bomba atomica senza, tuttavia, averne raggiunto il compimento. Se questo è vero allora si può capire l'urgenza di una azione militare da svolgersi in tempi brevissimi per distruggere e possibilmente azzerare i progressi iraniani in maniera definitiva. L'analisi dei benefici di una azione del genere, che pare comunque costituire un azzardo enorme, deve essere tale da superare gli eventuali costi, che anche senza avere elementi certi, dovrebbero comunque essere altissimi. Per Israele, quindi il problema nucleare iraniano deve essere definito, anche a discapito di interessi superiori, in esclusiva funzione delle proprie, seppur comprensibili, esigenze.

Perchè Cina e Russia non vogliono sanzionare l'Iran

Cina e Russia non la pensano come USA ed Israele sull'atomica iraniana. Dalla decisione, presa in sede di Consiglio di sicurezza dell'ONU, di aprire all'intervento armato in Libia mascherato da azione umanitaria, ottenuto con l'astensione di Pechino e Mosca, secondo i governi di questi paesi estorta in maniera ambigua dai paesi occidentali, l'atteggiamento diplomatico di Cina e Russia è diventato di chiusura, verso ogni iniziativa di politica internazionale occidentale sia reale che potenziale. Anche il rapporto AIEA è diventato così una occasione per dissentire con l'occidente, diventando, addirittura, secondo il Ministero degli Esteri russo, una fonte di tensione ed un fattore di destabilizzazione mondiale. In realtà nel confronto tra Iran e potenze occidentali sulla questione nucleare, irrompono sulla scena proprio Cina e Russia, nella probabile veste di alleati di Teheran; ma il presupposto diplomatico è il cavallo di Troia, dietro al quale si nascondono ragioni prettamente economiche. Per la Cina è la necessità di assicurarsi il petrolio iraniano, che è una componente essenziale del proprio fabbisogno energetico, per la Russia si tratta di portare avanti le ricche commesse stipulate con la Repubblica islamica proprio sul fronte della ricerca atomica. In questo quadro la tattica pensata da Obama per contrastare il programma atomico iraniano, che prevedeva una maggiore pressione sul paese persiano tramite l'inasprimento delle sanzioni ed il coinvolgimento proprio di Cina e Russia, pare destinato a naufragare ancora prima della partenza, come, peraltro, indicato chiaramente dal rifiuto delle due potenze a fare entrare nel novero delle sanzioni i settori energetici riguardanti gas e petrolio. Per gli USA, per evitare un eventuale scontro armato, non ci sarebbe altra soluzione che quella di imporre sanzioni in maniera quasi unilaterale, nel senso che tali sanzioni avrebbero senz'altro l'appoggio delle altre potenze occidentali, ma senza l'effetto ricercato di un fronte più esteso, che ne garantirebbe anche l'effettiva efficacia. Se la questione viene poi considerata dal punto di vista diplomatico risulta impossibile non rilevare una sempre maggiore spaccatura tra occidente con in testa gli USA, da una parte, e Cina e Russia dall'altra, che stanno praticando una palese politica di aggregazione di quelli che sono gli stati più in disaccordo con Washington. Se per la Cina lo scopo è di sottrarre sempre più terreno all'economia americana, per la Russia la questione pare quella di una ricerca, a tratti spasmodica, di recuperare quell'importanza internazionale che è andata scemando dalla fine dell'impero sovietico. Ma entrambi i casi indicano che i due paesi stanno conducendo una tattica pericolosa ed irresponsabile per la stabilità mondiale, che rischia di avere effetti incontrollabili per gli stessi conduttori del gioco.

mercoledì 9 novembre 2011

Se Iran e Pakistan si avvicinano

Dentro le pieghe del rapporto AIEA ci sarebbe la constatazione della collaborazione di tecnici pachistani con il governo iraniano per la costruzione della atomica della repubblica islamica. Se ciò fosse vero sarebbe una ulteriore incrinatura nel rapporto fiduciario, peraltro già pesantemente compromesso, tra USA e Pakistan. Avere fornito conoscenza diretta sull'argomento nucleare a Teheran, pone Islamabad in una posizione ancora più ambigua sulla propria lealtà ed anche convinzione nei confronti della lotta al terrorismo islamico. Il fatto, d'altronde, non rappresenta un fulmine a ciel sereno, ma corona una lunga serie di sospetti fondati su comportamenti ambigui da parte delle strutture governative pachistane. La protezione fornita alla rete terroristica Haqqani, la presenza sul suolo pachistano di Osama Bin Laden, i comportamenti dubbi dei servizi segreti, il progressivo avvicinamento alla Cina come alleato di primo piano sui temi economici, avevano collocato il Pakistan in una posizione di alleato non troppo affidabile per gli obiettivi americani, sopratutto nell'ottica della guerra afghana e quindi sul tema della lotta al terrorismo. Anche i recenti dissidi tra Kabul ed Islamabad, provocati dall'accusa afghana, condivisa dagli USA, di fornire protezione materiale alle bande talebane nelle montagne pakistane al di la della frontiera dell'Afghanistan, hanno contribuito ad un ulteriore deterioramento dei rapporti, nonostante tutti i tentativi americani di un recupero su posizioni più favorevoli per gli USA, con trattative condotte anche in prima persona dal Segretario di stato Hillary Clinton. Ma la collaborazione con l'Iran, su di una questione ritenuta di fondamentale importanza per gli USA, come il programma di armamento atomico di Teheran, batte tutti gli screzi precedenti e mette il Pachistan in una posizione con una forte connotazione negativa, che appare sempre più una vera e propria scelta di campo. Se questa è la strada intrapresa da Islamabad, per gli USA si tratterà di rivedere i propri piani nella guerra afghana, in particolare, e nella lotta al terrorismo islamico in generale. Senza più essere l'alleato ritenuto di importanza strategica fondamentale, il Pachistan può diventare apertamente nemico degli Stati Uniti, dai quali riceve ancora sostanziosi finanziamenti? La questione non è irrilevante, anzi, se il Pakistan sceglie, nonostante lo sfoggio continuo di atteggiamenti più che ambigui, di passare dalla parte di campo opposta agli USA può incorrere in una serie di rappresaglie che possono arrivare fino al vero e proprio scontro armato. Le truppe USA sono già al confine, impegnate nella guerra afghana ed hanno più volte sconfinato in territorio pachistano proprio per mancanza di fiducia nel governo di Islamabad. L'avere fornito aiuto all'Iran, proprio sulla questione dell'arma atomica non può che apparire come una aperta provocazione verso Washington, che rappresenta il culmine del deterioramento del rapporto tra i due stati. Difficile che lo strappo venga ricucito, ma ciò apre la strada a nuovi scenari e nuovi equilibri nella lotta la terrorismo, che potrebbero determinare l'entrata in campo di nuovi soggetti finora rimasti ai margini del campo. Se per l'Iran non si tratta di un vero e proprio ingresso, perchè ha sempre agito dietro le linee fornendo aiuti materiali e finanziari al terrorismo islamico, più difficile capire l'atteggiamento della Cina, che entrando nel mercato pachistano, non può limitarsi alla solita dottrina che contraddistingue la sua politica degli esteri e che è, sostanzialmente quella di non ingerirsi negli affari interni di un paese. Per ora, grazie alla forte repressione interna il fenomeno fondamentalista islamico è rimasto circoscritto nei confini cinesi, ma se Islamabad dovesse schierarsi apertamente con Teheran, nessuno sarebbe al sicuro dal contagio a macchia d'olio che potrebbe svilupparsi. Una alleanza tra Iran e Pakistan potrebbe significare anche la ulteriore radicalizzazione della visione islamica in senso estremista, uno sviluppo ancora più pericoloso sotto tutti i punti di vista per i rapporti con e tra gli stati islamici, anche quelli più moderati.

