Politica Internazionale

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mercoledì 29 febbraio 2012

Comincia ad aumentare il partito della crescita contro la ricetta tedesca

Dopo la sistemazione, avvenuta con lacrime e sangue, che probabilmente non sarà definitiva della Grecia, l'asse Berlino-Parigi, incomincia a scricchiolare dall'interno e, sopratutto, trova finalmente un fronte compatto di ben dodici paesi, che chiedono una sterzata della politica economico finanziaria europea, troppo orientata all'austerità dei bilanci a discapito della crescita, giudicata indispensabile per ridare fiato all'economia e non pregiudicare la stabilità sociale. In vista delle elezioni presidenziali francesi il candidato socialista Hollande ha messo al centro del proprio programma elettorale una nuova negoziazione degli accordi sottoscritti da Sarkozy con la Merkel. Questo fatto, che peraltro era già noto tanto da fare scendere la cancelliera tedesca dichiaratamente a fianco del presidente francese uscente in campagna elettorale, rischia di intaccare la politica economica elaborata da Berlino per l'Europa. Si è detto e rilevato più volte che tale politica tende a favorire più che la parte produttiva, dove vi sono diversi antagonismi, la parte finanziaria tedesca, con in prima fila le banche della Germania ed in generale il mondo finanziario, che non vuole correre il pericolo di effettuare investimenti in paesi dell'area euro con gestioni definite allegre. Pur partendo da ragioni condivisibili nate dall'esigenza di scongiurare situazioni come quella greca ed in generale emergenze debitorie troppo elevate, capaci di creare un effetto a catena nell'area dell'euro, quelle elaborate sono politiche troppo stringenti, che non permettono una diffusione del credito necessaria a risollevare, come dovuto, economie ormai asfittiche. Uno dei maggiori timori dei governi che hanno chiesto una maggiore propensione alla crescita è la pericolosità di minare la stabilità sociale, le violenti reazioni greche ai tagli sociali imposti dalla Germania rappresentano un incubo da evitare assolutamente. Ma quello che sta venendo fuori è una insofferenza generalizzata alla condotta tedesca, anche da parte di governi, come quello italiano, che non sono propriamente espressione delle parti sociali più deboli. L'impressione è che Berlino abbia esagerato ed abbia avuto gioco facile perchè gli altri paesi o sono stati presi alla sprovvista o non sono riusciti ad elaborare una strategia comune immediata alle pretese tedesche. Ora è difficile prevedere se questa presa di posizione possa creare una spaccatura, che non è nell'interesse di nessuno, nella zona euro, tuttavia è chiaro che la leadership tedesca è chiaramente messa in discussione. La troppa austerità sta diventando ad essere vista come l'anticamera di una maggiore recessione, ma questo non era negli intenti della Merkel, che faceva partire la sua analisi dalla situazione tedesca. L'impressione, suffragata da dati concreti, è che la ricetta per risanare l'Europa sia stata elaborata come funzionale all'economia della Germania, che poteva fare la voce grossa sia per le condizioni economiche migliori, sia per l'assenza di un contradittorio, che ora inizia a formarsi. Con queste condizioni appare palese che, pur restando negli steccati imposti dalla necessità della riduzione del debito, gli accordi e la strategia vanno rivisti, per permettere una crescita più armonica ai paesi dell'euro. Il rischio concreto di diventare colonie tedesche non deve essere corso. Del resto i casi greco ed italiano, seppure con soluzioni differenti, devono fare squillare un campanello d'allarme. Se per Atene la perdita della propria sovranità a favore di entità straniere è ormai un dato di fatto, per l'Italia si è trattato di sospendere la democrazia del popolo, affidando ad un governo non eletto, ma formalmente sostenuto dalla maggioranza parlamentare, la gestione della cosa pubblica. Se dietro a questo governo vi siano le banche o i tanto nominati poteri forti non si saprà mai, certo è che l'interruzione democratica non formale ma reale è un dato di fatto. Se a questa situazione di cose dovesse, come sembra probabile accadere, un periodo di recessione ancora più grave le conseguenze sociali potrebbero essere non prevedibili. Ma questo vale anche per i paesi dove il governo in carica è regolarmente e direttamente eletto; del resto la necessità della crescita economica è stata ribadita dal Presidente Obama ed anche dalla Cina, che si è più volte detta disponibile a stimolare, attraverso propri investimenti, l'aumento del PIL dei singoli paesi dell'euro. Quindi è necessaria l'elaborazione di un piano alternativo che punti alle infrastrutture, volano per sviluppi successivi, alla formazione ed alla individuazione di strumenti capaci di riportare nel vecchio continente la produzione industriale materiale, la cui presenza è andata assottigliandosi troppo, impoverendo il tessuto produttivo delle nazioni a favore di una terziarizzazione con poco contenuto e sopratutto incapace di sostenere la necessaria crescita mediante la presenza dei dovuti posti di lavoro essenziali per assicurare uno sviluppo certo e duraturo.

L'India alle prese con l'inflazione

Anche l'India deve rallentare la crescita economica per scongiurare il pericolo dell'inflazione. Era da tre anni che il dato della crescita del paese non vedeva comparire un indice così basso: troppo alti i tassi di interesse giunti ad una maggiore crescita dei prezzi delle materie prime, ciò ha determinato una contrazione della produzione industriale, legata anche alla dimiuzione degli investimenti. Come grande esportatore il paese paga la crisi mondiale che ha determinato una domanda complessiva più bassa. Scomponendo i dati trimestralmente si ha un decremento continuo, che segnala un rallentamento non atteso. Certo di parla sempre di crescite del PIL considerevoli, ben oltre il 6%, ma che per un'economia che necessita di valori più alti, rappresentano un pericoloso rallentamento in rapporto agli obiettivi previsti. Quello che il governo indiano non riesce a fare quadrare è la lotta all'inflazione con la necessità di più alti livelli di crescita. Probabilmnte il paese è cresciuto velocemente, senza che in questa fase il governo centrale prendesse le dovute contromisure al fenomeno inflattivo, che si è presentato puntualmente, come accade in ogni curva espansiva. Dal marzo 2010 gli interventi della Banca centrale indiana sono stati ben tredici, con un numero identico del rialzo dei tassi di interesse, che pur calmierando il fenomeno inflattivo, hanno anche avuto l'effetto di frenare la crescita, per la conseguente riduzione delgi investimenti. Dopo la performance del periodo 2010-11 che aveva visto il PIL crescere fino all'8,5%, l'economia indiana si era prefissata il traguardo del 9% per il periodo 2011-12; ma tale obiettivo si è rivelato irraggiungibile ed anche la stima al ribasso di una crescita attestata intorno al 7%, rischia di essere troppo ottimistica. L'arretratezza della India, quasi un continente per il numero di abitanti, che vede la gran parte della sua popolazione in condizioni di estrema miseria, necessita di prestazioni elevate nella crescita del PIL, proprio per combattere la povertà troppo diffusa e proprio un incremento del PIL del 10% avrebbe consentito di innalzare ad un gran numero di persone il fabbisogno giornaliero in denaro per consentire un sostanziale abbattimento della soglia di povertà. Pur parlando di importi anche inferiori ad un euro, questo incremento potrebbe consentire al paese di fare uscire intere fasce di popolazione da condizioni di povertà endemica, che oltre a costituire una ragione umanitaria costituiscono anche un freno allo sviluppo interno dei consumi, non certo da sottovalutare in una nazione con 1,2 miliardi di abitanti.

martedì 28 febbraio 2012

L'affermazione dei partiti islamici nella sponda sud del Mediterraneo

Viste dal mondo occidentale le rivoluzioni nord africane, che hanno sbaragliato dittature da lungo al potere, non potevano che riscuotere la simpatia di gran parte della società. Soltanto poche voci erano fuori dal coro, da un lato chi temeva contraccolpi pericolosi, proprio per il mondo occidentale conseguenti alla caduta di regimi che facevano comodo sia al mondo economico che alla stabilità geopolitica, dall'altro chi prefigurava la possibile salita al potere di tutto un movimento, peraltro variegato, che fosse rispondente agli ideali musulmani nella sponda meridionale del Mediterraneo. Pur con queste riserve l'opinione pubblica e sopratutto i governi occidentali hanno finito per sostenere in un modo o nell'altro questi moti che sembravano partiti dalla popolazione, in modo spontaneo e diretto. Quello che tranquillizzava gli occidentali era che i movimenti islamici, sopratutto quelli più radicali, parevano essere, nella maggiore delle ipotesi dei comprimari al pari di formazioni che parevano ricalcare l'assetto delle formazioni politiche dell'occidente. Movimenti non confessionali che rivendicavano diritti civili di democrazia e di pari opportunità: cioè la versione araba di quegli embrioni che avevano poi dato vita ai partiti e su cui si basa tuttora la costruzione delle democrazie occidentali. In definitiva quello che si attendeva era una copia dei nostri sistemi politici trasferita pari pari su paesi di diversa cultura e di diversa storia. Il primo errore è stato quello di sostituire la tecnologia con lo scorrere del tempo, molti hanno infatti pensato che la velocità della trasmissione delle idee potesse surrogare la grande quantità di tempo necessaria a costruire le democrazie occidentali, peraltro tuttora imperfette, che si sono evolute nel tempo anche grazie a enormi sterzate politiche ed idee sedimentate nel tempo nella mente e nel cuore delle persone. I manifestanti però costituivano soltanto un'avanguardia di società arretrate, che hanno visto l'evolversi della situazione da lontano, legati ai loro standard culturali, dove spesso la religione costituiva e costituisce un rifugio sicuro. Questa spaccatura sociale ha determinato fondamentalmente il successo delle formazioni islamiche avvenuto, è bene sottolinearlo, in elezioni totalmente democratiche. La sorpresa in occidente per l'affermazione di questi partiti anche in quei paesi arabi tradizionalmente tolleranti, come la Tunisia, rivela una miopia dell'analisi occidentale che ha determinato una previsione fallace. Quello che non è stato considerato a dovere è stata l'azione capillare dei movimenti religiosi che costituivano l'unica alternativa al potere dominante all'interno di società spesso chiuse in se stesse. Di fronte a questa struttura sociale, i giovani che usavano facebook e twitter, magari anche occidentalizzati per esperienze migratorie, non erano che la minoranza. Ora il rischio concreto per queste avanguardie, che hanno lottato credendo di portare i propri paesi verso un'affermazione delle democrazie come quelle dell'Ovest, è di vedersi governati dalla Sharia e questo rischio vale anche per i paesi della sponda opposta del Mediterraneo: trovarsi sulla porta di casa nazioni vicine governate da sistemi teocratici, fatto che non può essere giudicato positivo nell'ambito dello sviluppo delle relazioni tra gli stati. Inoltre vi è un'implicazione di natura geopolitica da non trascurare: l'affermazione di partiti così simili in tutta la fascia nord africana, perchè anche in Libia, se riuscirà a superare i conflitti tribali interni, sarà così, rischia di innescare un fenomeno di panarabismo che pareva sopito dal potere esercitato dalla dittature. Per l'Europa potrebbe avvenire il fatto di avere di fronte, sia in senso figurato che materiale, un soggetto particolarmente coeso, capace di essere un alternativa nel Mediterraneo e non più un possibile alleato. Non era questo che gli stati, anche impegnati in prima persona come nel caso libico, si aspettavano. Questo perchè si parte dal presupposto che situazioni simili siano più facili da gestire; ma è stato appunto questo l'errore di valutazione delle nazioni occidentali, non tenere conto di situazione differenti che, inevitabilmente si sarebbero presentate come alternative a quelle garantite dalle dittature, perchè imposte da regimi dispotici, che fungevano da cuscinetto tra le esigenze occidentali e le tendenze dei popoli. La reazione delle popolazioni finalmente affrancate dai dispotismi è stata di andare verso l'unica istituzione che è sempre rimasta presente a fare da riparo ai modi di governo: la religione. Non era poi difficile da predire, con tali basi di partenza, ma il ruolo delle tecnologie, che c'è stato, ed stato molto rilevante, ci ha reso ciechi sulle implicazioni future, del momento cioè, nel quale tutto il corpo sociale è stato chiamato ad esprimersi con le normali regole della democrazia. La speranza ora è che si affermi un modello tipo quello turco, dove un il partito al potere, pur essendo confessionale, è di matrice moderata, ma la Turchia ha altre basi sociali sia di istruzione che di sviluppo, e rispetto ai paesi della fascia del Mediterraneo del sud, può rappresentare un punto di arrivo ma, per ora non di partenza. Con questa situazione è bene che le istituzioni occidentali, che si occupano di politica internazionale, sviluppino un modo nuovo di rapportarsi con questi nuovi governi teso al rispetto ed alla comprensione comune, cercando nuovi terreni di dialogo, che possano permettere forme, non solo di convivenza, ma di sviluppo conveniente ad entrambe le parti.

