Politica Internazionale

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martedì 31 luglio 2012

Il Venezuela entra nel Mercosur

L'ingresso del Venezuela nel Mercato comune del Sud America rappresenta una novità molto rilevante non solo dal punto di vista economico, ma sopratutto politico. L'attuale stato di salute dell'organizzazione latino americana, fondata per favorire il libero scambio e promuovere una politica tariffaria comune nei paesi aderenti, non sta attraversando un buon periodo a causa dei contrasti nati tra Argentina e Brasile, per le restrizioni protezionistiche inserite per salvaguardare il proprio mercato interno dalla presidente Kirchner, che danneggiano principalmente Brasilia. In effetti dalla sua fondazione, il Mercato comune del Sud America, avvenuta nel 1991, non ha compiuto sostanziali progressi, se non una timida apertura dei confini per le tariffe delle merci, ben lontano, quindi, dal principale scopo fondativo che era la creazione effettiva di un mercato comune tra i paesi aderenti. Una delle principali ragioni è stata individuata nella pesante differenza che contraddistingue la capacità produttiva dei paesi membri, fortemente squilibrata a favore del Brasile, capace di produrre il 77% del totale delle merci. Questa asimmetria ha favorito una cultura protezionistica delle nazioni aderenti, che non ha mai fatto decollare il progetto iniziale. Inoltre, la distanza politica tra i vari governi non ha mai permesso una comunione di intenti, anche solo di base, che potesse permettere all'organizzazione sovranazionale di spiccare il salto di qualità verso una unione più completa. L'arrivo del Venezuela guidato da Chavez, dovrebbe rappresentare una svolta, sopratutto politica per l'organizzazione, che probabilmente lavorerà per dare un maggior peso specifico nell'arena internazionale. Non è un mistero che proprio il Brasile, uno dei principali paesi emergenti, abbia più volte cercato di assumere una posizione più indipendente nel panorama internazionale, quasi di equidistanza dalle principali potenze USA e Cina. Pur avendo una capacità produttiva notevole e quindi una grande potenza economica, il Brasile non è mai riuscito a diventare il protagonista che intendeva essere, malgrado il brillante governo di Lula, capace di imprimere una svolta determinante al paese. Non appare quindi inverosimile che Dilma Rousseff, cerchi una via alternativa, che coinvolga e dia lustro all'Organizzazione che vuole rappresentare il Mercato comune del Sud America. Del resto accogliere il Venezuela, vuole dire sottoscrivere un programma già ampiamente delineato: Chavez ha espresso più volte la sua contrarietà alla politica statunitense ed è entrato in relazioni ufficiali con stati ritenuti molto pericolosi, come l'Iran. L'impressione è che, a rimorchio delle intenzioni brasiliane, un poco tutto il sud america, quindi anche la stessa Argentina, stia cercando una via autonoma, che permetta alla regione di assumere un ruolo indipendente e sopratutto sganciato dall'influenza di Washington. Ma questo significherà anche sapere limitare gli eccessi del presidente venezuelano, sempre a rischio di incidente diplomatico. La focalizzazione del punto di vista politico, rischia di sminuire quello economico, che, viceversa ha delle implicazioni altrettanto notevoli. Quello che si apre può essere un periodo di grande opportunità e sviluppo per tutta la regione, ricca di materie prime, ma povera ancora di conoscenza. Se però gli scopi del mercato comune dovessero affermarsi, sotto la spinta delle necessità politiche, quello che potrebbe formarsi sarebbe un gigante economico in grado di combattere a qualunque livello contro qualunque avversario. E' finora troppo presto per prevedere quali potranno essere gli sviluppi per una organizzazione che finora è stata praticamente in sonno, ma se l'impulso dell'ingresso del nuovo membro dovesse riuscire a smuovere la situazione, l'ingresso di un nuovo soggetto, molto importante, sulla scena internazionale sarebbe praticamente certo. Sicuramente sia gli USA, che la Cina, ed anche la UE, seguiranno attentamente gli sviluppi di una vicenda in grado di spostare gli equilibri attuali, sia economici che politici.