martedì 8 novembre 2011

Iran: quello che il rapporto AIEA può provocare

Intorno all'atteso rapporto dell'Agenzia internazionale per l'energia atomica (AIEA), ruotano questioni vitali per la stabilità mondiale. Se, come sembra verrà affermato, l'Iran sarà considerato in grado di costruire la bomba atomica, cosa per altro smentita da Teheran, si andranno a creare situazioni particolarmente pericolose, specialmente ricordando l'esperienza immediatamente antecedente alla dichiarazione della guerra all'Iraq, proprio per il motivo della possibile presenza, poi smentita, di armamenti nucleari. Ad aggravare il clima di tensione la notizia della presenza di tecnici nordcoreani e pachistani, che avrebbero collaborato con l'Iran, fornendo la propria conoscenza, per la costruzione dell'ordigno nucleare. Tuttavia il timore è che il rapporto si basi su conclusioni deduttive e non accertate, risultanti anche dal comportamento non chiaro del governo iraniano verso i tecnici dell'AIEA. Ma per Israele ciò sarebbe sufficiente per alimentare lo stato di crescente preoccupazione presente nel paese e che potrebbe essere la causa di una risposta armata preventiva contro Teheran. Per l'AIEA si tratta di una grossa responsabilità giacchè quello che verrà scritto sul suo rapporto potrebbe causare un conflitto ben più pericoloso di quello iraqeno, ma anche presentando una relazione veritiera, che esprima e tenga conto di tutte le difficoltà di una analisi completa e certa, può rappresentare il pericolo di una strumentalizzazione di quanto esposto, sia da una parte che dall'altra. Malgrado le pressioni di Israele, che ben difficilmente vorrà attaccare obiettivi iraniani senza l'approvazione americana, la tendenza del governo di Obama è quella di puntare ancora sulla via diplomatica, lasciando la soluzione armata come ultima opzione percorribile. Una possibile strada è quella di esercitare ancora maggiore pressione tramite l'utilizzo di sanzioni internazionali mediante il coinvolgimento ulteriore di nuovi stati. Il pensiero dell'amministrazione di Washington è che le sanzioni fin qui praticate siano state troppo blande e non abbiano sortito gli effetti per cui sono state dichiarate, quindi non è stato lo strumento ad essere inefficace ma le modalità di applicazione che non hanno saputo creare una difficoltà economica oggettiva al regime iraniano. A differenza della lettura israeliana del rapporto AIEA, secondo gli USA l'interpretazione corretta deve essere in grado di coinvolgere Russia e Cina nell'adesione alle sanzioni contro l'Iran, per sanzionare la Repubblica islamica ad una condanna più estesa, proprio da parte di quei paesi, come appunto Mosca e Pechino, che hanno maggiori legami economici con Teheran. La tattica di Obama è chiara, anche se vista in ottica dell'imminente campagna elettorale delle presidenziali americane. Il Presidente uscente vuole continuare ad essere accreditato come il soggetto che ha cambiato la tattica fondamentale della politica estera USA, prediligendo il dialogo alle prove di forza, tuttavia per gran parte dell'elettorato questo atteggiamento potrebbe essere visto come segnale di debolezza nei confronti di un nemico storico degli Stati Uniti.