lunedì 27 febbraio 2012

Putin verso l'elezione

Mentre si avvicina la data del 4 Marzo, giorno delle elezioni presidenziali in Russia, nel paese cresce la protesta contro il candidato favorito Putin. L'opposizione mette in scena proteste spettacolari, come la creazione di una catena umana di sedici chilometri, che ha circondato il centro di Mosca, dove sono state impegnate 11.000 persone, secondo la polizia, 30.000 secondo gli organizzatori. Gran parte dell'opinione pubblica non ha ancora accetato il verdetto delle elezioni parlamentari del dicembre scorso, dove vinse con oltre il 50% dei suffragi il partito del governo Russia Unita. Su queste tornata elettorale ha gravato il forte sospetto di brogli che hanno alterato in maniera significativa l'esito del voto. Proprio per questa ragione è salita la protesta in Russia, specialmente concentrata nelle maggiori città. Se su questo argomento vi è stata l'aggregazione convinta delle diverse forze che compongono l'opposizione, tale aggregazione non è però andata oltre le sole proteste, non riuscendo, per le profonde differenze ideologiche, a sintetizzare un piano comune alternativo a Putin. Il malessere presente nel paese si è quindi disperso in mille rivoli, senza che si arrivasse ad una intesa capace di portare unità nell'opposizione per mettere in difficoltà il candidato favorito. I sondaggi, dicono infatti, che Putin dovrebbe essere eletto al primo turno con una percentuale variabile di consensi tra il 50 ed il 66%. Si tratterebbe comunque di una grossa affermazione, che non dovrebbe richiedere neppure la necessità di effettuare dei brogli. Putin è in vantaggio proprio grazie alle estreme divisioni di una opposizione troppo frammentata, non certo per i suoi programmi elettorali che si rifanno ad un populismo nazionalista, che nasconde una pochezza di argomenti clamorosa. Ma bisogna riconoscere che la retorica militarista e l'unità del paese, intesa come espressione di potenza, quasi un revanscismo sovietico, fanno ancora molta presa sulla popolazione. L'obiettivo, veramente lontano da essere realizzato per gli attuali sviluppi geopolitici ed i mutati assetti di forza mondiali, di ridare un ruolo centrale e da protagonista al paese, anche attraverso la rinnovata potenza militare piace inspiegabilmente ad un paese afflitto da condizioni di miseria in forte aumento in tutte le fasce sociali. Eppure nel programma di Putin è scritto nero su bianco che oltre 506 miliardi di euro saranno destinati al riarmo, per rimodernare entro il 2020 le forze militari russe. Quale impiego per questo arsenale prevede il candidato Presidente? La generica definizione di nemico straniero può andare bene per ogni occasione per riaffermare la Russia come super potenza, ma più che verso l'esterno Putin potrebbe usare i militari per reprimere le istanze indipendentiste che si sono più volte presentate nelle repubbliche alla periferia dell'impero. E' anche possibile che Putin intenda percorrere la strada della creazione di una nuova sfera di influenza, per ricalcare la giurisdizione dell'ex Unione Sovietica, in prima battuta favorendo in tutti i modi i movimenti di quei paesi che si sono staccati dalla Federazione Russa e che, al contrario, ne propugnano il ritorno, con metodi pacifici, ma tenendo sempre pronto per ogni evenienza il rinnovato arsenale. Nonostante il ridimensionamento avvenuto sul piano internazionale la Russia può ancora ricoprire un ruolo da protagonista, anche in forza del diritto di veto presso il Consiglio di sicurezza dell'ONU, ma è obiettivamente difficile che riesca a riguadagnare l'importanza ricoperta negli anni della guerra fredda come vorrebbe Putin. Tuttavia la necessità di ritagliarsi un ruolo differente da quello attuale sul piano diplomatico, potrebbe portare Putin ad azioni imprevedibili nei nuovi scenari che si stanno presentando nell'immediato futuro, come insegna l'atteggiamento sulla questione siriana e sopratutto nel caso di conflitto tra Israele ed Iran.

Cosa c'è dietro alla vicenda dei Corano bruciati

L'alto livello di tensione per il personale della NATO, sia civile che militare, attualmente presente in Afghanistan, che sarebbe stato provocato dall'incendio di numerosi libri Corano da parte di militari americani merita un approfondimento per le conseguenze che stanno maturando, sia a Kabul, che a Washington. L'uccisione di due consiglieri NATO distaccati al Ministero dell'Interno afghano è soltanto il tragico culmine di una situazione già lungamente logorata tra la società afghana ed il sistema di occupazione in appoggio a Karzai. Malgrado il cambiamento di rotta imposto da Obama, che al fianco dell'azione militare poneva anche una attiva partecipazione alla ricostruzione del paese, mediante la costruzione di scuole, ospedali ed infrastrutture e l'affiancamento di esperti americani alla dirigenza del paese, non si è riuscito a sviluppare un coinvolgimento maggiore nell'indirizzo posto dalla NATO, verso il quale doveva dirigersi il paese asiatico. Non sono bastati i robusti finanziamenti per innalzare la reciproca fiducia e la diffidenza, anche delle parti sociali contrarie ai movimenti estremisti, non è mai stata superata del tutto. Probabilmente una gran parte di questo aggravamento è dipesa dalla notizia del ritiro del grosso delle truppe, a favore di un impiego maggiormente razionalizzato del personale NATO, con una maggiore presenza di specialisti nella lotta al terrorismo, dislocati nelle zone strategiche, specialmente in quelle localizzate al confine con il Pakistan. Con questa mossa Obama cercava di raggiungere due obiettivi in un colpo solo: sul fronte interno, condizionato dalle imminenti elezioni presidenziali USA, ciò permette di presentare una riduzione della presenza delle truppe USA in Afghanistan con il duplice beneficio del ritorno a casa dei soldati americani e di un notevole risparmio economico, mentre sul fronte internazionale, permette di alleggerire la presenza, molte volte percepita come di occupazione, del paese afghano. Le argomentazioni sarebbero valide, ma soltanto la prima ha effettivamente ricadute positive, mentre la seconda non ha tenuto chiaramente conto, se non in minima parte, delle richieste pervenute dal governo e dalla società afghana, almeno di quella parte desiderosa di una stabilità ancora lontana da raggiungere. Non deve essere stato difficile, sia per gli oppositori di Karzai, che per gli estremisti, manovrare questo scontento, facile da congiungere anche alle diffidenze generali di larghi strati sociali. L'avventatezza dei soldati americani che hanno dato alle fiamme i Corani è stata il detonatore di una situazione già di per se stessa non facile. Sempre che di incidente si sia trattato. Alcuni analisti hanno ipotizzato un incidente causato ad arte per mettere in difficoltà Obama sul piano interno, in un momento in cui il Partito Repubblicano è in palese difficoltà con l'avversario proprio sulla politica estera, da sempre punto forte della politica conservatrice. Obama sta arrivando alla competizione elettorale come forse mai un candidato democratico è giunto alla vigilia del voto, molto forte proprio sulla politica estera: l'uccisione di Bin Laden, il ridimensionamento notevole di Al Qaeda, la gestione della questione iraniana ed il ruolo, seppure mantenuto in secondo piano nelle rivoluzioni nord africane e nella guerra libica, ha riportato gli USA ad un ruolo di protagonista sul teatro internazionale. Con queste premesse il problema afghano sembra arrivare al momento giusto per incrinare proprio quell'elemento di forza che si stava delineando per la campagna elettorale imminente. Questo perchè la situazione del paese asiatico potrebbe degenerare a tal punto da rivedere i piani del ritiro delle truppe e ciò non sarebbe proprio una vittoria per il Presidente uscente.

venerdì 24 febbraio 2012

USA ed Israele ammettono la possibilità di un attacco all'Iran

La questione di un possibile attacco all'Iran resta l'argomento più discusso tra Israele ed USA. Nonostante i rappresentanti dei due paesi continuino a specificare che la risoluzione diplomatica del caso sia quella preferibile, ora hanno dichiarato di avere allo studio anche altre possibilità per scoraggiare Teheran a perseguire la sua politica di dotarsi dell'arma nucleare. L'ammissione viene dall'ambasciatore di Tel Aviv a Washington, Dan Shapiro, e serve a confermare soltanto quello che già circolava da tempo. Per la verità Israele non ha mai fatto mistero della propria intenzione di regolare militarmente la questione, facendo sfoggio anche di temerarietà nei confronti di una possibile rappresaglia iraniana. Ma la sede di queste ammissioni, un paese straniero, gli Stati Uniti, che, anche se è il maggiore alleato di Israele, ha sempre fatto di tutto per frenare l'irruenza israeliana, significa che l'opzione bellica è ormai considerata una evenienza molto probabile. Tuttavia potrebbero esserci altri risvolti in quella che sembra una minaccia concreta all'Iran. Innazitutto potrebbe trattarsi di una opera di dissuasione collaterale alle sanzioni, per indurre che anche gli USA fanno sul serio sull'impiego delle armi come fattore deterrente alla costruzione della bomba atomica, ma nel contempo potrebbe essere anche una sorta di segnale di vicinanza ad Israele con lo scopo di dichiarare formalmente l'appoggio dell'opzione militare, in modo da non lasciare isolata Tel Aviv nelle minacce, che però serve anche a tranquillizzare lo stato israeliano, guadagnando tempo, nella speranza che le sanzioni abbiano un effetto positivo. La pressione sulla Repubblica islamica è stata rilevata anche dall'ambasciatore israeliano, notazione che può essere letta in maniera positiva in rapporto ad un possibile attacco, ma che è, forse, anche un omaggio diplomatico dovuto ai padroni di casa. Tuttavia l'atmosfera di grande sintonia tra i due paesi e le dichiarazioni ufficiali dovrebbero cancellare i dubbi circa un attacco autonomo delle sole forze israeliane non concordato con Washington, fatto molto temuto dagli analisti sia politici che militari per le gravi ripercussioni che avrebbe potuto comportare. Il tutto, comunque, non cancella le paure di un sempre possibile intervento e delle sue conseguenze, ed anzi leggendo tra le righe la volontà israeliana di attaccare sembra rafforzata dall'implicita ammissione USA.