Obama chiede maggiore impegno ai governi europei

La rielezione di Obama potrebbe passare anche attraverso la ripresa europea. E' questo, infatti, il significato dell'esortazione ai leader dell'area euro da parte del Presidente degli Stati Uniti. Barack Obama ha espresso fiducia nella ripresa europea, ma, allo stesso tempo, ha chiesto ai governi del vecchio continente di adottare una azione decisiva per la risoluzione della crisi. La ripresa dell'economia statunitense è infatti legata all'andamento della crisi europea, che rimane il principale mercato, perchè comunque è anche il più ricco, per le merci USA. L'amministrazione di Washington ha sottolineato più volte come sia tanto il tempo investito con i governi europei per uscire anzitempo dalla crisi. La pressione che Obama mette sull'Europa è giustificata da personali necessità contingenti: il progressivo avvicinarsi delle elezioni impone un cambio di passo all'attività presidenziale volta a scongiurare quella che è la principale preoccupazione dell'elettorato americano. Infatti mai come nelle prossime elezioni l'argomento della crisi economica e delle possibilità di uscirne sarà centrale e determinante. Ancor più che la politica estera conteranno le ricette che i candidati sottoporranno agli elettori; ma se lo sfidante Romney ha già fatto ampia professione per un ritorno al più sfrenato liberalismo, come unico e risolutivo ingrediente, la posizione di Obama è più articolata. La volontà di introdurre una tassazione per i più ricchi, in modo da favorire una redistribuzione del reddito ed una maggiore collaborazione con l'Europa, per concordare strategie comuni, giunte alla volontà di una limitazione degli abusi della finanza, fanno del programma economico del presidente uscente una linea maggiormente in sintonia con la necessità di regolare, come è stato da più parti avvertito, il settore economico finanziario, per eliminare quelle contro indicazioni eccessivamente liberiste, che tanti danni hanno fatto. Semmai si può appuntare ad Obama una scarsa azione precedente e preventiva. E' pur vero che gran parte della sua legislatura è stata segnata da una coabitazione con un parlamento sfavorevole, che ne ha limitato l'azione in maniera sostanziale, tuttavia anche i soli interventi in sede non istituzionale, sono sempre stati troppo timidi nei confronti dell'azione della finanza. Se l'appello ai governanti europei è giusto e condivisibile nella sostanza, meno lo è se si considera da quale pulpito provenga. La responsabilità americana, cioè di parte del paese statunitense, nella creazione delle tante bolle che hanno influenzato l'economia mondiale in maniera totalmente negativa, imporrebbe anche una presa di responsabilità, che non si avverte, o non si avverte abbastanza, dal presidente americano uscente. E ciò è più grave se si pensa a quanto pareva delinearsi attraverso la sua elezione. Non soltano la maggioranza degli americani, ma anche degli europei, probabilmente, insieme alle richieste di assunzione di manovre efficaci, dirette ai governi europei, vorrebbe anche parole di rassicurazione sulla effettiva volontà di regolare la finanza una volta per tutte, come strumento attraverso il quale generare sviluppo e non mero mezzo fine a se stesso per generare immensi guadagni per pochi individui.