La Merkel ed i cambiamenti del movimento conservatore

La cancelliera tedesca Merkel prevede un decennio per ristabilire la situazione economica mondiale. Un decennio che sarà ricco di sacrifici per riequilibrare la politica finanziaria degli stati, dove, da chi più, da chi meno, è stata abusata la leva del debito a fronte di minori entrate. La politica finanziaria delle nazioni incentrata sull'accumulo del debito pubblico è arrivata alla fine, soltanto il contenimento della spesa pubblica si può evitare il dissesto finanziario. Sembra una ovvietà ma non la è. Mettere dei freni certi e sicuri, fissati con modalità condivise a livello sovrastatale è ormai l'unica strada per combattere la crisi, anche a costo di andare contro quelle ovvie tendenze, espresse dai movimenti nazionalistici e localistici, insieme in una inedita alleanza, che vedono questi provvedimenti come una invasione della sovranità nazionale. Ciò è tanto più valido per l'Europa, che si è dotata di una una unione, appunto sovranazionale, ma non solo. Nell'insieme globale di economia e finanza certe regole devono essere recepite da tutti gli attori presenti sulla scena, meglio ancora se controllati ed assistiti da istituzioni terze. Ecco allora che il ruolo di una istituzione di governo e garanzia dell'economia mondiale si rende sempre più necessario, per evitare crolli pericolosi che vadano a riverberarsi su stati e soggetti più sani. Il momento impone una cura drastica ma nel futuro sarà sempre più indispensabile prevenire e su questa modalità non pochi saranno gli scontri alimentati da quei soggetti tesi ad arricchirsi con la speculazione e l'emissione di titoli tossici nel sistema. Per fare questo occorre agire sulle banche, che sono gli attori in prima linea nel processo e sono spesso state protagonisti negativi, tuttavia il loro ruolo è irrinunciabile, secondo la Merkel, per l'economia, giacchè senza credito si crea disoccupazione e alterazione degli equilibri sociali. Quello che va rivisto è il meccanismo perverso dal quale gli istituti bancari traggono il loro guadagno, mentre ne va esaltato il ruolo sociale, che non deve esaurirsi in vistose sponsorizzazioni di eventi, ma deve essere interpretato in maniera etica in modo da assicurare il giusto guadagno all'istituto contemporaneamente al favorire lo sviluppo armonico dell'economia, sia a livello locale che globale. La cancelliera Merkel, in sostanza partendo da posizioni di destra, seppure una destra moderna e tutt'altro che populista e classista, sfonda a sinistra con temi cari a partiti e movimenti che dovrebbe avversare. Uno per tutti l'introduzione del salario minimo garantito. Questo significa una presa d'atto, ulteriore nel mondo della politica, del fallimento delle teorie liberiste, che contrastavano qualunque forma di controllo sul mercato, portandoci al tragico punto in cui siamo. Ma significa anche l'elaborazione di nuovi concetti all'interno del movimento conservatore capace di fare maggiore tendenza nel mondo: quello tedesco. La necessità di una condivisione dei costi della crisi in maniera proporzionale va in quel senso e sottintende ad una revisione quasi completa dei caposaldi economici dei partiti conservatori che sapranno avere l'adeguata apertura mondiale. Ciò non può che essere letto in maniera positiva per la totalità del confronto politico perchè allarga di gran lunga, rispetto ad ora, il terrreno di incontro sul quale sviluppare e prendere le decisioni che condizioneranno il futuro. D'altronde ad aprire questa strada è stato un altro tedesco illustre: Benedetto XVI, che ha condannato apertamente i guasti del liberismo economico.

lunedì 7 novembre 2011

Türkei diplomatische Drehscheibe zwischen Afghanistan und Pakistan

Es gibt zwei sich ergänzende Bedürfnisse, die Herzen der afghanischen Friedensprozess in Richtung Istanbul zu bewegen.
Auf der einen Seite, als der wachsende Bedarf der Vereinigten Staaten, um aus einer Situation befreien reif für so viele Männer und Mittel einsetzen, sowohl für die eigentliche Wirklichkeit Aghani Themen, sowohl aus Gründen der nationalen amerikanischen Politik. Auf der anderen Seite steht die zunehmende Sichtbarkeit und Bedeutung der Forschung, vor allem regional, sondern auch auf höherer Ebene, der Türkei, die sich selbst als der Prinz in Person zu etablieren sucht. Für die USA, von denen die Türkei ist ein treuer Verbündeter und mit wem die Beziehungen ausgezeichnet sind, ist die Lösung eine Art Delegation nach Istanbul, um für eine Verhandlungslösung in dem schwierigen Prozess des Wiederaufbaus in Afghanistan zu suchen. Der Eingang zu dem diplomatischen Parkett afhana die Frage nach der Türkei, in offizieller Weise, nach einer U-Bahn-Aktivität, die Istanbul nicht für einige Zeit verschmäht, aber jetzt hat fast die Bedeutung von einer Stiftung aus Washington. Der türkische Außenminister Ahmet Davutoglu, in der Tat ausdrücklich zu definieren “Process of Istanbul”, der Gipfel, die durch so viele wie 29 Ländern Anfang November besucht war und versucht hat, Maßnahmen, die das Vertrauen in die Region wiederherstellen können identifizieren. Die USA werden über die Rolle von Istanbul als eines der führenden Länder in der Region, eine Position, dass die türkische Regierung ist es gelungen, eine kluge Politik zu schnitzen, und auch in gewissem Sinne, gezwungen durch die Unfähigkeit der Europäischen Union beitreten zu verlassen. Der Blick nach Osten war nicht eine Wahl, die schließlich als erfolgreich erwiesen für Istanbul, dank mehr gemeinsam mit ihren Nachbarn. Türkei und hinter den Kulissen natürlich die Vereinigten Staaten konzentriert Zusammenarbeit mit Kabul in Fragen der Sicherheit und Zusammenarbeit in der Wirtschaft in einer Art und Weise genau die gleichen, die nicht werfen sollten Zweifel an der Verdacht der Einmischung in die inneren Angelegenheiten Afghanistans. Das Problem für die Verwirklichung dieser Ziele ist die Variable des Terrorismus und die Beziehungen zwischen Kabul und Islamabad, hinter dem sich die Schatten von Amerika, die nach Pakistan unterstellt Webstühle, nicht nur nicht genug tun an dieser Front, sondern auch einige Nachsicht mit haben radikalen Gruppen und die Taliban. Allerdings hat die türkische Präsenz im Herzen der Verhandlungen bereits positive Veränderungen mit sich gebracht, in der Tat die Schaffung eines trilateralen Ausschuss direkt aus Afghanistan, Pakistan und der Türkei auf das Attentat gegen Burhanuddin Rabbani, der Präsident des Hohen Rates für den Frieden in Afghanistan, getötet in Untersuchung einem Selbstmordanschlag in Kabul am 20. September letzten Jahres, kann bedeuten, wesentliche Fortschritte auf der Ebene des Dialogs zwischen Kabul und Islamabad. Die türkische Politik kann daher vorteilhaft sein, die Stabilität der Hand, den Betrieb ohne Entfaltung Krieg, von dem er hätte auch die militärischen Fähigkeiten, sondern vorrangig für humanitäre Hilfe und sucht dadurch zu Krediten des Landes islamischen Dialog zu gewinnen.