In Cina sempre di più i problemi del capitalismo

Nonostante Pechino si fregi ancora della dicitura di paese comunista, l'economia ed i problemi sociali ad essa connessi stanno sempre più prendendo le caratteristiche dei paesi capitalisti. Nonostante continui la più totale assenza dell'assicurazione dei diritti più elementari ai lavoratori, la disgregazione sociale provocata da un mercato interno senza regole inizia a presentare i primi conti di una industrializzazione troppo veloce e senza regolamentazione, provocando effetti negativi che i burocrati di Pechino hanno fatto finora finta di non vedere. E' dalla cima della piramide sociale che inizia ad incrinarsi il rapporto privilegiato con le istituzioni, in Cina si stima la presenza di oltre un milione di persone con redditi milionari ed iniziano a contarsi anche i miliardari: sono il fulcro dell'economia cinese, la classe dirigente economica del paese, ebbene proprio tra questi privilegiati sarebbe in atto una emorragia dal paese verso il Nord America e l'Europa, dove sono assicurati standard di vita qualitativi infinitamente migliori che nella madre patria. Uno dei fattori più rilevanti è l'aspetto dell'inquinamento che afflige il paese cinese e che, probabilmente, vede proprio tra i responsabili le stesse persone che cercano, in altre nazioni, migliori standard ambientali. Un'altro aspetto ricercato dai ricchi cinesi in fuga è il maggiore livello che l'istruzione può assicurare ai propri figli presso gli istituti scolastici ed universitari esteri. Ma oltre gli aspetti che riguardano in senso più stretto la qualità della vita vi è anche l'aspetto del mantenimento della sicurezza finanziaria volta alla protezione del capitale accumulato. In quest'ottica gli USA hanno elaborato una strategia chiamata immigrazione di investimento, che prevede 10.000 visti d'ingresso annui a chi è in grado di portare capitali in grado di creare almeno 10 posti di lavoro; in questo senso la statistica parla chiaro le domande cinesi sono oltre il settanta per cento. Questi segnali, se legati alla situazione interna del debito cinese, rivelano per Pechino l'insorgenza di nuove problematiche legate alla ricchezza del paese, ma completamente disgiunte dalla struttura rigida che ancora caratterizza l'organizzazione della macchina statale. Siamo di fronte, cioè, all'inizio delle prime crepe concrete nella granitica società cinese. Non che la presenza delle manifestazioni di piazza da parte del dissenso non segnalassero i motivi di malessere, ma per l'appunto provenivano dalla massa al di fuori del circuito delle elite del paese. Questi segnali silenziosi e meno eclatanti sono, invece, in un certo senso maggiormente significativi, perchè provengono dalla parte sociale fondamentalmente in accordo con il partito, giacchè è impensabile raggiungere tali livelli di ricchezza senza il beneplacito dell'unico soggetto politico ammesso in Cina. Ma i segnali di una richiesta di cambiamento che provengono dal mercato, seppure rigidamente imbrigliato nelle ferree logiche cinesi, non finiscono qui; oltre le implicazioni sociali vi sono anche quelle più strettamente legate con il mero funzionamento dell'economia. La necessità, oramai pressante, di rilanciare il mercato interno, compresso da una bassa politica salariale e da ingenti quote di debito, impone alla Cina la decisione, difficilmente revocabile, di ridurre la partecipazione dello stato nelle aziende, per recuperare maggiori poteri decisionali in linea con le richieste del mercato e sganciate da logiche politiche centraliste. Sembra una banalità per una qualunque potenza economica mondiale ma non per la Cina, infatti, se ciò si concretizzerà, sarà una rivoluzione, con implicazioni e sviluppi talmente nuovi, che potrebbero alterare i rapporti sociali consolidati. Ma a prescindere dalle riflessioni sulle variazioni della società, questi cambiamenti appaiono necessari per prevenire una crisi economica, ormai pronosticata da tempo per Pechino. Il problema più urgente si chiama debito locale, cioè qule debito contratto dalle amministrazioni locali ed impiegato sopratutto per la costruzione delle infrastrutture, ma tale debito è connesso all'accesso di tali amministrazioni a strumenti finanziari pericolosi ed in grado di innescare fenomeni letali come accaduto in occidente con le tante bolle, poi scoppiate con conseguenze terribili. Pechino teme questi effetti nocivi del capitalismo, che sono diventati vere e proprie patologie del sistema economico globale, ed avverte che lo scollamento con l'economia reale ha ripercussioni sullo sviluppo non omogeneo del paese. In particolare le differenze sempre più accentuate tra città e campagne preoccupano la capitale, che teme un effetto domino della società a causa delle grandi differenze ed ineguaglianze. Non per niente gli investimenti in sicurezza interna del regime cinese sono aumentati in modo esponenziale nell'ultimo anno. Ma ora potrebbero non bastare più se si interrompesse, come sembra stia accedendo, il rapporto fiduciario tra politica e nuovi ricchi, con quest'ultimi impegnati ad attuare la forma di protesta più efficace: la fuga dal paese con i propri capitali.

giovedì 23 febbraio 2012

La Giordania attiva una difesa missilistica che servirà anche Israele

Il timore di possibili attacchi contro Israele provenienti dalla Siria attiva la difesa antimissile della Giordania. In realtà l'azione del regno hashemita è volta a proteggere anche la propria frontiera con Damasco, lungo la quale sono già schierate le forze armate giordane. Il deterioramento della situazione siriana, giunto alla sempre più difficile situazione tra Tel Aviv e Teheran, impone agli USA misure sempre più cautelative per essere pronti ad ogni evenienza. Lo scenario che potrebbe presentarsi è di una Siria che attacca Israele, su propria decisione o spinta dall'Iran, per creare una azione diversiva dalla guerra civile che si sta inasprendo al proprio interno. E' un'ipotesi estrema, specialmente quella che vedrebbe Damasco agire da sola in questo senso, appena più probabile che l'attacco parta su indicazione dell'Iran, almeno fin quando Assad resta a capo del governo, viceversa, se si verificasse un vuoto di potere, non sarebbe impossibile per Teheran, già molto presente sul territorio sirano con propri uomini e mezzi, riuscire a fare partire un attacco diretto contro Israele, avente uno scopo preventivo, quale risposta anticipata al più volte minacciato attacco contro l'Iran. Militarmente il confine tra Siria ed Israele è il fianco meno protetto del paese della stella di David. Del resto un allargamento ulteriore del conflitto siriano ha come sviluppo più probabile, proprio Israele, obiettivo simbolo della lotta araba, capace di aggregare le più diverse tendenze dell'islamismo. La Giordania è alleata degli USA ed ha firmato un trattato di pace con Israele, ed il suo coinvolgimento concreto nella strategia di difesa è il segnale più nitido che la tensione ha già superato il livello di guardia. Del resto la combinata della guerra siriana con le esercitazioni militari iraniane, costituiscono già una minaccia più che concreta, all'interno della disputa sullo sviluppo della tecnologia nucleare dell'Iran. Materialmente le batterie di missili che la Giordania schiererà saranno costituite da Patriot forniti dalla Germania, su autorizzazione degli USA, ma è facile capire che dietro tutta l'operazione lo stato israeliano ha fatto da coordinatore, per coprire al più presto la falla nel proprio sistema di difesa. Il compito dei missili Patriot sarà quello di intercettare i missili Scud o m-600, che risultano nella disponibilità dell'arsenale siriano. Per la Giordania, tuttavia questa iniziativa può andare a creare qualche problema interno, per la presenza, sul suo territorio, di un gran numero di rifugiati palestinesi, che potrebbero diventare fonte di proteste contro la decisione di schierare installazioni missilistiche a vantaggio israeliano.

Il ruolo del Kenya nella Somalia

L'esercito keniano sta avanzando in Somalia ed avrebbe liberato circa il 95% del territorio controllato dal movimento estremista islamico Al- Shabab, che ha a lungo condizionato la vita del paese, secondo le fonti ufficiali dell'esercito. Le forze armate di Nairobi sono presenti sul territorio somalo fin dal 14 ottobre, per quella che doveva essere una sorta di guerra lampo, con il duplice scopo di scongiurare il pericolo che il contagio dell'estremismo islamico si allargasse nel paese keniota e porre fine agli ostacoli frapposti dagli integralisti agli aiuti umanitari, che dovevano risollevare le popolazioni colpite dalla carestia, costrette in gran numero a fuggire nel paese confinante. Una sorta di guerra preventiva per preservare quindi i confini del paese e creare i presupposti per favorire la stabilità nel paese vicino. Ma nonostante i programmi dei militari keniani, l'avanzata delle truppe non è andata così spedita come atteso e Kisimayo, città portuale principale obiettivo della campagna militare in Somalia, resta ancora in mano degli integralisti. Si tratta di un obiettivo strategico perchè costituisce la principale fonte di reddito che mantiene in vita Al Shabab. Non solo, neppure la città di Afmadow, che si trova a metà strada tra il confine tra Kenya e Somalia e la stessa Kisimayo sarebbe ancora in mano alle milizie islamiche. Una situazione che smorza le dichiarazioni trionfalistiche dei militari del Kenya e che rivela una concreta difficoltà nel portare avanti un'avanzata che si sta rivelando sempre più problematica. Anche sulle aree che vengono date già liberate con certezza, il controllo non risulterebbe affatto completo a causa delle tattiche di guerriglia poste in essere da Al Shabab, capaci di tenere in costante allarme i militari di Nairobi. Vengono infatti segnalate a ripetizione azioni di guerriglia contro le forze armate del Kenya attraverso l'impiego di imboscate sia con armi leggere, che con mortai e granate, capaci di portare scompiglio nella forza di occupazione. La situazione non ha portato miglioramenti per la popolazione già stremata dalla carestia e dalla cronica mancanza di medicinali. Nel complesso la situazione della Somalia è ancora più difficile, infatti oltre all'esercito del Kenya attestato nella parte sud-ovest del paese, vi sono anche presenti sul suolo somalo anche l'esercito etiopico e le truppe inviate dall'Unione Africana, composte da militari di Burundi, Gibuti ed Uganda, a cui si affiancano le truppe del governo somalo, più altre milizie minori sempre a fianco del governo della Somalia. Questo dispiegamento di forze ha come nemico i combattenti di Al Shabab, che sembra ormai fiaccato dalla guerra che gli viene mossa contro. Anche il fatto del tentativo di alleanza con Al Qaeda e la disperata ricerca di nuovi combattenti, anche stranieri, rivela lo stato di difficoltà del movimento radicale. Ma la caduta di Al Shabab potrebbe non bastare per pacificare il paese, frammentato dalla presenza di una serie di clan con interessi contrapposti e dotati ognuno di una propria milizia, che senza più l'obiettivo comune contro cui combattere punterebbero le armi gli uni contro gli altri, riportando il paese nel caos più totale. In quest'ottica la sopravvivenza di Al Shabab, almeno per il momento, risulta essere funzionale all'elaborazione di un progetto, che per ora manca, capace di aggregare i diversi soggetti della società somala, i clan per l'appunto, ha trovare un comune terreno di intesa sul quale lavorare per favorire lo sviluppo del paese attraverso le proprie ricchezze e gli aiuti internazionali. Sembra proprio questo il compito che il Kenya potrebbe assumersi, coordinare le varie forze presenti nel paese con lo scopo di avere alle sue frontiere un soggetto nazionale stabile, costruito su base federale per rispondere alle istanze ed esigenze diverse della composizione sociale del paese somalo.

mercoledì 22 febbraio 2012

Le implicazioni delle rinnovate relazioni diplomatiche tra Arabia Saudita ed Iraq