lunedì 30 luglio 2012

Il futuro delle medie potenze

Con la rapida evoluzione della politica internazionale, giunta alla crescente crisi economica, che determina una riduzione delle risorse, sopratutto verso il settore militare, vi sono un ampio numero di paesi, che rientrano nella definizione di media potenza, che devono interrogarsi sul loro ruolo nel teatro della relazioni internazionali. La difficoltà crescente di assicurare alle grandi potenze il necessario appoggio militare per operazioni su vasta scala, impone la ricerca di soluzioni alternative, che consentano comunque quella necessaria presenza per assolvere i propri compiti, nell'ambito delle politiche estere elaborate. La necessità di una presenza militare, ancorchè mitigata, resta un punto fisso nella strategia delle relazioni diplomatiche, per dovere inteso come contributo ad operazioni sia di pace che di anti terrorismo, dunque ricomprese in quadri più ampi della singola visione nazionale, elemento fondamentale della cooperazione tra gli stati. Tuttavia l'uso del mezzo di dissuasione militare rientra in un concetto tutt'altro che preventivo della gestione della situazione internazionale. Una riduzione delle operazioni militari non può che essere attuata con programmi che prevengano questa necessità. Si deve cioè investire maggiormente nella cooperazione internazionale con programmi mirati a consentire che lo sviluppo locale raggiunga un grado tale da soddisfare i bisogni primari in maniera completa. Non si tratta del solo problema alimentare, ma anche quello sanitario e scolastico, che non possono essere disgiunti per potere affrontare la sfida della crescita. In quest'ottica anche la formazione tecnica e specialistica, va vista come stadio ulteriore. Questa via, se intrapresa, potrebbe diventare appannaggio di quei paesi che si definiscono medie potenze, in una divisione di compiti con le grandi potenze a cui andrebbero i maggiori oneri militari. Questo ruolo non andrebbe visto, ne percepito come riduttivo, ma complementare a quello delle potenze maggiori. Del resto l'impegno richiesto e la capacità da mettere in campo richiedono comunque grossi sforzi e grande disponibilità sia economica che di conoscenze. Se la presenza militare ha garantito spesso anche un investimento per un ritorno di tipo commerciale, anche la cooperazione internazionale può ricomprendere aspetti che vadano aldilà della azione caritatevole. Intanto consentire una stanzialità ai popoli che sono spesso protagonisti di fenomeni migratori, significa bloccare sul nascere una problematica che investe una miriade di implicazioni, che vanno dal traffico umano, a quello di armi ed a quello della droga. E poi sulla base della cooperazione si può trovare intese per le aziende del paese impegnato per la costruzione delle necessarie infrastrutture. Un'altra via da seguire è l'impegno diplomatico come mediazione in quelle zone del mondo dove vi sono conflitti che non vedono soluzioni di uscita. Una efficace azione diplomatica che abbia come centro la ricerca di soluzioni alternative al confronto militare, rappresenta una efficace chiave di accesso a posizioni importanti nel teatro internazionale. Queste soluzioni non sono rivoluzionarie, perchè, in parte, già attuate, ma quella che dovrebbe cambiare è l'intensità dell'investimento sia politico che economico, per bilanciare il disimpegno militare. Questo argomento potrà suscitare, se attuato, un dibattito anche forte: i sostenitori delle missioni militari sono molteplici perchè ricomprendono interessi diversi, il primo tra i quali è quello squisitamente economico. Se si abbraccia una riorganizzazione delle forze armate più orientata ad essere difensiva del territorio nazionale e, quindi non più capace di affrontare teatri di guerra lontani, si riduce drasticamente l'investimento in mezzi e materiali, provocando proteste, magari mascherate da falso nazionalismo. In realtà un disimpegno totale delle forze armate delle medie potenze è impossibile, ma una razionalizzazione dell'impiego è auspicabile, attraverso il privilegio della specializzazione spinta e dell'uso sempre più massiccio dell'intelligence. Si possono poi immaginare alleanze alternative, ma non contrarie, alle grandi organizzazioni internazionali, per favorire progetti di comune interesse, anche tra nazioni solitamente lontane, in modo da creare polarità sempre nuove nel panorama internazionale. Il fine delle medie potenze deve essere quello di non perdere importanza sullo scacchiere internazionale, ma mantenere ed anche aumentare il loro peso, attraverso modalità alternative all'uso del mezzo militare, anche in un'ottica di diventare paesi portatori di pace.