La Turchia fulcro diplomatico tra Afghanistan e Pakistan

Ci sono due necessità complementari che spostano il fulcro del processo di pace afghano verso Istanbul.
Da una parte la necessità sempre crescente degli Stati Uniti di sganciarsi da una situazione ritenuta matura per impiegare una tale quantità di uomini e mezzi, sia per le questioni intrinseche alla realtà aghana, sia per ragioni di politica interna americana. Dall'altra vi è la sempre maggiore ricerca di visibilità e di importanza, sopratutto regionale, ma anche a livello maggiore, della Turchia, che cerca di imporsi come soggetto principe nell'area. Per gli USA, di cui la Turchia è un fedele alleato e con cui i rapporti sono ottimi, la soluzione costituisce una sorta di delega ad Istanbul per la ricerca di una soluzione negoziale nel difficile processo della ricostruzione afghana. L'entrata nell'agone diplomatico della questione afhana della Turchia, in maniera ufficiale, segue una attività sotterranea che Istanbul non ha disdegnato da diverso tempo, ma che ora assume quasi la rilevanza di una investitura da parte di Washington. Il ministro degli esteri turco Ahmet Davutoglu, infatti ha definito espressamente "Processo di Istanbul", il vertice a cui hanno partecipato ben 29 paesi all'inizio di Novembre e che ha cercato di individuare provvedimenti in grado di ridare fiducia alla regione. Gli USA si affidano al ruolo di Istanbul quale paese leader della regione, posizione che il governo turco ha saputo ritagliarsi con una politica avveduta ed anche, in un certo senso, obbligata dall'impossibilità di entrare nell'Unione Europea. Guardare ad oriente è stata una non scelta che, alla fine, si è rivelata vincente per Istanbul, anche grazie alle maggiori affinità con i popoli vicini. La Turchia e dietro le quinte senz'altro gli Stati Uniti incentrano la collaborazione con Kabul sulla cooperazione nei temi della sicurezza e dell'economia in una maniera assolutamente paritaria, che non deve generare dubbi su eventuali sospetti di ingerenza negli affari interni dell'Afghanistan. Il problema per raggiungere tali obiettivi è la variabile del terrorismo ed i rapporti tra Kabul ed Islamabad, dietro cui si staglia l'ombra americana, che imputa al Pakistan, non soltanto di non fare abbastanza su questo fronte, ma addirittura di avere delle connivenze con i gruppi radicali e le milizie talebane. Tuttavia la presenza turca nel cuore delle trattative ha già portato variazioni positive, infatti la creazione di una commissione trilaterale composta proprio da Afghanistan, Pakistan e Turchia per investigare sull'attentato contro Burhanuddin Rabbani, presidente dell’alto Consiglio per la pace afghano, ucciso in un attacco suicida il 20 settembre scorso a Kabul, può significare un sostanziale avanzamento sul piano del dialogo tra Kabul ed Islamabad. La politica turca può, quindi, portare benefici evidenti alla stabilità dell'area, operando senza dispiegamento bellico, di cui pure avrebbe anche le capacità militari, ma privilegiando gli aiuti umanitari e cercando in tal modo ad accreditarsi come il paese islamico del dialogo.

sabato 5 novembre 2011

Il ruolo stabilizzatore della Cina

La stretta a cui è sottoposta l'economia occidentale preoccupa il gigante asiatico; infatti la Cina, proprio durante i lavori in corso del G20, decide di rivalutare la propria moneta. Questa mossa è una vera e propria offerta di collaborazione diplomatica per alleviare le tensioni commerciali con l'occidente, ed in special modo degli USA, che hanno più volte accusato Pechino di mantenere in maniera artificiale il valore basso della valuta cinese per incrementare le esportazioni delle merci del dragone asiatico. La rivalutazione della moneta cinese ha come obiettivo di prevenire le critiche dell'occidente, anche se spesso questa manovra è usata durante le manifestazioni internazionali per deviare la luce dei riflettori sulla Cina, questa volta a farla da padrone pare il timore di Pechino, di un blocco della esportazione delle merci verso i mercati più ricchi. Infatti, stante l'attuale situazione di crisi, la possibilità di una instaurazione di dazi e tariffe doganali più elevate preoccupa e non poco il governo cinese. Queste ragioni vengono sommate al fatto dei problemi dell'eurozona dove l'investimento cinese ammonta a circa 550 miliardi di dollari USA, di cui almeno 75 miliardi investiti nei titoli italiani, particolarmente sotto osservazione. Una contrazione dei consumi nell'eurozona è vissuta come un fatto tragico per le esportazioni cinesi, che ne sono ben consapevoli ed infatti si sono detti disponibili ad ulteriori investimenti fino a 100 miliardi di dollari nel fondo salva-stati elaborato in sede UE. Anche se la notizia del referendum greco ha portato qualche perplessità sulle intenzioni cinesi, la strada individuata sembra l'unica percorribile per il mantenimento delle quote di mercato su cui Pechino fonda la propria esistenza, in materia economica globale. Anche perchè il pericolo che più spaventa Pechino è la deflazione, che può venire combattuta soltanto con l'apertura concreta di nuove opportunità per il rilancio sia del lavoro e di conseguenza dei consumi, situazioni che, perchè si verifichino, necessitano, appunto della rivalutazione dello yuan. Ma nel breve periodo il pericolo si chiama invece inflazione, che potrebbe essere innescata proprio a causa dell'aumento del valore della divisa cinese e che potrebbe provocare un aumento dei prezzi e l'impoverimento dei lavoratori occidentali, incapaci così di accedere all'acquisto delle merci cinesi. E' una situazione in divenire che ha bisogno di aggiustamenti continui e ritocchi anche minimi per non alterare troppo gli equilibri globali del sistema. Alla fine quello che emerge è il ruolo sempre maggiore della Cina come stabilizzatore del mercato mondiale, anche se è una stabilizzazione che tende, giocoforza al proprio vantaggio, maggioritario ma non esclusivo, dato il legame venutosi a creare con il mercato globalizzato, dove i destini comuni delle nazioni sono legati tra di loro a filo doppio. Se la Cina, forte della propria ingente liquidità, decide di giocare il proprio ruolo di leader mondiale nella maniera giusta, possono aprirsi scenari favorevoli per tutti per uscire dalla crisi, anche se è scontato che a rinunciare maggiormente ai privilegi fin qui acquisiti dovranno essere quei paesi, sopratutto occidentali, che hanno vissuto al di sopra delle loro potenzialità, cedendo quote a vantaggio di quei paesi emergenti forti di fondamentali in crescita in grado di garantire maggiore stabilità al sistema nel suo complesso.

venerdì 4 novembre 2011

Cosa potrebbe nascondere il ritiro delle truppe USA?