Importante riavvicinamento diplomatico nel mondo arabo: Arabia Saudita ed Iraq riprendono, infatti, le relazioni diplomatiche interrotte da ventidue anni, quando Saddam Hussein invase il Kuwait e Riyadh accusò Baghdad di volere usare il paese del Golfo Persico, come testa di ponte per attaccare l'Arabia. La notizia rappresenta una volontà di distensione tra i due paesi composti da differenti maggioranze religiose, nella composizione delle rispettive popolazioni. Ma rappresenta anche un investimento dell'Arabia Saudita affinchè l'Iraq non cada nella zona di influenza iraniana, come più volte tentato dalla politica di Teheran; il governo della Repubblica Islamica ha messo al centro della propria politica estera una azione di avvicinamento verso quei paesi a maggioranza scita. In Iraq la pacificazione tra sciti, la maggioranza, e sunniti, la minoranza che con Saddam ricopriva però i ruoli chiave del paese, è ancora lontana dall'essere raggiunta. Su questi contrasti ha fatto leva l'azione iraniana, cercando appoggio negli sciti e portando così ulteriore scompiglio nella già difficile situazione del paese. Per gli USA la divisione dell'Iraq in due o più stati, considerando anche il problema curdo, non ha mai rappresentato una soluzione da condividere, anche se forse sarebbe stata la più logica ed avrebbe evitato i numerosi episodi di violenza accaduti e che purtroppo ancora accadranno. Ma una tale divisione avrebbe significato che la parte destinata agli sciti sarebbe ricaduta completamente sotto l'influenza di Teheran, regalando agli iraniani una zona strategica della regione. La mossa dell'Arabia Saudita va inquadrata, probabilmente anche in questa esigenza dell'alleato americano, che preferisce non agire più in prima persona nelle zone conflittuali islamiche, anche dal punto di vista diplomatico, per non turbare i delicati equilibri presenti. Tuttavia anche per l'Arabia Saudita esistono interessi da tutelare al di fuori di logiche diplomatiche più ampie, come la protezione della minoranza sunnita in Iraq. Quella di proteggere in generale la popolazione sunnita è diventata un fulcro della azione di Riyadh ed è speculare a ciò che Teheran opera per gli sciti; queste politiche uguali e contrarie contribuiscono ad innalzare la tensione tra i due paesi tradizionalmente avversari per la supremazia religiosa e quindi anche politica nell'Islam. Tuttavia la riapertura di una sede diplomatica a Baghdad ha anche il significato della ricerca di una distensione con l'Iraq da parte dell'Arabia Saudita, che non ha mai visto favorevolmente il governo di Al-Maliki, proprio perchè composto in maggioranza da sciti; l'azione, cioè, vuole superare le differenze religiose dando predominanza agli accordi tra gli stati. Tale punto non è secondario perchè arriva a ridosso del prossimo vertice della Lega Araba, che si terrà proprio a Baghdad alla fine di marzo e che si presenta cruciale dopo i rinvii causati dal conflitto siriano e dalla repressione degli sciti in Bahrain. L'intenzione dell'Arabia Saudita sarà probabilmente di assumere un ruolo di guida, all'interno della Lega, che possa portare a risoluzione sopratutto la questione siriana, impedendo sia una deriva in senso favorevole all'Iran, sia che vada in un senso capace di dare un assetto democratico al paese, con il pericolo che tale fatto crei un contagio capace di allargarsi verso i paesi del Golfo, fatto, che forse, per il momento non conviene neppure agli Stati Uniti, che necessitano nella regione di una forte stabilità che ne garantisca la posizione la presenza, sopratutto militare, in vista di un possibile confronto bellico tra Israele ed Iran.

martedì 21 febbraio 2012

L'Iran fa le manovre militari

Le forze armate messe in campo dall'Iran per le proprie esercitazioni militari hanno più di un significato. Intanto la prima ipotesi è che la Repubblica islamica, si prepari materialmente ad un attacco israeliano, non a caso la maggiore concentrazione di forze armate in esercitazione è nel sud del paese, dove vi sarebbero i siti nucleari, potenzialmente gli obiettivi più concreti per un attacco.Ma la coincidenza dell'arrivo degli ispettori delle Nazioni Unite, segnala, insieme, la volontà di esibire la propria forza agli inviati dell'ONU, ma anche vuole essere una concreta preparazione in vista di un possibile rapporto negativo e quindi un sostanziale via libera ai timori israeliani, che stanno dietro il possibile confronto bellico tra i due stati. Va specificato che il trattamento riservato agli ispettori inviati per monitorare le centrali nucleari iraniane, non è stato dei migliori: infatti il personale in visita si è dovuto districare tra divieti vari che non faranno che vanificare la missione. In questo caso il regime delle sanzioni sarà confermato, se non inasprito e per l'Iran ci saranno problemi sia economici, che, purtroppo, militari. Nonostante tutte queste premesse il governo di Teheran non pare arretrare di un millimetro e lo sfoggio delle manovre militari ne rappresenta una sostanziale conferma. Anche se si può ipotizzare che tale esibizione di forza sia legata anche ad aspetti interni, dove è necessario mostrare la fermezza del paese in campo internazionale per non indulgere sul piano interno, dove cova una ribellione della società sempre pronta ad esplodere. In quest'ottica si ritiene che un attacco israeliano rischierebbe di aumentare il consenso verso il regime, in una sorta di risveglio nazionalistico che andrebbe a rinforzare il governo iraniano. Questo rilievo non è secondario per quelle potenze che credono ancora possibile rovesciare Ahmadinejad e portare il paese ad una transizione democratica. Tuttavia, malgrado il lavoro sotterraneo, la presa del regime sulla società iraniana è ferrea, grazie ad un controllo costante e capillare, che in questo momento rende quasi impossibile questa ipotesi. Se questa analisi è giusta diminuiscono sempre di più le possibilità di contenere gli israeliani, che, peraltro, non vedono gran risultati dall'imposizione delle sanzioni, sui progressi nucleari degli Ayatollah. La globalizzazione economica ha avuto ricadute anche sui rapporti geopolitici e la chiusura di alcuni mercati può essere facilmente compensata con l'apertura di altri, anche a costo di qualche sacrificio economico. Proprio per queste ragioni la minaccia della chiusura dello stretto di Hormuz appare una sfida che ha soltanto lo scopo di innalzare la tensione, forse, anche in questo caso, più per il fronte interno e dei paesi o movimenti con i quali l'Iran intrattiene rapporti più stretti. La strategia iraniana nei confronti dell'occidente è quindi quella di procedere con minacce ed esibizione di forza per il solo scopo di guadagnare tempo nella corsa all'atomica; nel contempo continua la guerra, fatta di attentati e spionaggio tra Iran ed Israele, con gli USA a rinforzo. I recenti attentati a diplomatici israeliani, malgrado le smentite, sono serviti come rappresaglia alle morti sospette di scienziati nucleari iraniani, di cui Israele ha negato di essere implicato. Si tratta di segnali concreti di come la tensione stia raggiungendo il livello di guardia, solo una azione convinta della diplomazia mondiale può, forse, ancora mettere un freno alla degenerazione della situazione, sempre che non sia troppo tardi.

venerdì 17 febbraio 2012

Esplode in Vietnam il problema legato alla terra

In Vietnam il problema della espropriazione dei terreni agricoli è da anni fonte di forte tensione, ma in questi giorni il livello dello scontro si è notevolmente surriscaldato. Partendo da un episodio di singola ribellione, dove un contadino si è barricato nella propria casa in armi, il tragico fenomeno, figlio di una corruzione imperante, è tornato alla ribalta, tanto da sollecitare il primo ministro, il comunista Nguyen Tan Dung, ha promettere azioni concrete contro i funzionari dello stato che operano attraverso la corruzione. La situazione del Vietnam è emblematica di quei paesi ex comunisti o anche che ancora si dichiarano tali, che hanno intrapreso il passaggio ad una economia di mercato. Il dato comune risulta appunto essere una presenza asfissiante di un ceto di burocrati, triste retaggio dei regimi comunisti, che cerca di aumentare i propri guadagni, sfruttando la propria posizione privilegiata nella, di solito, abnorme, macchina burocratica. La transizione economica vietnamita inaugurata alla fine degli anni ottanta, ha visto nel 1993 l'istituzione del diritto di acquisizione dell'utilizzazione dei terreni, rimasti comunque proprietà dello stato. Con l'avvicinarsi della scadenza del termine dei vent'anni, che avverrà nel 2013, il governo centrale teme una serie di rivolte popolari in nome del diritto alla terra, capace di sconvolgere l'assetto sociale del paese. Anche perchè, proprio in vista della fatidica scadenza, sono aumentati in modo esponenziale i reclami contro le autorità periferiche del paese, già bersagliate su altri fronti; i reclami presentati per le questioni inerenti ai terreni sono stimate già nel settanta per cento del totale. Inoltre si registra anche l'aumento di casi di violenza contro i luoghi delle istituzioni, con palazzi governativi e posti di polizia dati alle fiamme. La questione, insomma è vitale per la stessa sopravvivenza del regime, tanto che è allo studio la legalizzazione della proprietà privata o almeno una revisione del diritto fondiario. Tuttavia ciò non pare potere accadere in tempi brevi a causa delle resistenze sia all'interno del partito comunista, che degli stessi organismi burocratici. Ma la crescente organizzazione di manifestazioni a sostegno della privatizzazione della terra, preoccupa non poco il governo centrale, che nella peggiore delle ipotesi può vedere attuata addirittura una spaccatura decisiva all'interno del paese, a causa dell'esasperazione dei contadini. Malgrado le prospettive di crescita a due zeri, legate ad una industrializzazione che si sta progressivamente affermando e che si ritiene possa replicare i successi di altri paesi asiatici, che hanno avuto condizioni analoghe di partenza, l'importanza dell'agricoltura resta centrale sia nel quadro economico nazionale, sia, sopratutto, in quello sociale. In questo momento storico il Vietnam non può permettersi una crisi interna, di alcun tipo, ma sopratutto proveniente dal mondo contadino, capace ancora di catalizzare attorno alle proprie istanze un pesante consenso.

mercoledì 15 febbraio 2012

Siria: presenza di combattenti stranieri ed aperture sospette di Assad

Nella difficile situazione siriana vi è un aspetto che contribuisce ad alimentare la destabilizzazione e la confusione nel conflitto. Sarebbe, infatti, stata registrata la presenza di combattenti stranieri sia da una parte che dall'altra. Già all'inizio degli scontri gli insorti segnalavano la presenza di uomini in uniforme nera, organizzati militarmente, che combattevano al fianco delle truppe regolari, questi irregolari sarebbero stati individuati come facenti parte dei guardiani della rivoluzione iraniani, fatto smentito dal governo di Teheran, che tuttavia, resta il più probabile dei mandanti per le sue dichiarazioni in appoggio alla repressione di Assad. Attualmente esisterebbero anche combattenti stranieri schierati contro il governo ed inviati da Al Qaeda per avviare il paese alla jihad ed indirizzarlo così verso una deriva di islamismo radicale. Questo fatto giustifica il governo a parlare, come in effetti accade, di complotto terroristico internazionale e trovare così una sorta di giustificazione per la repressione in atto. I movimenti democratici, che invece, lottano per un cambiamento verso un passaggio da una forma di governo autoritaria ad una democratica, nono gradiscono questa intromissione in quella che ormai è diventata una vera e propria guerra civile e temono, che con una possibile affermazione dei combattenti radicali, vada ad affermarsi un'altro regime autoritario, questa volta fondato su principi teocratici. Per la sua posizione geografica la Siria è appetita sia dai paesi confinanti che dai movimenti estremisti, entrambi con la volontà di impedire al paese un percorso verso la democrazia che venga a creare uno stato laico ed indipendente, in una posizone chiave della regione. Al confine con il Libano vi sono gli Hezbollah, che sono tradizionalmente alleati dell'Iran, intenzionato a che il paese siriano, resti proprio alleato, o ancora meglio, entri maggiormente nella sua area di influenza. Questo pericolo ha allertato l'Arabia Saudita, che teme Damasco in mano agli sciti, quindi Ryiad conduce la propria battaglia su due tavoli: uno alla luce del sole nella sede della Lega Araba, dove è fautrice di un intervento di pacificazione nazionale mediante l'invio di truppe ONU, ma nell'altro incoraggiando i suoi movimenti radicali ad andare a combattere sul suolo siriano. Nel conflitto hanno poi un ruolo fondamentale le truppe che hanno disertato dalle forze armate regolari e fedeli ad Assad; si parla di intere divisioni che sono dotate di armi e preparazione militare, ma che in caso di vittoria non è chiaro quale indirizzo vogliano dare al paese . Si sta insomma creando un clima da tutti contro tutti, dove le alleanze non sono ben chiare, perchè sono gli stessi contendenti che non sono pienamente definiti.
Frattanto Assad annuncia un referendum da tenersi il 26 febbraio su di una nuova costituzione che mette fine al monopolio del partito Bath ed apre al multipartitismo attraverso il voto, ma vieta la costituzione di partiti religiosi, bilanciando la norma con l'affermazione che la religione islamica è religione di stato e che dalla giurisprudenza islamica debbano derivare le leggi dello stato. La mossa appare da subito ambigua perchè vuole accontentare tutti non accontentando nessuno e sopratutto perchè, di fatto, darebbe la possibilità al presidente in carica, lo stesso Assad, di rimanervi ancora per sedici anni, mantenendo lo status quo. Più che per il fronte interno l'annuncio sembra per quello esterno e pare un chiaro tentativo di guadagnare tempo nei confronti di un'opinione pubblica internazionale e diplomatica che mette al centro la vicenda siriana di una discussione sempre più ampia, anche se non con opinioni uniformi. La sensazione è che, proprio grazie a queste divergenze sui modi di affrontare la crisi, il regime siriano guadagni tempo prezioso per vincere le ostilità e confezioni queste finte aperture democratiche, che costituiscono prove di buona volontà, ad uso e consumo di quei paesi come la Russia, che con il loro atteggiamento, hanno materialmente aiutato alla continuazione dei massacri.