giovedì 26 luglio 2012

La fine del liberalismo e la necessità di una maggiore presenza dello stato

L'affermazione dell'ex Chief Excutive Operations di Citygroup Sandy Weill costituisce una pietra tombale sugli eccessi del liberismo, incarnato dall'eccessivo uso dello strumento finanziario. Weill dice espressamente che le banche di investimento devono essere separate funzionalmente dagli istituti che svolgono un ruolo puramente bancario. Dietro questo tecnicismo vi è l'ammissione del fallimento totale dell'evoluzione del sistema bancario degli ultimi venti anni. La conseguenza è la presa d'atto della profonda ingiustizia del metodo di scaricare sulla totalità dei contribuenti, creando costi sociali enormi, il costo economico del salvataggio di istituti bancari autori di investimenti totalmente sbagliati, ma troppo grossi per essere lasciati fallire. Ciò implica la profonda distorsione del cosidetto pensiero liberale, oramai definito liberista con una accezione tutt'altro che positiva. Ampliando il discorso non si può che constatare che è fallita l'idea stessa di capitalismo, dove con tale definizione si intendeva la diffusione maggiore possibile delle opportunità e della ricchezza, ottenuta con metodi etici e corretti. Se il liberalismo partiva dagli assunti della limitazione del potere statale ed il contenimento delle regole, i cosidetti lacci e lacciuoli, per favorire la libertà dell'impresa economica, non si può non notare, che proprio questa assenza di regolamentazione, fortemente voluta, tra gli altri, da campioni politici come Reagan e la signora Thatcher, è la causa principale dell'attuale dissesto economico.
La bizzarra politica creditizia delle banche, che ha favorito più di una delle cosiddette bolle, l'entrata sul mercato di strumenti e prodotti finanziari poco trasparenti, che hanno alterato l'effettivo valore delle industrie e del lavoro, la pesante commistione con parti consistenti di pezzi di politica profondamente corrotta, favorita dalla mancanza di legislazione, sono stati il terreno di coltura che ha permesso la più completa sovversione del comparto finanziario, che ha completamente alterato i suoi compiti originari, di strumento di sviluppo e crescita fino alla trasformazione in mostro economico, sempre più affamato di capitali da distruggere. L'avere assunto una sua fisionomia slegata dal mondo reale ha generato un comparto che da utile e funzionale allo sviluppo economico è diventato, nel percorrere i suoi nuovi obiettivi, il principale responsabile del degrado economico. Ciò ha favorito eccessi e controsensi, purtroppo numerosi, troppo spesso rappresentati dalla chiusura di fabbriche ed industrie produttive, a cui veniva levato l'ossigeno del credito soltanto perchè il guadagno ricavato era ritenuto troppo basso. Si è preferito speculare su investimenti volatili che hanno alterato la forma stessa dei tessuti sociali di comunità intere, spesso impoverite da operazioni avventate e fallimentari. Emarginando lo stato al mero ruolo notarile, la politica si è, nei casi migliori, appiattita su di uno stato di cose tutte giustificate dal feticcio del libero mercato, mentre, nei casi peggiori, ne è stata complice incamerando guadagni gestiti con leggerezza e sfacciataggine. Ora la necessità di imporre una ferrea regolamentazione a tutto il settore è improcrastinabile, la società europea, vittima di tasse e tagli, per ripianare debiti i cui responsabili, non solo non sono stati puniti, ma che sono stati liquidati con importi milionari, rischia di esplodere. Ma non si tratta soltanto di elaborare una nuova impostazione legislativa, quello che deve cambiare è anche l'impostazione stessa dello stato, che deve tornare ad essere un guardiano attento per tutelare i suoi componenti con occhio vigile e mano ferma, che la sua funzione gli attribuisce. Bisogna cioè uscire da una situazione neo medioevale, dove la massa ha la dignità di sudditi anzichè di cittadini. Ristabilire poi la supremazia della politica in campo economico è necessario per togliere la supremazia della finanza sulla società, una supremazia distorta e non legittima nè legittimata se non da fiumi di denaro che non hanno costituito alcun beneficio generale.