L'accelerata del ritiro delle truppe americane dall'Afghanistan e dall'Iraq, con situazioni tutt'altro che risolte, sono state lette più volte in chiave dell'appuntamento elettorale USA in programma nel 2012. Tuttavia l'accelerata sulla questione iraniana, potrebbe consentire una lettura differente del movimento delle truppe a stelle e strisce. Se l'obiettivo iraniano dovesse essere veramente percorso, la necessità bellico operativa diventerebbe ingente, non basterebbe soltanto una flotta di droni, ma la possibile evoluzione di un conflitto localizzato nel medio oriente prevederebbe scenari diversi: dall'impiego di armi convenzionali ad armi tattiche dispiegate lungo le frontiere. Uno scenario possibile è un attacco che parta con lanci missilistici da Israele congiunto a bombardamenti aerei sugli obiettivi ritenuti sensibili presenti in Iran, rappresentati dalle aree che potrebbero racchiudere i siti dello sviluppo nucleare. Superata questa prima fase è impensabile che Teheran non risponda all'attacco, ad una immediata risposta con bombardamento missilistico con obiettivo Israele potrebbe seguire l'impiego di forze terrestri con il passaggio della frontiera iraqena. In quest'ottica l'abbandono dell'Iraq da parte USA rappresenterebbe un suicidio militare, a meno che non sia una tattica per attirare l'esercito di Teheran nel territorio iraqeno; tale tattica necessiterebbe di una grande quantità di effettivi che potrebbero fare base in Arabia Saudita, paese da cui fare partire l'eventuale controffensiva. Lo scopo sarebbe abbattere il regime iraniano, ciò permetterebbe di eliminare il principale supporto ai grandi network del terrore basati sull'integralismo islamico ed appoggiati principalmente proprio da Teheran, secondo numerosi analisti occidentali. Ma l'esito non sarebbe così scontato e potrebbe degenerare o in una estenuante guerra di posizione o peggio potrebbe aprirsi anche un tragico scenario nucleare su scala regionale. E' una prospettiva che sfiora previsioni apocalittiche e che deve servire da monito ad azioni avventate, il pericolo di un conflitto su tale scala rischia di alterare tutti gli equilibri mondiali, andando a sovvertire ben più di quello che la crisi economica attuale sta provocando. L'opzione militare è la soluzione che deve essere assolutamente evitata, ma i protagonisti intorno al tavolo non sono dei più affidabili, sia il premier israeliano, che quello iraniano, non paiono propensi ad una qualche soluzione concordata, calati come sono nella parte dell'uomo forte; ed anche Obama e Cameron, non danno sufficienti garanzie presi come sono dalla necessità di deviare l'attenzione dai problemi interni, con la focalizzazione su un argomento di politica estera tale da distrarre l'attenzione della propria opinione pubblica. Non resta che sperare in una qualche azione dell'ONU, che agisca in modo di prevenire quello che potrebbe essere un conflitto capace di paralizzare l'intero pianeta.

giovedì 3 novembre 2011

L'Eritrea accusata di manovrare Al-Shabab

Con le operazioni militari in corso in Somalia contro gli estremisti islamici di Al-Shabab anche la situazione diplomatica della regione subisce dei contraccolpi. Il governo Eritreo è stato accusato di essere dietro al movimento integralista grazie all'elargizione di finanziamenti e forniture militari che consentono azioni militari sia in Somalia, che contro il Kenya. L'accusa ha un fronte molto vasto e comprende gran parte della comunità internzionale. Le accuse sarebbero supportate dal fatto di avere intercettato una spedizione di armi probabilmente partita da Asmara ed individuata a Baidoa, città somala a circa 250 chilometri da Mogadiscio.
Malgrado la smentita ufficiale del governo eritreo, che afferma di perseguire la pace e la stabilità nel Corno d'Africa, esistono precedenti che legano l'Eritrea ad Al-Shabab fin dal 2008 quando vi erano, all'interno dei confini eritrei, campi di addestramento militare, dove i componenti di Al-Shabab erano addestrati all'uso degli esplosivi ed alla realizzazione di attentati suicidi. Anche un rapporto dell'ONU, redatto dal gruppo di monitoraggio su Somalia ed Eritrea, individuava Asmara come finanziatore delle milizie islamiche attraverso la propria ambasciata in Kenya. Le manovre dell'esercito di Nairobi in terra somala, ufficialmente in rappresaglia ai rapimenti fatti alla frontiera da Al-Shabab, hanno ancora di più intensificato le accuse, da parte dell'opinone pubblica internazionale, contro il paese eritreo, ritenuto, alla fine, una delle fonti proncipali di destabilizzazione della regione. Da parte sua il Kenya, su questo aspetto, ha preferito mantenere un basso profilo, preferendo non impegnare l'azione diplomatica in questo momento dove sono protagoniste le armi. Una delle ragioni preminenti dell'atteggiamento eritreo si deve probabilmente individuare negli annosi contrasti con l'Etiopia; riuscire a manovrare Al-Shabab permette di attivare una sorta di Golden share sulla stabilità del Corno d'Africa , la questione è che si è travalicato i confini andando a toccare un paese come il Kenya dove esistono investimenti francesi e che gode dell'alleanza americana, inntenzionata a combattere ogni possibile alleato di Al Qaeda. Anche l'emergenza umanitaria sfruttata da Al-Shabab per dirigere le migrazioni bibliche verso il Kenya ed impedire gli aiuti umanitari, può essere vista ora sotto una diversa angolazione, se si pensa all'influenza di Asmara sulle milizie islamiche. Se ciò dovesse essere appurato l'Eritrea rischia di entrare nel mirino della lotta al terrorismo, si da parte dell'ONU, che della NATO; in quel caso l'apertura di un nuovo fronte non sarebbe una ipotesi tanto remota.