Il nuovo attivismo della politica estera dell'India

Nella questione iraniana irrompe l'India. La logica che muove Nuova Delhi pare basarsi su criteri innanzitutto mercantili, ma non solo, mascherati da criteri di opportunità diplomatica. Il paese indiano, infatti, rivendica una propria autonomia dalle sanzioni imposte da USA e UE, ritenendoli soggetti non adeguati a promulgare misure coercitive contro l'Iran senza l'avvallo dell'ONU. E' uno schema che ricalca la posizione cinese, con l'aggravante ipocrita che l'India non ha il diritto di veto di Pechino e quindi si attiene in maniera pilatesca, ad una situazione che va tutta a proprio vantaggio a costo zero. La presenza economica indiana nel paese degli ayatollah, già consistente grazie a diverse collaborazioni con Teheran, mira all'aggiustamento della bilancia commerciale, che ora pende a favore dell'Iran. Grazie alle sanzioni applicate sul petrolio iraniano l'India ha potuto sostituirsi agli acquirenti europei, diventando il primo paese importatore di greggio, per la considerevole cifra di 9.000 milioni di euro a fronte di una esportazione verso Teheran di 2.000 milioni di euro. L'evento delle sanzioni rappresenta quindi una occasione da sfruttare andando a colmare i vuoti lasciati dalle imprese occidentali in settori molto redditizi quali ad esempio le infrastrutture. L'atteggiamento indiano di fronte alla minaccia nucleare iraniana costituisce una sorpresa, sopratutto per gli Stati Uniti, tradizionali alleati, ma significa anche, che nel mondo diplomatico la situazione non è più statica come un tempo ed i cambiamenti possono oramai avvenire in tempi più veloci. Occorre infatti considerare diverse variabili per comprendere la posizione di Nuova Delhi, aldilà delle pur importanti ragioni economiche. Per la propria considerevole crescita, l'India costituisce uno dei più temibili avversari per Pechino, ma rispetto alla Cina, per ora, non ha le velleità di grande potenza globale, che sembrano assillare il governo cinese, questo non vuole dire che non abbia mire sui mercati emergenti e tenda a sviluppare una propria politica estera completamente slegata dalla nuova polarizzazione occidente (USA e UE), oriente (Cina). Sopratutto sulla base regionale, dato il sempre problematico rapporto con il Pakistan, che ha stretto sempre più vincoli con la Cina, l'India è obbligata a cercare nuovi partner e l'Iran rappresenta, per la propria posizione geografica, la nazione ideale con il quale sviluppare legami. Vi è da considerare che a favore di questa strategia gioca anche il progressivo allontanamento di Pechino da Teheran, che pur nel quadro del mantenimento del veto alle sanzioni, ha già ridotto la propria collaborazione con Ahmadinejad, avvenuta sia per ragioni di propria opportunità (non è gradita la presenza di una nuova potenza nucleare ai propri confini), sia per adempiere al sempre crescente ruolo di potenza globale che si è auto imposta. Anche rispetto all'Afghanistan, sopratutto in chiave futura con lo scenario che si presenterà nel paese con il ritiro della gran parte delle truppe USA ora presenti, vi è un attivismo che mira a rafforzare gli accordi con Karzai, facendo leva sull'antagonismo di Kabul con Islamabad, maturato con la presenza delle basi talebane in Pakistan. Qui l'interesse è duplice, oltre a contrastare la politica estera pachistana in Afghanistan, all'India interessa circoscrivere il movimento talebano all'interno della sua attuale zona di operazioni ed impedire che il fenomeno si allarghi entro i propri confini. Come si vede ci si muove in una situazione diplomatica molto fluida che deve tenere conto di diverse variabili e prospettive, ma dove per l'Occidente pare obiettivamente difficile districarsi, per portare a proprio vantaggio le rivalità e le alleanze che si stanno sviluppando. Tuttavia, sopratutto per gli USA, rimane importante mantenere l'amicizia del paese indiano, che resta un punto geopolitico strategico, anche se le mutate condizioni imposte dalla globalizzazione obbligano i governi delle nazioni più potenti ad avere a che fare con paesi sempre più capaci ed intenzionati ad avere una maggiore autonomia nel campo della politica estera.

martedì 14 febbraio 2012

Xi Jinping in visita negli Stati Uniti

L'incontro di questi giorni tra le due super potenze mondiali USA e Cina, secondo gli annunci, verterà su temi cruciali per il futuro del mondo, quali l'equilibrio militare e le reciproche relazioni economiche. Per la Cina il protagonista sarà il vicepresidente Xi Jinping destinato ad assumere la guida di Pechino a Marzo e quindi a diventare una delle persone più potenti del panorama internazionale. Le relazioni tra i due paesi hanno attraversato momenti difficili, sia dal punto di vista delle questioni geopolitiche, su tutte il problema militare nel Pacifico, con Washington alleata di Giappone e Sud Corea, che hanno avuto diversi motivi di attrito con la Cina, sia dal punto di vista economico, con il cruciale aspetto della sopra valutazione della moneta cinese, lo yuan, ritenuta causa di concorrenza sleale dagli Stati Uniti nei confronti dei propri prodotti. Nonostante il rilievo di questi temi sarà tuttavia impossibile che gli incontri bilaterali non tocchino i pesanti problemi presenti sullo scacchiere internazionale, dalla questione iraniana a quella siriana, senza tralasciare la recessione economica che ha colpito l'Europa, mercato privilegiato di entrambi. La visita cinese, in questo dato momento, ha un particolare significato perchè si svolge in un periodo di grande turbolenza, che necessita di un'azione comune da parte degli stati più potenti, che hanno il comune interesse affinchè sia presente una situazione più stabile. A tal fine un risultato apprezzabile potrà essere, per entrambe le nazioni, se i rispettivi rappresentanti riusciranno a smussare le differenze, sopratutto nella visione della politica estera, per superare gli ostacoli che determinano la stasi di fronte, oltre che a singole situazioni, come attualmente è la Siria, alla possibile azione complessiva intesa come fronte comune davanti ad emergenze di grande respiro. In questa ottica è impossibile non pensare al ruolo delle Nazioni Unite, che gli USA vorrebbero più attive, che, invece, risultano sempre più frequentemente bloccate dai veti cinese e russo. Se Washington riuscirà a scardinare il blindato atteggiamento di Pechino, Mosca non potrà restare da sola ad utilizzare un potere di veto ormai anacronistico. Ma è altresì vero che gli stessi Stati Uniti, beneficiano di questo vantaggio in Consiglio di sicurezza, l'augurio è che si trovi una sintesi che possa sbloccare la situazione a favore degli interessi della pace. I due stati devono trovare la più ampia intesa possibile, che permetta di trarre vantaggio ad entrambi. L'attenzione degli USA sul tema dei diritti umani, che aveva caratterizzato la prima parte della presidenza Obama, sembra scemata a favore di un più pragmatico silenzio a causa della gran quantità di debito pubblico americano presente nel portafogli cinese, ma è impensabile che negli incontri non venga trattato il tema del Tibet sempre più al centro di proteste clamorose contro il governo centrale; ma è difficile che la Cina cambi il proprio atteggiamento, che potrebbe favorire l'allargamento della protesta in altre regioni del paese. Piuttosto, il colosso cinese, dovrà concedere qualcosa sul piano dell'economia, dove la divisa nazionale dovrà subire un ritocco verso l'alto del suo apprezzamento, come più volte chiesto dalla Casa Bianca, in cambio di un atteggiamento doganale diverso da parte di Washington. L'Europa pare l'argomento sul quale i due governi paiono trovare maggiore accordo, entrambi infatti hanno bisogno di una politica espansiva da parte del vecchio continente, in grado di alimentare le loro esportazioni, non sono quindi da escludere azioni congiunte di sostegno alle disastrate casse dei paesi della UE, con finanziamenti capaci di aumentarne le capacità di spesa. In conclusione non si dovrebbe assistere ad un incontro epocale capace di portare novità sostanziali nel rapporto tra i due paesi, che abbiano una ricaduta sul resto del mondo, dovrebbe trattarsi, piuttosto, di piccoli aggiustamenti che possano permettere una convivenza pacifica tra i due colossi, volti a smorzare le tensioni, per la verità più che altro alimentate dagli alleati o da situazioni al di fuori del controllo diretto dei due paesi. La Cina ha sempre più la necessità di accreditarsi sul piano internazionale come paese affidabile, per compiere il proprio percorso di grande potenza, finora debole al di fuori dei propri confini, se non nell'aspetto economico ed allacciare sempre più stringenti rapporti con gli Stati Uniti è il passo obbligatorio da espletare per completare questa strada.

lunedì 13 febbraio 2012

Siria: la miopia della Russia, l'iniziativa della Lega Araba e la questione libanese

Ormai l'isolamento di Cina e Russia sulla questione siriana, sta assumendo proporzioni sempre maggiori, che potranno alterare i rapporti diplomatici esistenti, sopratutto tra i due paesi e le nazioni aderenti alla Lega Araba; infatti la richiesta esplicita da parte di quest'ultima, avvenuta in maniera ufficiale, dell'invio di una truppa di pace sotto l'egida dell'ONU, con lo scopo di fermare i massacri imputati ad Assad, rischia, se continuerà a permanere il veto in Consiglio di sicurezza da parte di Mosca e Pechino, di alterare in modo significativo le relazioni con i paesi arabi, con ricadute ovvie sugli aspetti economici legati al rifornimento del petrolio. Al tema è particolarmente sensibile la Cina, che necessità di sempre maggiori forniture di greggio per sostenere il proprio sistema produttivo ed è infatti il paese meno rigido sulla possibilità di trovare un accordo. Più difficile da scalfire la posizione di Mosca, che è legata alla Siria attuale, da una serie di accordi ritenuti vitali per Mosca, che riguardano la cooperazione militare, diplomatica ed economica. Il governo russo ha cercato di fare passare, davanti al panorama internazionale, un proprio attivismo, slegato dall'azione comune di ONU, UE e Lega Araba, per convincere Assad a posizioni più morbide, che ne permettano una difesa di fronte all'opinione pubblica internazionale. Ma, per ora, il regime di Damasco è rimasto sordo alle suppliche russe ed anzi, ha intensificato la repressione con azioni ancora più violente e spettacolari, che hanno peggiorato l'immagine di fronte al mondo intero. Il fallimento russo dimostra che Assad è conscio di potere godere dell'alleanza con Mosca, nonostante tutto; ciò, di fatto, va a peggiorare la posizione della Russia che pur non avendo più scusanti per difendere la Siria, continua imperterrita ad esercitare il proprio diritto di veto nel Consiglio di sicurezza. Ma l'azione della Lega Araba obbligherà Mosca ad una decisione, qualunque essa sia, che determinerà conseguenze decisive per il ruolo della politica estera futura della Russia. Infatti se continuerà a prevalere la posizione contraria ad un intervento volto a fermare le violenze in Siria, per Mosca si tratterà di un declassamento diplomatico, per manifesta incapacità di vedere la situazione a lungo termine, che andrà a precludere, con l'ovvia caduta di Assad, anche la propria posizione nel paese, motivo ultimo del veto in Consiglio. Su Mosca ricadrà la colpa della mancata azione, con il conseguente tragico bilancio dela contabilità dei morti e probabilmente un paese in uno stato instabile che potrà essere un pericolo per tutta la regione. Proprio per questo motivo la preoccupazione della Lega Araba ha inasprito le sanzioni e tagliato tutti i contatti diplomatici con il regime siriano. La Lega Araba non vuole una destabilizzazione che può allargarsi a macchia d'olio e che comincia a presentare i propri effetti in quella bomba ad orologeria che è da sempre il Libano. La presenza massiccia in questo paese delle formazioni Hezbollah, di matrice scita e da sempre sostenuti da Assad, costituisce infatti un pericolo potenziale elevato e fonte di innalzamento della tensione. Più volte Assad ha usato provocare conflitti nelle zone limitrofe per distogliere l'attenzione mediatica dai propri problemi interni, fin dall'inizio della crisi. Il pericolo di un nuovo conflitto libanese è ora concreto, se inquadrato in una strategia di Damasco volta a creare caos nella regione. Il paese dei cedri sta vivendo un periodo relativamente stabile di pace, assicurato dalla presenza del contingente UNIFIL, ma neanche le forze armate straniere presenti nel paese, potrebbero fermare una ripresa delle ostilità su grande scala istigata dall'esterno. Ad aggravare la situazione vi è la questione del possibile conflitto Israele-Iran, che potrebbe creare tensioni molto forti alla frontiera tra Libano ed Israele, per l'azione Hezbollah, tradizionali alleati di Teheran. Come si vede una situazione esplosiva, più di quanto trapeli dai pur continui resoconti della stampa. Ci si trova di fronte a più motivi e cause che, prese insieme o anche singole, potrebbero innescare conflitti armati capaci di sovvertire l'ordine mondiale. E' questo il quadro in cui potrebbero concretizzarsi i peggiori timori della Lega Araba ed a ruota di USA e UE. La situazione, pur gravissima per le condizioni cui è sottoposta la popolazione della Siria, potrebbe avere un peggioramento sostanziale che andrebbe ad impattare sull'intera condizione mondiale, con peggioramento della situazione delle relazioni internazionali, degli equilibri militari e le ovvie ripercussioni economiche. La soluzione proposta ora dalla Lega Araba, ma caldeggiata ancora prima da USA e UE, pare ormai l'unica che possa bloccare questa deriva, dato che le sanzioni, pur fiaccando il regime, non hanno ottenuto risultati degni di nota. E' una via da percorrere senza alternative, anche a costo di superare la stessa ONU e passando così il veto di Cina e Russia. E' chiaro che ciò sancirebbe definitivamente la fine dell'assetto attuale delle Nazioni Unite, accelerando la necessaria riforma per cambiare uno schema uscito e rimasto immutato dalla fine della seconda guerra mondiale e non più adatto ai radicali cambiamenti avvenuti negli ultimi sessanta anni.