In Siria esiste anche un problema curdo

Uno degli aspetti dei fatti di Siria, che non viene abbastanza considerato nel suo giusto valore, è la questione curda. Sul territorio siriano il 10% della popolazione è di etnia curda, che si concentra nelle zone settentrionali del paese, come già nel caso della caduta di Saddam Hussein in Iraq, anche la situazione di caos della Siria, favorisce le istanze autonomistiche a lungo agognate. Vi sono però delle differenze con le tendenze separatiste, che contraddistinguono i curdi della Turchia aderenti al Partito dei lavoratori del Kurdistan. Infatti i curdi siriani sono contrari allo smembramento del paese e propendono per una soluzione di maggiore autonomia, con una soluzione analoga a quella adottata proprio in Iraq, dove all'interno dell'apparato statale sono state previste condizioni particolari, che concedono, appunto, una maggiore libertà di gestione, anche nelle strutture amministrative ai territori dove la presenza curda è radicata. Nelle aree dei curdi della Siria la transizione del potere sta già avvenendo, grazie al lavoro preparatorio iniziato dalla fine dello scorso anno ad opera della sezione siriana del Partito dei lavoratori del Kurdistan, che ha optato per una passaggio di potere poco cruento. In effetti in queste zone la situazione è sempre stata più tranquilla, rispetto, ai teatri del paese dove lo scontro tra i sunniti ed il regime ha assunto dimensioni di vera e propria guerra. I distretti di di Qabaneh, di Afrin, di Amouda di Derika Hamko Girhelaghé sono così ora gestiti direttamente dai curdi, che sono in trattativa con le autorità governative anche per assumere il controllo nelle città di Qameshli, Ras al-Ain e Der Bassie. Le modalità sono improntate alla massima collaborazione con i vecchi funzionari legati al regime, che, in molti casi, sono stati richiamati al lavoro, in modo di garantire la continuità amministrativa, senza incorrere in un pericoloso vuoto di potere. Lo scopo finale è quello di creare un modello che consenta un autogoverno contraddistinto dalla democrazia, ma inquadrato all'interno dello stato siriano. Ma a queste legittime aspirazioni, che paiono improntate ad una volontà pacifica, vi sono essenzialmente due tipi di ostacoli, che potrebbero compromettere il progetto curdo e creare pericolose tensioni. La prima è la presenza nei territori curdi di tribù arabe, che controllano zone chiave per la presenza di giacimenti di gas e petrolio. Ciò ha provocato scontri tra curdi ed arabi, che rischiano di vanificare gli sforzi verso una soluzione pacifica. Su queste tensioni, poi, si è innestato il secondo grande ostacolo alla volontà di autonomia dei curdi siriani: la Turchia. L'Ankara non vede di buon occhio questa tendenza ad una autonomia curda, seppure mitigata all'interno dello stato siriano, perchè teme un aumento delle rivendicazioni dei curdi presenti in Turchia, proprio a causa dell'esempio di ciò che sta avvenendo in Siria. Il governo turco ha più volte, negli scorsi mesi , infranto il diritto internazionale, insieme con l'Iran, conducendo azioni militari sul territorio iraqeno, contro le milizie curde. Ciò rappresenta in modo chiaro e netto come Ankara si ponga di fronte alla questione curda. Infatti la Turchia ha iniziato ad ostacolare i progetti autonomisti dei curdi siriani facendo pressione sulle tribù arabe presenti nella zona, affinchè compiano azioni di disturbo contro la nuova amministrazione ed inoltre ha inviato un gran numero di profughi siriani di etnia araba, dai campi profughi turchi, proprio nei territori amministrati dai curdi, per sovvertire i numeri della percentuale degli abitanti.