Israel, with U.S. and UK consider the possibility of an attack on Iran

The possibility of a war against Iran is mounting considerably. Israel would gain the support of U.S. and UK for a possible military action, which may be realized in a possible missile attack against Iranian missile installations. The next date in November of eight is considered a milestone in the definition of the crisis: in fact on that date the IAEA will announce its report on the progress of Iran's nuclear program and any content considered negative might raise the likelihood of a conflict. Israel officially considers the presence of nuclear weapons in the military arsenal of Tehran, is a direct danger to Tel Aviv and in general for the western world. On this basis, Netanyahu is committed to the belief of Israeli institutions to have a free hand in case the decision to employ military force prevails, however, public opinion is divided on the issue and recent surveys, only 41% of the population fully supports the Decision war. This underlines the awareness of the Israeli attack on the objective difficulties of the Islamic Republic, because of the knowledge of the military force available to Iran, fully able to provide appropriate responses on the military in case of attack. It should, however, dwell on the reasons for this escalation, if the concerns about Iran's nuclear weapons are real or if there are other reasons to justify such a going concern, even from the USA. For the last time the Israeli government were marked by setbacks and at international level than on the inner. The issue of Palestinian recognition of the UN, with the undoubted diplomatic success of Abu Mazen came to the growing success of the phenomenon of "indignados" Israelis have obfuscated in a decisive manner the approval of the Prime Minister in Tel Aviv, which increasingly sees its image blurred. The method of raising the voltage to the level of alert is a constant of political Netanyahu, who depends on the liking of the extreme parts of the country trying to gain credit as a strong man of the reasons Israel. Focusing on Iran means, at this time, shift the attention from the Palestinians, such as the construction of settlements, which many have resulted in convictions on the world stage. Push on the vulnerabilities of the West Iranian armament means broadening the issue to a wider pool of interest, enabling it to regain sympathies to the Israeli cause. In the same way the U.S. and the UK looking for the traditional foreign policy objective way to hide the difficulties internally. The feeling, however, is that this time is exaggerating the issue, subject to the hazard dell'ordigno nuclear power in the hands of the Islamic state, these threats could give Iran an excuse not to launch military action in fine style, but to choose for minor maneuvers, but still potentially dangerous for peace in the region. Iran is a dangerous opponent, and certainly a danger to peace, but that is no excuse to speak openly of military attack, getting the result to exasperate the minds of the Arab population, especially of what Tehran vedein an aggregator of its instances. To combat the Iranian regime is more convenient to insist on sanctions and diplomatic isolation, trying to destabilize the dictatorship from within. Iran to use for any purpose that ultimately are more propaganda than anything else is irresponsible and incompetent to be especially: one more proof of the non-suitability of the assignment that Netanyahu is playing.

Israele, con USA e Regno Unito considerano la possibilità di un attacco all'Iran

La possibilità di un conflitto contro l'Iran sta montando considerevolmente. Israele avrebbe ottenuto l'appoggio di USA e Regno Unito per una eventuale azione militare, che potrebbe concretizzarsi in un possibile attacco missilistico contro le installazioni dei missili iraniani. La data dell'otto novembre prossimo è ritenuta una tappa fondamentale per la definizione della crisi: infatti in quella data l'AIEA renderà noto il proprio rapporto sull'avanzamento del programma nucleare iraniano ed eventuali contenuti ritenuti negativi potrebbero alzare la probabilità di un conflitto. Israele, ufficialmente ritiene che la presenza di armi atomiche nell'arsenale militare di Teheran, costituisca un pericolo diretto per Tel Aviv ed in generale per il mondo occidentale. Su queste basi Netanyahu è impegnato nel convincimento delle istituzioni israeliane per avere mano libera nel caso la decisione di impiegare la forza militare prevalga, tuttavia l'opinione pubblica è divisa sulla questione e da recenti sondaggi, soltanto il 41% della popolazione appoggerebbe in pieno la decisione bellica. Ciò sottolinea la presa di coscienza degli israeliani sulle difficoltà oggettive di un attacco alla Repubblica Islamica, proprio per la conoscenza della forza militare di cui dispone l'Iran, pienamente in grado di dare risposte adeguate sul piano militare in caso di attacco. Occorre però soffermarsi sulle motivazioni di questa escalation, se i timori per l'arsenale atomico iraniano sono concreti o se vi sono altre ragioni che vadano a giustificare una tale attenzione, anche da parte USA. Per il governo israeliano gli ultimi tempi sono stati caratterizzati da sconfitte sia sul piano internazionale che su quello interno. La questione del riconoscimento palestinese all'ONU, con l'indubbio successo diplomatico di Abu Mazen giunto al crescente successo del fenomeno degli "indignados" israeliani, hanno offuscato in maniera decisiva il gradimento del premier di Tel Aviv, che vede la propria immagine sempre più offuscata. Il metodo di alzare la tensione fino al livello di guardia è una costante dell'azione politica di Netanyahu, che punta tutto sul gradimento delle parti più estreme del paese cercando di accreditarsi come uomo forte delle ragioni israeliane. Focalizzare l'attenzione sull'Iran significa, in questo momento, spostare l'attenzione dalle questioni palestinesi, come la costruzione delle colonie, che tante condanne sul piano mondiale hanno provocato. Spingere sulla pericolosità per l'occidente dell'armamento iraniano vuole dire allargare la questione ad un bacino di interesse più ampio, che possa consentire di riguadagnare simpatie alla causa israeliana. Nello stesso modo USA e Regno Unito cercano la tradizionale strada dell'obiettivo di politica estera per nascondere le difficoltà sul piano interno. La sensazione, però è che questa volta si esageri con la questione, fatta salva la pericolosità dell'ordigno nucleare in mano allo stato islamico, queste minacce potrebbero dare una scusa all'Iran, non per avviare azioni militari in grande stile, ma per optare per manovre diversive di minore entità, ma sempre potenzialmente pericolose per la pace nella regione. L'Iran costituisce un avversario pericoloso e senz'altro un pericolo per la pace, ma questo non giustifica parlare apertamente di attacco militare, ottenendo il risultato di esasperare gli animi della popolazione araba, sopratutto di quella che vedein Teheran un aggregatore delle proprie istanze. Per combattere il regime iraniano è più conveniente insistere sulle sanzioni e sull'isolamento diplomatico, cercando di destabilizzare da dentro la dittatura. Usare l'Iran per scopi che alla fine sono più che altro propagandistici è da irresponsabili e sopratutto da incompetenti: una prova in più della mancata adeguatezza di Netanyahu all'incarico che sta ricoprendo.