venerdì 10 febbraio 2012

Gli USA hanno bisogno dell'Italia di Monti

L'accoglienza calorosa riservata dagli Stati Uniti al premier italiano Monti, segna una inversione di tendenza nei rapporti tra i due paesi. Con Berlusconi, aldilà delle dichiarazioni di facciata in nome della storica alleanza atlantica, la politica estera italiana aveva messo al centro della propria azione, e predilezione, i rapporti con la Russia, sopratutto per le affinità che legavano i leader dei due paesi. In questa fase il rapporto con gli USA, da sempre il primo alleato italiano fin dal secondo dopoguerra, aveva subito un raffreddamento non dovuto soltanto al nuovo indirizzo scelto dai governi di Berlusconi, ma dettata sopratutto dai mutati assetti geopolitici mondiali; che poi il precedente presidente del Consiglio italiano non facesse molto per recuperare questa distanza, aveva soltanto contribuito all'allontanamento reciproco, pur nella conservazione di un legame comunque stretto. Uno degli effetti della crisi economica mondiale è la necessità per gli USA di trovare partner politici che sostengano la necessità di una politica economica espansiva, che favorisca, cioè, secondo la visione dell'amministrazione Obama, una ripresa stabile e duratura, che permetta una penetrazione redditizia dei prodotti americani. Se la UE resta, nonostante tutto, il mercato privilegiato e più ambito di tutti i paesi produttori, che vogliono trarre guadagno dalle loro esportazioni, la politica tedesca, che è il paese che più pesa nelle decisioni comunitarie, costituisce l'ostacolo maggiore a queste aspirazioni a causa della visione diametralmente opposta in materia di politica economica. La cancelliera Merkel ha finora lavorato in funzione dell'esigenza della sola riduzione del debito, in maniera piuttosto spinta, imponendo a tutta la zona euro politiche restrittive, che non possono altro che soffocare qualsiasi ambizione di maggiore inserimento in questo mercato. E' una politica sia economica che finanziaria, quella tedesca, che rappresenta anche una salvaguardia al proprio prodotto, ma soltanto nel breve periodo, tanto che gli ambienti produttivi tedeschi hanno già iniziato da tempo a sollevare obiezioni per l'andamento futuro della stessa economia della Germania, che rischia di avere aziende con i magazzini pieni di merce invenduta. Nonostante queste sollecitazioni la Merkel offre ancora soltanto timide aperture a politiche maggiormente espansive, sostanzialmente perchè è in ostaggio di settori molto forti della società tedesca che sono ancora influenzati dalla situazione greca e temono gli effetti deleteri di una politica espansiva più dei possibili benefici. Per gli USA è venuta meno, relativamente all'Europa, anche l'importanza economica del loro alleato numero uno: la Gran Bretagna, che rifiuta le misure predisposte dalla UE, in nome della propria indipendenza finanziaria, ma, che, di fatto si è posta con questa decisione ai margini del mercato europeo. In tutto questo panorama che sembrava bloccato per le aspirazioni americane, la salita al potere di Monti, ha permesso di nuovo di individuare l'Italia come alleato strategico nel piano di sbloccare l'ingessata politica economica europea. Del resto il nuovo premier italiano, dopo avere imposto misure draconiane alla maggior parte della popolazione italiana, che gli hanno permesso di riscuotere il plauso dei rigoristi, oltre che degli ambienti finanziari, ha immediatamente inaugurato una nuova fase proprio negli ambienti comunitari, dove propugna, pur mantenendo politiche di rigido controllo della spesa, una politica economica espansiva, basata su investimenti mirati, capace di innescare una ripresa che segni una inversione di rotta dell'andamento globale. Questi segnali sono stati colti anche dalla Cina, che si è fatta avanti più volte per sostenere il debito europeo ed attraverso ciò favorire la ripresa economica. Per gli USA l'alleato italiano riprende così il suo alto valore strategico, proprio in chiave anti tedesca, infatti seppure non ne possiede i fondamentali economici, Roma è pur sempre il terzo paese per importanza dell'area euro ed un suo coinvolgimento nella politica economica è imprescindibile dal salvataggio delle moneta unica. Per Obama fare leva su di un alleato che ha ritrovato affidabilità e può appoggiare la sua concezione espansionista in materia di politica economica è vitale per il fattore economico del paese e di conseguenza per gli argomenti da portare nell'imminente campagna elettorale. La ripresa dell'occupazione USA, può essere incrementata ulteriormente con dosi crescenti di prodotto esportato in un mercato rinfrancato dalla ripresa dell'Euro, che può avvenire grazie all'azione congiunta del contenimento del debito e di nuovi investimenti che sollecitino il nuovo incremento produttivo, in modo da consentire la capacità di assorbimento di nuovi prodotti. Seppur nati sotto la difficile stella di una congiuntura problematica, la nuova stagione dei rapporti USA-Italia si annunciano promettenti proprio per la similitudine che può legare Obama a Monti, anche se per il primo le possibilità di allungare il mandato crescono ogni giorno di più, mentre il secondo è un governante con una scadenza certa.

giovedì 9 febbraio 2012

Il Pachistan vuole assumere un nuovo ruolo nel processo di pace afghano

L'evoluzione della situazione diplomatica tra Afghanistan, Pakistan ed USA, segna una importante novità. Islamabad infatti cerca di assumere un ruolo di mediatore tra le forze dei talebani e Kabul. Dietro a questa mossa vi è l'esigenza di uscire dal tunnel dei sospetti di connivenza del paese pachistano con le forze che lottano contro la NATO, più volte sollevati dall'amministrazione Obama, ma non solo. Islamabad ha infatti l'esigenza di alleggerire la situazione militare che si trova al confine con l'Afghanistan, zona dove trovano rifugio per le incursioni nel territorio di Kabul, le milizie dei talebani e connessa a questa problematica, riguadagnare la sovranità su queste ampie porzioni dello stato, che di fatto sfuggono all'amministrazione piena della capitale. Si è generato quindi un mix di esigenze sia di carattere interno, che esterno, che ha costretto il governo pachistano ad optare per una via totalmente nuova, che punta a superare le notevoli diffidenze presenti sul piano diplomatico, sia con il vicino afghano che con gli USA. Nell'operazione ha un ruolo centrale il Qatar, dove a Doha, la capitale, si da per imminente l'apertura di una rappresentanza dei Talebani e da dove potrebbe partire proprio la missione, relativa al caso in questione, del Primo Ministro pachistano Gilani. Gli Stati Uniti hanno da tempo individuato come funzionale alla loro strategia di uscita dal conflitto, lo sviluppo dei contatti, già avviati in forma non ufficiale, con la parte Talebana, ritenuta imprescindibile nel processo di pacificazione dell'Afghanistan. Implicitamente questa è una ammissione della incapacità della forza statunitense di piegare gli avversari più coriacei dello stato guidato da Karzai e come la storia ha insegnato più volte l'impossibilità di non includerli formalmente nella società afghana. Il reale problema è, semmai, riuscire ad inserirli nel nuovo stato in maniera da consentirgli la loro visione, ma nel contempo convincerli ad accettare la pluralità di ottiche differenti per arrivare ad un livello di democrazia accettabile. L'ostacolo maggiore a questa soluzione è però rappresentato da Karzai ed in misura minore, dallo stesso governo pachistano, che vedono come un segnale di debolezza la concessione ai talebani di sedersi ufficialmente ad un tavolo delle trattative. In realtà su questo fronte ci sarebbero dei cedimenti da parte dello stesso presidente afghano, che pare si sia detto disposto ad un incontro con la parte avversa, presumibilmente in Arabia Saudita. Per il Pachistan il discorso è diverso, la cautela con cui si muove deriva dal timore di prestare il fianco ad ulteriori critiche provenienti da parte del panorama internazionale, che hanno più volte rinfacciato al governo di Islamabad di non avere un atteggiamento troppo convinto nella lotta al terrorismo. Si sarebbe venuta così a creare una inedita alleanza, sul piano esclusivo della convenienza, tra USA e Talebani, entrambi convinti della necessità del processo di inclusione nelle trattative delle milizie islamiche, contro Afghanistan e Pachistan, che temono che lo sviluppo che può prendere l'intesa di cui sopra, determini un isolamento dal processo di pace di Kabul ed Islamabad, non più principali protagonisti delle trattative ma ridotte al ruolo di comprimari. D'altro canto le perplessità dei due governi asiatici sono giustificate dalle continue violenze operate dalle milizie talebane, la cui intensità avrebbe provocato un aggiustamento nei piani americani circa il ritiro delle proprie truppe. Confermato il ritiro anticipato del 2013 del grosso delle forze armate, il Pentagono starebbe elaborando una strategia di presidio mediante la presenza esclusiva di forze speciali e l'incremento dell'uso della guerra elettronica, sopratutto attraverso un impiego sempre più massiccio della forza aerea attraverso l'utilizzo di droni, anche perchè, su questo versante, si sono ottenuti buoni risultati, che hanno fatto registrare l'abbandono in gran numero di jihadisti stranieri, cioè provenienti dal medio oriente ed anche dall'Europa, sebbene siano stati rimpiazzati da combattenti di provenienza pachistana. Lo scenario, insomma, è ancora lontano dal trovare una definizione stabile e si presenta molto fluido, con, tuttavia, concrete prospettive, seppure nel lungo periodo, di trovare uno sbocco positivo. In quest'ottica il nuovo atteggiamento pachistano rappresenta una occasione da cogliere e da non lasciarsi sfuggire: la situazione del paese non consente ancora lo stato di guerra ai suoi confini e ciò deve essere il punto di partenza per rilanciare le trattative tra tutte le forze in campo.