I paesi arabi all'ONU contro Israele per gli insediamenti nei territori

I paesi arabi all'ONU hanno condannato ufficialmente la pratica israeliana di favorire gli insediamenti nella zona della West Bank. Il governo israeliano, alle prese con notevoli difficoltà di politica interna, persegue questa tattica per aumentare il proprio territorio, tramite insediamenti illegali in zone palestinesi. La mossa dei paesi arabi consiste nel richiedere una ispezione ufficiale alle Nazioni Unite per sancire l'illegalità di una situazione che rischia di diventare un argomento sostanzioso per azioni terroristiche e minare quindi il fragile equilibrio presente in Palestina. Inoltre l'azione israeliana è in palese violazione delle risoluzioni delle Nazioni Unite, che però non hanno fornito una risposta ufficiale alla richiesta araba. Ma i dati espongono chiaramente una situazione difficilmente ancora sostenibile: oltre 340.000 coloni vivono ormai stabilmente in Cisgiordania e circa 200.000 si sono insediati nei quartieri di Gerusalemme Est, praticamente annessa allo stato israeliano. Le risposte ufficiali del governo israeliano sembrano fatte per prendere tempo ed evitano accuratamente di affrontare esplicitamente l'argomento, riferendosi a generici richiami alla leadership palestinese a riprendere la via della pace attraverso negoziati diretti con Tel Aviv. La comunità internazionale giudica praticamente unanimemente l'illegalità e la pericolosità degli insediamenti, anche gli USA, i maggiori alleati di Israele, si dicono contrari al proseguimento di questa pratica. Tuttavia, per ora, non si è andati oltre dichiarazioni, che appaiono di facciata, perchè non vi è mai stato un seguito pratico. L'ampiezza che ha assunto il fenomeno ne denuncia anche la difficoltà di una soluzione, riportare indietro tutti i coloni, come dovrebbe essere fatto in base agli accordi vigenti, rappresenta aspetti pratici da non sottovalutare, sia per la reazione stessa di chi è soggetto attivo dell'occupazione, sia per le ripercussioni che tale eventuale disposizione potrebbe scatenare negli ambienti ortodossi, sempre più influenti nella compagine governativa. Ma la gravità della situazione rischia si esasperare troppo gli animi anche in casa palestinese, che, occorre sottolinearlo, è parte lesa nella vicenda. In una situazione regionale molto complicata come quella attuale, sarebbe saggio da parte di Israele, compiere degli adeguati passi indietro per evitare di dare motivi ad eventuali atti terroristici ed anche per uscire da un isolamento che si fa sempre più pressante, sopratutto per le mutate condizioni politiche dei paesi confinanti. La condanna dei paesi arabi agli insediamenti va letta anche come una modalità preventiva nello stesso interesse israeliano; quello che si percepisce, cioè, è di fornire addirittura una opportunità al governo di Tel Aviv, per costringerlo a dare qualche segnale importante che permetta una distensione necessaria al momento storico che gli assetti regionali stanno attraversando. L'Arabia Saudita ed il Qatar, sempre più protagonisti della politica internazionale, hanno la necessità di stabilizzare la regione in ottica anti Iran, ed hanno, quindi, tutto l'interesse che Teheran resti privo di argomenti, per non influenzare troppo diverse situazioni che si stanno presentando sempre più delicate. La questione siriana, il rapporto con gli Hezbollah e con Al Qaeda, costituiscono i sentieri attraverso i quali si muove la strategia della politica estera iraniana, che fa uso costante della leva anti israeliana, come collante della sua azione sia politica che diplomatica. Togliere legittimità agli argomenti di Teheran, significa per i paesi arabi alleati dell'occidente, l'elaborazione di una strategia che può rivelarsi efficace, sopratutto nella prevenzione di possibili conflitti. Sia l'ONU che i paesi occidentali, ma anche lo stesso Israele, dovrebbero valutare meglio questa possibilità che gli viene offerta, perchè, sopratutto, si sviluppa in ambito sovranazionale. Per Israele rinunciare a pezzi, anche consistenti di territorio strappato alla Palestina, potrebbe essere un investimento con un ritorno di gran lunga maggiore in ottica di pacificazione e risoluzione del problema palestinese.