martedì 1 novembre 2011

The danger of the spread of the referendum-type greek

The rules require respect for democratic decisions taken on the popular level, of which the referendum is the best expression. This type of consultation is not constantly used, as it would render the meaning of elections and then the very meaning of representation, itself a cornerstone of democratic life, but exceptionally in special cases considered to be of greater importance. Now the fact of entrusting power to the people express their thoughts on regulations, the result of international agreements, which go directly to regulate the criteria of quality of life that can not be manifestly fair. But the problem is that a referendum is never proactive, but repeal the decision and the consequences, whatever it is, results are included in the same urn. The preamble serves to focus the effects of the possible spread of the referendums on the matter of economic agreements following the reduction of the debt of the states. The considerations must be made in both directions, since there might be another proposal for the German people, will issue an opinion on the contribution to aid other states. If something is self-determination, however limited, of the population, which ultimately can only say yes or no, on the other hand there is the failure of representative political institutions and the very way of practicing democracy, characterized by low participation and for the possibility of limited access, and also for the lack of civic sense in this, unfortunately. However, while looking with sympathy to the instrument of the referendum, and especially in cases like this, the phenomenon that is likely to trigger adverse effects that can bring more positive, of course the ultimate would be the presence of a political class able to charge the real culprits, including which own a substantial part of it, the financial collapse we are experiencing, but if this were true he would not at this point. And though one end of the common European set back the clock 40 years, creating the countries most vulnerable in front of the phenomena of globalization, immigration and international terrorism, to name a few. The example of Iceland is fascinating but it is important for both economic and political dimensions of the Nordic country could be more convincing if the greek, although it should be limited to being a good test for both internal and external effects. But if the Greeks want, in a sense, be doomed to a fate, because the EU requires sacrifices, but it would still be out a lot worse, what they do not take into account is the domino effect that should lead to. However, this situation can be reconstructed from the European Union not only utilitarian but really on a cooperative based on shared values ​​actually, even if renegotiation in order to promote effectively the population instead of the great financiers and banking groups. To prevent the spread of the epidemic referendum, albeit from right conditions that would have harmful effects, must charge the actual economic cost of the crisis on those subjects, as well as caused it, they have also drawn large gain, only that mitigating the social costs the majority of the population can be induced most of the company the right to accept sacrifices in the right measure.

Il pericolo della diffusione referendaria di tipo greco

Le regole democratiche impongono il rispetto delle decisioni prese a livello popolare, di cui il referendum è una delle massime espressioni. Tale tipo di consultazione si usa non costantemente, poichè svuoterebbe il senso delle elezioni politiche e quindi del significato stesso della rappresentanza, cardine esso stesso della vita democratica, ma eccezionalmente in particolari casi ritenuti di rilevanza maggiore. Ora il fatto di affidare al popolo di potere esprimere il proprio pensiero su normative, frutto di accordi internazionali, che vanno a regolamentare direttamente i criteri della qualità della vita non può che essere manifestamente giusto. Il problema, però è che un referendum non è mai propositivo, ma abrogativo e la conseguenze della decisione, qualunque essa sia, sono ricomprese nello stesso esito dell'urna. Il preambolo serve a mettere a fuoco gli effetti della possibile diffusione dello strumento referendario sulla materia degli accordi economici a seguito della riduzione del debito degli stati. Le considerazioni vanno fatte nei due sensi, giacchè si potrebbe verificare anche un referendum per il popolo tedesco, chiamato ad esprimersi sulla contribuzione agli aiuti per gli altri stati. Se un aspetto è l'autodeterminazione, però limitata, della popolazione, che alla fine può solo dire si o no, dall'altra parte vi è il fallimento degli organismi politici di rappresentanza ed il modo stesso di praticare la democrazia, caratterizzata da scarsa partecipazione, sia per la possibilità limitata di accedervi, sia anche per il purtroppo scarso senso civico presente. Tuttavia, pur guardando con simpatia allo strumento del referendum e sopratutto in casi come questo, il fenomeno che si rischia di innescare può portare più effetti negativi che positivi, certo il massimo sarebbe la presenza di una classe politica capace di addebitare ai veri colpevoli, tra cui una parte consistente proprio di essa, lo sfacelo finanziario che stiamo vivendo, ma se questo fosse vero non si sarebbe neppure a questo punto. E però una fine dell'area comune europea riporterebbe indietro l'orologio di 40 anni, creando dei paesi più deboli di fronte ai fenomeni della globalizzazione, dell'immigrazione e del terrorismo internazionale, solo per citarne alcuni. L'esempio dell'Islanda è affascinante ma non è rilevante sia per dimensioni economiche che politiche del paese nordico, più probante potrebbe essere il caso greco, che pur essendo limitato andrebbe ad essere un buon banco di prova sia per le ricadute interne che esterne. Ma se i greci vogliono, in un certo senso, condannarsi ad un destino ineluttabile, perchè la UE impone sacrifici, ma esserne fuori sarebbe ancora molto peggio, quello di cui non tengono conto è l'effetto domino che andrebbero a provocare. Tuttavia da questa situazione si può ricostruire l'Unione Europea non più su base soltanto utilitaristica ma veramente cooperativa, basandosi su valori effettivamente condivisi, ancorchè ricontrattati in modo da favorire effettivamente la popolazione anzichè i grandi finanzieri ed i gruppi bancari. Per evitare il propagarsi dell'epidemia referendaria, che pur partendo da giusti presupposti avrebbe effetti nefasti, occorre effettivamente caricare il costo economico della crisi su quei soggetti che, oltre ad averla provocata, ne hanno tratto anche ampio guadagno, soltanto cioè mitigando i costi sociali sulla maggioranza della popolazione si può indurre la maggior parte della società ad accettare i giusti sacrifici nella giusta misura.