mercoledì 8 febbraio 2012

La complicata situazione diplomatica intorno al caso siriano

Nonostante la continuata repressione del regime siriano, contraddistinta dalla particolare ferocia e sopratutto dalla violenza contro la popolazione civile, la comunità internazionale, seppur sostanzialmente unita contro Damasco, a parte le eccezioni cinese e russa, non riesce a trovare una strategia comune, per porre fine alla stato di violenza che caratterizza il paese. La significativa, anche se tardiva, presa di posizione, attuata in chiave squisitamente diplomatica, effettuata con il ritiro degli ambasciatori di Belgio, Francia, Italia, Olanda, Spagna e sopratutto dei paesi arabi del Golfo, ha seguito la chiusura della rappresentanza di USA e Gran Bretagna. E' un segnale forte, nel linguaggio diplomatico, ma che non basta materialmente a fermare l'azione intrapresa da Assad. Tuttavia l'isolamento siriano appare sempre più evidente e per il dittatore di Damasco non sembra remota l'ipotesi di una incriminazione alla Corte dell'Aja. Molto pesante, in termini internazionali, il ritiro dell'ambasciatore francese da quella che è una sua ex colonia e con la quale Parigi ha sempre intrattenuto un rapporto privilegiato; come è altresi significativa l'espulsione degli ambasciatori siriani da Bahrain, Kuwait, Oman, Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, che costuiscono il Consiglio di cooperazione del Golfo. Inoltre la UE starebbe per disporre nuove sanzioni economiche contro la Siria, che includerebbero il blocco alle operazioni per la Banca Centrale siriana e la chiusura alle importazioni di metalli preziosi, oro, diamanti e fosfati. Ma nonostante queste misure, l'assenza di una strategia unitaria che permetta una lotta efficace alla repressione, pesa sul reale contrasto che si oppone a Damasco. Senza, infatti, l'ombrello delle Nazioni Unite, ogni misura rischia di essere vanificata per lo spazio di manovra di cui riesce ancora a godere Assad. Ciò è dovuto, è noto, all'atteggiamento di Cina e Russia, che rifiutano di essere coinvolte, per ragioni varie e differenti, ad una risoluzione che parta dal Consiglio di sicurezza dell'ONU, capace di affrontare definitivamente la questione. Anche le voci circolate su di un possibile invio di armi da parte degli USA ai ribelli, sono state smentite da Washington, proprio perchè tale strategia è ritenuta insufficiente ed esporrebbe quindi gli Stati Uniti a problemi internazionali, senza neppure ottenere un risultato apprezzabile. Dove non arriva l'azione diplomatica diretta contro Damasco potrebbe arrivare la paura per la Cina di deteriorare le proprie relazioni con i paesi del Golfo, che Pechino non può permettersi di peggiorare, in quanto il petrolio che importa da tali nazioni è in una quantità rilevante e strategica per la sua economia. La leva energetica potrebbe creare qualche spiraglio nell'atteggiamento cinese, i paesi del Golfo non possono permettersi una propagazione possibile della protesta siriana ed inoltre hanno tutto l'interesse a fare cadere Assad per sottrarre la Siria all'influenza iraniana. Interessi che collimano con quelli americani, che non importano troppo alla Cina, ma che sono nettamente contrari a quelli russi. E' proprio Mosca l'ostacolo maggiore ad una risoluzione condivisa della questione e dietro la sua ostinazione si rivela il timore di perdere un alleato fondamentale come Assad. Proprio per questo la Russia è particolarmente irritata dalla piega diplomatica che si è sviluppata, nettamente contraria alla direzione che intendeva imprimere per proteggere Damasco, tanto da arrivare a denunciare un piano straniero volto a mettere i paesi arabi contro di essa. Ci troviamo di fronte, insomma, ad un balletto diplomatico dove ogni mossa è attentamente studiata dagli attori in scena, in un gioco di pesi e contrappesi che per ora non lascia intravvedere una soluzione della crisi, quando, al contrario, occorrerebbe, almeno, una rapida dichiarazione circa il cessate il fuoco.

martedì 7 febbraio 2012

Il pericoloso precedente italiano

Politicamente quello che succede in Italia, può essere interpretato come un laboratorio, un possibile futuro di un'Europa, dove le normali pratiche democratiche vengono sospese, in modo morbido, per favorire la supremazia dei poteri economici e finanziari, alle prese con i guasti che essi stessi hanno generato. Dietro lo stato di emergenza economico, senz'altro presente e pressante, si sono venuti a creare i presupposti di un intervento di urgenza sancito dalla più alta carica dello stato e supportato dai principali partiti del paese, che hanno conferito alla soluzione adottata tutti i crismi della democrazia. Se formalmente è così, la sostanza pare indirizzarsi in tutt'altra direzione: il paese si trova guidato da un governo non eletto, non passato, cioè, sotto la formale valutazione del corpo elettorale, ma soltanto vagliato, pur nei modi previsti dalla legge, dal potere legislativo. Questa la situazione dei fatti senza alcuna valutazione di merito. Se poi si vuole entrare in una valutazione più partigiana, appare francamente dubbio che il cosidetto governo dei tecnici, sia composto da persone legate a filo doppio con quel mondo, sia finanziario, che accademico, che, nella migliore delle ipotesi, mentre ricopriva cariche importanti, non si è accorto della rovina cui andava incontro il paese. Basterebbe soltanto questa considerazione per delegittimare quello che è il punto forte dell'attuale esecutivo italiano: la competenza. Non sembra neppure sufficiente la questione del prestigio internazionale, del cui abbassamento è stato accusato, forse non a torto, il precedente governo, giacchè l'apprezzamento dei soci forti della UE, Germania e Francia, sembra costruito a tavolino per presentare un'Unione Europea più forte di fronte al panorama finanziario. Che l'Italia, essendo la terza economia della zona euro, sia importante, anzi decisiva, nel quadro della salvezza della moneta unica, è assodato, ma questo governo appare troppo compiacente ed appiattito su politiche economico finanziarie, che appaiono dettate alla sola funzionalità delle esigenze tedesche, a cui anche la Francia va a rimorchio, sebbene con modalità maggiormente attenuate. Volendo valutare le misure prese dal governo in carica a Roma, non si può che sottolineare, che i provvedimenti adottati, con l'avvallo di quello che fino a poco tempo prima era il principale partito di opposizione e che si dichiara di sinistra, vanno in una direzione esclusivamente di tutela della ricchezza non proveniente da lavoro, garantiscono le rendite di capitale e quindi in sostanza tutelano il mondo finanziario, a cui non è stato praticamente richiesto alcun sacrificio. Viceversa la scure del governo si è abbattuta sui salari e sulle pensioni andando ad aggravare situazioni già compromesse dalla crisi economica e che la spettacolarizzazione della lotta all'evasione, certamente da perseguire, non pare altro che il contentino studiato per compensare, in maniera psicologica i nuovi disagi, giacchè il reddito recuperato non è stato, finora, impiegato per abbassare il ivello di tassazione dei redditi fissi. Questa politica di facile elaborazione ed attuazione, che non richiede per essere pensata, certamente la competenza accademica e professionale di cui sono pieni i curriculum dei nuovi ministri italiani, mette in pratica la distruzione dello stato sociale, come più volte richiesto dal mondo finanziario, non poteva essere attuata dal precedente governo di destra che guidava il paese, perchè sarebbe stato avversato in maniera massiccia dal mondo della parte politica avversa. Ora l'inclusione del principale partito di opposizione nella maggioranza che sostiene il governo, con la scusa della necessità e dell'urgenza, vengono avvallate misure nettamente contrarie alla qualità della vita proprio di chi costituisce la base elettorale di quel partito. Ma ciò non può non impedire la domanda se anche parte del partito dell'opposizione è composto proprio da parti di quel mondo che ha causato lo stato di rovina attuale. Questo ampio preambolo ha la presunzione di spiegare a cosa può andare incontro una Europa priva di regole certe e condivise ed istituzioni politiche forti ed indipendenti, che sappiano privilegiare il bene comune anzichè mantenere la forza di alcune parti del sistema, che preservandosi alimentano le diseguaglianze ed impoveriscono la massa dei cittadini. L'esempio italiano è la concreta prova di un arretramento sociale ed economico a cui va incontro la totalità della popolazione europea, che corre il rischio di essere guidata, come sta succedendo in Italia, da quella parte sociale che ha causato il dissesto, senza neppure averlo scelto. Anche sotto l'attacco del mondo speculativo, che può benissimo paragonarsi ad una guerra, sospendere le decisioni del popolo non può costituire una buona prassi ed il concreto pericolo che questa modalità si estenda, può diventare un precedente pericoloso. Peraltro il tentativo di sospendere la sovranità greca, dichiarato dalla Germania e passato quasi sotto silenzio, rappresenta un seguito evidente a questa via antidemocratica che pare avere imboccato il vecchio continente. Quello da evitare per prima cosa è l'assopimento e la rassegnazione che sembrano avere colpito le persone, missione non facile perchè i mezzi di informazione paiono compatti, tranne qualche rara eccezione, sostenitori di questo nuovo modo di governare le persone e le cose. In effetti dopo anni di sonnifero televisivo, anche le prese di posizione degli indignati vengono smorzate con la repressione ed il silenzio e la gente comune è sempre più china su se stessa nel tentativo di raggiungere la fine del mese. Eppure una primavera europea è sempre più necessaria per risvegliare le coscenze e prendere atto della necessità di non arretrare di fronte all'erosione dei diritti faticosamente conquistati dalle generazioni precedenti. L'Europa è nata per migliorare la vita dei suoi cittadini non per peggiorarla.