Referendum in Greece on debt agreements with Brussels, Athens

Iceland has made school: Greece also hold a referendum on measures taken in accordance with Brussels to reduce the public debt of Athens. On the one hand, the increasing pressure of the square, which has become characterized by genuine social revolt, the other the practical question of not being able to endure such draconian measures in the economic field, have forced the government to take note greek, which the internal structures, is needed a consultation exercise involving the whole country express acceptance of the constraints imposed by the consequences of debt. George Papandreou, greek prime minister, has said explicitly that if the Greeks do not want an agreement with the EU, not the spirit of sharing, the agreement will not be adopted. Make a prediction about a referendum of this kind is too easy, the cost of the measures agreed with Brussels falls on the majority of the people greek, it does not feel responsible for this state of affairs, then the rejection of the agreement is almost taken for granted. The first analysis you need to do is because you have got to this point, after grueling negotiations that have influenced their progress with the ups and downs of the stock markets? If it is a fact that almost all Greek public opinion was and is opposed to the indiscriminate reduction of their income, it is unclear how the government operates in a short time, such a turnaround. There must be international and financial reasons, however, difficult to understand, which led to this choice that is poorly defined pilatesca. It is unclear why, then do not opt ​​for a default checked immediately, which would have spared the wave of street protests and the swing of the bag across the continent. Furthermore, this decision puts at risk almost certain, the house of cards on which you based now the euro zone. Put a safeguard debt greek also meant protecting the debt of Italy and France, the country with the banks most exposed to the greek debt. Indeed, Sarkozy was the politician who had the worst reaction, the French banking system is likely to implode, throwing the country into more complete financial chaos, If this hypothesis were to occur for France reflects the very worst of the current economic values, so as to determine a saving the appropriate volume of the Italian one, albeit for different reasons.
This scenario envisages the practical failure, why not recoverable, the euro and to follow the political union of Europe. What does this mean in practice? For France, the crisis almost total credit, with a paralysis of the production system, which can no longer sustain any growth agenda, going so 'also have an impact on an already large public debt. For Italy, there being no material resources at European level and beyond to save, the failure of the state, with the creation of a real financial tsunami that will hit the U.S. with its waves, in the first place, and immediately after emerging economies, with China more illustrious victim. It 'a doomsday scenario that is looming, if it were to occur would be to subvert the order which has hitherto governed the world stay again, who will suffer, clear, setting new rules and also new ways of life, or perhaps old, why not over charged.

Referendum in Grecia sugli accordi con Bruxelles sul debito di Atene

L'Islanda ha fatto scuola: anche la Grecia indirà un referendum sulle misure prese in accordo con Bruxelles per la riduzione di parte del debito pubblico di Atene. Da una parte la pressione sempre maggiore della piazza, che ha assunto connotati da vera e propria rivolta sociale, dall'altra il concreto dubbio di non riuscire a sopportare misure così draconiane in campo economico, hanno obbligato il governo greco a prendere atto, che per gli assetti interni, si rende necessaria una consultazione che coinvolga l'intero paese sull'accettazione esplicita delle ristrettezze imposte dalle conseguenze della situazione debitoria. George Papandreu, il primo ministro greco, ha detto esplicitamente che se i greci non vogliono l'accordo con la UE, non condividendone lo spirito, l'accordo non sarà adottato. Fare un pronostico su di un referendum di questo genere è fin troppo facile, il costo delle misure concordate con Bruxelles ricade sulla maggioranza del popolo greco, che non si sente responsabile di questo stato di cose, quindi il rigetto dell'accordo è pressochè scontato. La prima analisi che occorre fare è perchè si è arrivati a questo punto, dopo trattative estenuanti che hanno condizionato con il loro avanzamento altalenante le borse mondiali? Se è assodato che la quasi totalità dell'opinione pubblica greca era ed è contraria alla contrazione indiscriminata del proprio reddito, non si comprende come il governo operi, in poco tempo, un tale voltafaccia. Devono essere presenti ragioni di ordine internazionale e finanziario, peraltro difficili da comprendere, che hanno determinato questa scelta che definire pilatesca è poco. Non si comprende come mai, allora non optare per un default controllato fin da subito, che avrebbe risparmiato l'ondata di manifestazioni di piazza e l'altalena della borsa di tutto il continente. Inoltre tale decisione mette in pericolo praticamente certo, il castello di carte su cui ormai si basa la zone euro. Mettere una salvaguardia al debito greco voleva dire proteggere anche il debito dell'Italia e la Francia, il paese con le banche più esposte verso il debito greco. Infatti Sarkozy è stato il politico che ha avuto la reazione peggiore, il sistema bancario francese rischia di implodere gettando il paese nel più completo caos finanziario, Se questa ipotesi dovesse verificarsi per la Francia si concretizzerebbero valori economici molto peggiori degli attuali, tanto da determinare un salvataggio del volume necessario di quello italiano, seppure per motivi differenti.
Questo scenario prefigura il fallimento concreto, perchè non recuperabile, dell'euro ed a seguire dell'unione politica del continente europeo. Cosa implica ciò in concreto? Per la Francia la crisi pressochè totale del credito, con una paralisi del sistema produttivo, che non potrà più sostenere alcun programma di crescita, andando cos' anche ad incidere su di un debito pubblico già consistente. Per l'Italia, non essendoci le risorse materiali a livello europeo ed oltre per il salvataggio, il fallimento dello stato, con la creazione di un vero e proprio tsunami finanziario che andrà a colpire con le sue onde gli USA, in primis, e le economie emergenti subito dopo, con la Cina ulteriore vittima illustre. E' uno scenario apocalittico quello che si prefigura, che se dovesse verificarsi andrebbe a sovvertire l'ordine che ha fin qui governato l'econima mondiale, che subirà, giocoforza, l'impostazione di nuove regole ed anche modi di vita nuovi, o forse vecchi, perchè non più praticati.