venerdì 3 febbraio 2012

Più concreta la possibilità dell'intervento unilaterale di Israele contro l'Iran

Si alzano i timori per un intervento unilaterale israeliano contro le installazioni dove l'Iran starebbe costruendo la bomba atomica. Le cause scatenanti di questa decisione sarebbero le conclusioni a cui sono giunte le istituzioni di Tel Aviv, sulla base di rapporti del servizio segreto israeliano, che parla addirittura della probabilità che Teheran sia in grado di costruire ben quattro ordigni atomici in tempi più brevi del previsto, essendo ben più avanti, dal punto di vista tecnologico, di quanto fino ad ora stimato, sopratutto dai servizi USA. Stando così le cose l'attacco israeliano potrebbe verificarsi entro la prossima primavera, scatenando una guerra con conseguenze difficilmente prevedibili. Oltre alle implicazioni militari, infatti, il danno agli equilibri sia della regione che mondiali subirebbero un sovvertimento totale, sconvolgendo, sopratutto le posizioni dei paesi arabi di fronte ad una azione solitaria di Israele, effettuata oltretutto senza l'accordo e l'avvallo degli USA. Sebbene Obama abbia più volte ricompreso l'opzione militare tra il ventaglio delle possibilità, la vera intenzione del Presidente USA è di accedere a questa eventualità come soluzione ultima: in questa ottica si inquadra il grande lavoro diplomatico per coinvolgere la maggior parte delle nazioni ad aderire alle sanzioni contro l'Iran, in maniera di sviluppare anche un fronte internazionale, più o meno compatto, contro lo sviluppo degli armamenti nucleari iraniani. Dal punto di vista squisitamente bellico, Israele ha le capacità balistiche di colpire le installazioni iraniane che si trovano a d oltre 200 metri di profondità, al contrario l'Iran dispone di missili la cui gittata può facilmente raggiungere il territorio israeliano e nonostante la sicurezza ostentata dai vertici di Tel Aviv, sulla propria capacità di difesa, quella che si può innescare è una vera e propria ecatombe su di un lato del Mediterraneo. In ogni caso non sembra possibile che sia Teheran a fare la prima mossa, per l'Iran l'attacco preventivo ufficiale non ha senso, piuttosto la tattica portata avanti dalla Repubblica islamica, peraltro in parallelo con Tel Aviv, è quella di portare avanti una guerra parallela fatta di attentati ed assassini singoli, che non fa altro che aumentare la tensione. Il fatto della sospensione di manovre militari congiunte tra USA ed Israele, nonostante le smentite, ha innalzato i sospetti di un contrasto tra le due amministrazioni proprio sulla questione dell'intenzione dell'attacco preventivo israeliano, sul quale esiste anche una previsione su quando questa azione potrebbe avvenire; la previsione è per la primavera prossima, saremmo quindi a pochi mesi di distanza dal probabile inizio di una nuova guerra. Se si dovesse concretizzare anche il mancato accordo con la mancanza di comunicazione dell'attacco da parte di Tel Aviv a Washington, potrebbe aprirsi una nuova fase circa i rapporti tra i due stati, anche se su questa ipotesi pesa la variabile di chi sarà il prossimo Presidente degli Stati Uniti; in ogni caso appare poco probabile che gli USA abbandonino Israele, anche nel caso dell'attacco unilaterale, tuttavia se l'esercito a stelle e strisce sarà trascinato in una guerra controvoglia le conseguenze sui rapporti diplomatici non potranno non farsi sentire, andando a toccare gli equilibri regionali a sicuro svantaggio di Israele. Peraltro l'opinione pubblica israeliana è sempre più divisa sulla reale convenienza di bombardare gli impianti iraniani, gli scettici, tra cui si annovera il capo dell'esercito, temono le conseguenze per la popolazione civile, nell'immediato, e la difficile collocazione del paese sullo scenario internazionale, dopo un attacco militare non concordato non solo con i principali alleati ma neache sotto l'ombrello delle Nazioni Unite. La questione diplomatica internazionale, pare, infatti, l'ultima preoccupazione del governo israeliano di fronte all'argomento, che continua a farsi forte dei rapporti consolidati con gli USA, senza metterne in conto un probabile deterioramento. Chi propugna l'intervento unilaterale pare ragionare in preda al panico, in un certo modo giustificato, ma non pare soppesare adeguatamente le conseguenze pratiche di una tale azione. Nelle ragioni di chi propende all'intervento occorre però considerare che l'Iran sta avanzando nel suo programma nucleare, malgrado gli effetti delle sanzioni, ed uno o più ordigni atomici in mano ad Ahmadinejad, costituiscono un pericolo immediato per Israele ma che possono essere anche un fattore di condizionamento geopolitico per altri stati, tra cui paesi come l'Arabia Saudita, tradizionale avversario nelle dispute religiose con Teheran. Vedendo la questione da questa angolazione, pur non giustificando la soluzione militare, appare chiaro come sia necessaria una azione che oltrepassi la responsabilità assunta dall'amministrazione Obama, di essere il catalizzatore della pratica delle sanzioni economiche contro l'Iran. Quello che manca è la concreta assunzione di responsabilità di un soggetto sopra le parti come dovrebbero essere le Nazioni Unite, anche se i veti incrociati di Cina e Russia, pongono chiaramente dei freni a questa soluzione. Tuttavia se si verificasse un conflitto di tale portata, sarebbe ai confini dei due colossi, oltre alle ovvie ricadute economiche in un momento in cui la congiuntura appare sfavorevole per il mondo intero. Resta quindi poco tempo per evitare una deriva la cui pericolosità non è circoscritta alla regione e che soltanto una incessante opera diplomatica unitaria può scongiurare.

giovedì 2 febbraio 2012

Perchè la creazione dello stato palestinese può diventare realtà

L'ONU sembra riportare al centro della propria azione la questione tra Israeliani e Palestinesi. La missione programmata da Ban Ki-Moon, porterà il Segretario delle Nazioni Unite in una giro diplomatico che dalla Giordania lo porterà in Cisgiordania, striscia di Gaza ed infine Israele. L'intenzione della massima autorità dell'ONU è quella di fare ripartire i negoziati per raggiungere l'ambizioso obiettivo di un accordo entro l'anno che preveda, finalmente, la costituzione di due stati sovrani separati. La soluzione è caldeggiata anche dal Quartetto (USA, UE, ONU e Russia), che spinge per la definizione della questione. Ma le possibilità di vedere concretizzarsi il successo del piano si scontrano con la mancata ripresa del dialogo tra le due parti, che sono state invitate da Ban Ki-Moon ad evitare possibili provocazioni che possano pregiudicare il corso delle trattative, che dovranno trovare un terreno di reciproca fiducia. L'esposizione in prima persona del Segretario dell'ONU, che sarà impegnato in una fitta agenda di incontri con le più alte personalità sia palestinesi, che israeliane, intende dare un nuovo impulso ai colloqui tra le due parti, al momento arenate per la questione della politica degli insediamenti dei coloni nei territori della Cisgiordania e di Gerusalemme Est, praticata dal governo israeliano.
In questo senso anche il Partito di maggioranza del Likud, ha espresso una chiara indicazione, confermando Netanyahu alla guida del partito, durante le primarie con il 74% dei voti, nei confronti del rappresentante dei coloni Moshe Feiglin, che ha riscosso soltanto il 24% dei consensi. Questo risultato, pur inquadrato in una formazione di destra, come è quella del partito al potere, fornisce un chiaro segnale alla dirigenza del Likud, auspicando la fine o almeno la diminuzione della pratica degli insediamenti come strumento per accedere al tavolo delle trattative. Peraltro questa tendenza è ormai consolidata tra gli israeliani meno moderati e che in genere si riconoscono nei partiti all'opposizione e che spingono per la soluzione propugnata dall'ONU, cioè quella dei due stati indipendenti. Sulle ragioni di questa accelerata data dalle Nazioni Unite per il compimento del processo di pace occorre fare alcune riflessioni. Sulla necessità del raggiungimento delle finalità del progetto spingono molto gli Stati Uniti, che hanno la necessità di trovare la regione pacificata e con i due stati ben definiti al momento di un'eventuale scoppio di un conflitto con l'Iran. Garantire la neutralità dello stato palestinese, ancor prima che un'esigenza tattica è una condizione politica essenziale per delegittimare da qualsiasi auto proclamazione di esercito di liberazione dei territori arabi, Teheran. Tolta questa giustificazione, capace di portare alla mobilitazione gruppi estremisti, ma anche nazioni, capaci anche solo di fornire appoggio diplomatico all'Iran, la Repubblica Islamica si troverebbe ancora più isolata, sul panorama internazionale ed praticamente incapace di sferrare con i suoi missili l'attacco ad Israele, per le conseguenze, anche politiche che ne deriverebbero. Del resto i tempi stretti che Ban Ki-Moon vuole percorrere per la creazione dei due stati, sembrano essere studiati apposta per arrivare prima del compimento dell'atomica iraniana, che nella migliore delle ipotesi è data per certa in tre anni, ma che i progressi acquisti dai tecnici nucleari di Teheran potrebbero riuscire ad approntare prima. Con la creazione dello stato Palestinese e la praticamente certa pacificazione della regione, per Washington ci sarebbe anche maggiore libertà di manovra per un attacco preventivo, soluzione su cui Israele spinge da tempo. Ma politicamente è ben diverso scegliere una soluzione del genere senza più il problema palestinese sullo scenario internazionale. Questa ragione potrebbe così andare a costituire un ottimo motivo per anche per Israele per accelerare il processo di pace, giacchè in questo momento la minaccia iraniana appare molto più al centro dell'attenzione del governo di Tel Aviv. In definitiva se questo scenario dovesse avverarsi per Ahmadinejad, sarebbe il fallimento politico e diplomatico totale, quindi il pericolo maggiore a questo punto consiste nell'attuazione di attentati contro cose e persone israeliane compiute dai servizi iraniani e fatti ricadere sui palestinesi per bloccare la nuova partenza delle trattative.

mercoledì 1 febbraio 2012

Pericolo terrorismo per gli USA alla vigilia delle presidenziali

Per gli Stati Uniti, che stanno entrando nel pieno della campagna elettorale, si aprono due problemi non poco rilevanti sul tema del terrorismo, che se andassero ad intrecciarsi, potrebbero portare problemi di elevato livello per la sicurezza nazionale. Il primo aggrava i rapporti tra USA e Pakistan, dopo che la stampa britannica ha divulgato un rapporto confidenziale della NATO, dove si accusa esplicitamente Islamabad di fornire aiuto ai talebani afghani. Il fatto in se stesso non rappresenta una grossa novità, nei rapporti tra i due stati, che si sono più volte accusati di reciproche scorrettezze militari e che hanno visto il deteriorarsi delle relazioni diplomatiche, malgrado i tentativi, più volte praticati, da ambo le parti di ricucire la situazione. In questo quadro il dossier della NATO, che non aggiunge nulla di particolarmente rilevante alla situazione in essere, rappresenta solo un pretesto per il governo pachistano per riscaldare gli animi, parlando di una inutile ingerenza negli affari interni di uno stato straniero. Il rapporto in effetti ha nelle sue conclusioni più rilevanti l'accusa diretta al servizio segreto pachistano di fornire aiuto materiale ai talebani che hanno le basi al confine afghano. Ma anzichè smentire con una politica di contrasto degli estremisti islamici, il governo pachistano si limita a patetiche lamentele diplomatiche, che non fanno altro che aumentare la confusione dei fatti in divenire. La realtà è che quello che dice il rapporto dell'Alleanza atlantica, oltre che essere vero è risaputo, ed è il punto focale che determina l'incertezza tra i due paesi, in una fase di stallo del conflitto afghano, dove gli USA avrebbero necessità di una accelerata, per una definizione che possa portare ad eventuali trattative, Washington da almeno punti di forza maggiormente consolidati. Sul perchè Islamabad a parole continui a definirsi un sincero alleato degli americani le ragioni sono diverse, ma prima fra tutte è il mancato controllo effettivo del territorio al confine con Kabul da parte degli organismi centrali, a cui va aggiunta una considerevole fetta del paese che non vede di buon occhio l'alleanza con gli USA. In queste zone grigie si muovono probabilemente fasce deviate dei servizi segreti che fanno il doppio gioco, sia per interessi economici, sia per assicurare alla capitale del paese ed ai suoi gruppi dirigenti, un certo grado di salvaguardia da attentati possibili da parte di elementi talebani. Considerare il Pachistan nel suo complesso un alleato affidabile è ormai un dato soltanto sulla carta per gli USA, che però non trovano o non possono fare altrimenti, un soggetto, non necessariamente rappresentato da una nazione, in grado di coprire questo buco strategico. Nonostante tutto gli USA cercano di salvare la faccia, anche per cercare di mantenere quei pochi rapporti definiti affidabili, ed hanno declassato il rapporto soltanto in una raccolta di commenti dei talebani catturati, che non rappresentano ufficialmente la posizione della NATO. Ma le difficoltà diplomatiche con il Pachistan rischiano di passare in secondo piano se confrontate con la sensazione dei servizi segreti USA, che considera possibile una campagna terroristica da lanciare in grande stile sul territorio americano da parte dell'Iran. L'ipotesi può essere plausibile visto che Teheran è ormai messa all'angolo dagli effetti delle sanzioni per il problema atomico e ritiene Washington, oltre che il responsabile della situazione, anche più facilmente vulnerabile rispetto ad Israele. Il regime iraniano vedrebbe questa possibilità come la risposta concreta più praticabile in risposta all'atteggiamento americano, non potendo sostenere un confronto in campo aperto con le forze USA, sia per mare con il più volte minacciato blocco di Hormuz, ne con l'eventuale bombardamento di Israele, di cui evidentemente teme la risposta militare. A questo punto scartate le opzioni di cui sopra, una tattica di guerriglia da condurre sul suolo americano diventerebbe l'unica via praticabile, sia dal punto di vista logistico che economico. La minaccia è ritenuta concreta ed è qui che si potrebbe verificare una saldatura, a livello operativo, visto che già esiste a livello diplomatico informale, tra Teheran, i Talebani e quei settori deviati dei servizi segreti pachistani che vedono la presenza USA ai loro confini come una vera e propria forza di occupazione, che, tra l'altro, ha più volte operato sul territorio di Islamabad con sconfinamenti non autorizzati, il cui esempio più eclatante è l'operazione legata all'eliminazione fisica di Osama Bin Laden. Il momento della campagna elettorale, per le presidenziali americane, rappresenterebbe un palcoscenico di maggior rilevanza mediatica per colpire gli USA al loro interno, andando ad indebolire il riconquistato senso di sicurezza degli americani e gettando nel caos una nazione divisa nelle fazioni in lotta per la più alta carica del paese.