mercoledì 25 luglio 2012

L'occidente e la Lega Araba pensano al dopo Assad

Il contrattacco portato avanti da Assad, tramite l'aviazione militare dimostra che il presidente siriano non intende cedere il potere. Tramontano così le ipotesi di transizione pacifica fin qui caldeggiate dalla Russia, come scusa per il non intervento sotto l'egida dell'ONU. Tuttavia l'atteggiamento di Mosca non pare subire variazioni e ciò impone all'occidente ed alla Lega Araba di organizzare una transizione politica, che viene data, forse troppo ottimisticamente, per imminente. Infatti l'eventuale caduta di Assad potrebbe provocare diverse conseguenze, che Stati Uniti, Francia, Regno Unito, Turchia, Arabia Saudita e Qatar, vogliono assolutamente evitare. Per prima cosa è necessario che non si verifichi un vuoto istituzionale, che lascerebbe il paese oltre che in preda al caos, anche alla possibilità di un intervento straniero, quello che si teme, cioè, è una iniziativa iraniana diretta a mantenere il controllo su di un territorio ritenuto da Teheran centrale nella propria strategia di politica estera. A tal fine le potenze occidentali e della Lega Araba sono orientate a favorire un governo, anche in esilio, di unità nazionale, che riunisca tutte le anime della ribellione, pronto a subentrare al potere immediatemente dopo la caduta di Assad. Tale governo dovrà assicurare l'integrità del territorio, condizione che viene considerata essenziale per l'equilibrio regionale, e dovrà essere slegato da influenze straniere che possano compromettere l'indipendenza del paese siriano. In realtà dovrà essere un governo che guarderà più ad occidente che ad oriente, facendo guadagnare la Siria alla causa occidentale, sopratutto in chiave anti Iran. Ma questo governo dovrà anche gestire la difficile situazione interna che si verrà a creare alla caduta di Assad. L'esperienza libica ha insegnato che la presenza delle milizie incontrollate ha creato e crea tuttora, diversi problemi al nuovo governo di Tripoli, costituendo un elemento di pericolosità per lo stesso esecutivo e la stabilità del paese. In Siria questo eventualità non si dovrà verificare per evitare azioni di disturbo di infiltrati e di milizie comunque favorevoli al regime come Hezbollah. Esiste poi il concreto problema della avversione della maggioranza della popolazione contro la comunità alawita, che comprende il 10% degli abitanti della Siria, a cui appartiene la famiglia di Assad e che ha, in questi anni, assorbito la quasi totalità dei posti di potere del paese. Quello che si vuole evitare sono i massacri su base religiosa, che si potrebbero innescare alla caduta del regime, che ha sempre protetto la minoranza religiosa alawita. Appare comunque difficile che questo ipotetico governo, forzatamente costruito e tutt'altro che unito, riesca ad assolvere a questi compiti essenziali, la frammentazione delle forze ribelli in Siria è stata, fino ad ora, un punto che ha facilitato l'azione del regime, nonostante le tante diserzioni subite, infatti, più che la reale forza militare, che resta un dato oggettivo, le truppe regolari hanno avuto davanti un avversario percorso al suo interno da profonde divisioni, che ne hanno impedito l'efficacia dell'azione militare, spesso per mancanza di coordinamento organizzativo. Se questa mancanza dovesse riproporsi anche a livello politico, la Siria rischia di precipitare in una spirale di violenza tipica delle guerre civili, che sarebbe il maggiore ostacolo alla ricostruzione del paese. Su queste basi e con queste premesse si concentra quindi il lavoro degli alleati occidentali per fare si che il paese siriano possa attraversare la fase di transizione con un minimo di garanzie interne, che possano assicurare stabilità al paese e di conseguenza a tutta l'area regionale, cruciale per il mantenimento della pace mondiale.

martedì 24 luglio 2012

La Cina si espande nel mare Cinese Meridionale

La Cina alza la tensione nel Mare Cinese Meridionale. Pechino ha infatti deciso di installare un presidio amministrativo nelle isole Paracel, contese con il Vietnam, dove, peraltro, è già presente un presidio della marina militare cinese. L'atto compiuto dalla Repubblica Popolare Cinese è da comprendere nella strategia del paese di nazionalizzare alcuni tratti di mare contesi con i vicini per ragioni strategico militari, economiche, per la presenza di giacimenti di idrocarburi ed infine commerciale per assicurare il passaggio delle grandi navi mercantili. Il risultato amministrativo è stato quello di creare la più piccola prefettura, Sansha, a livello di città cinese, che conta circa mille persone ed un territorio di 13 chilometri quadrati, ma che può contare su di una giurisdizione di circa due milioni quadrati di mare. Questa piccola città è stata costruita dai cinesi dopo il 1974, anno nel quale Pechino ha sottratto ad Hanoi, dopo uno scontro navale, il controllo dell'arcipelago. Con la creazione di una struttura amministrativa Pechino punta a soffocare eventuali ricorsi sulla sua sovranità, sopratutto delle acque circostanti, basati sulla consuetudine del diritto internazionale. Tuttavia il Vietnam ha protestato da subito contro questo provvedimento cinese e contro la crazione stessa della città di Sansha, perchè ritenuta illeggittima in quanto costruita su terre che Hanoi rivendica ancora la propria sovranità. Il fatto rischia così di aumentare la tensione tra i due paesi già alta proprio per la questione della sovranità sulle acque; la recente intensificazione dei rapporti tra Vietnam e Stati Uniti potrebbe rendere la zona uno dei nuovi fronti caldi del pianeta ed andarsi ad aggiungere nella regione, per questioni analoghe, ai casi spinosi già in corso tra Cina e Corea del Sud e tra Cina e Giappone. Ma la Cina ha intrapreso una linea che si basa sulla pratica del fatto compiuto: attraverso il controllo della pesca, su tratti di mare contesi, con pescherecci dotati di armamenti pesanti, percorre l'affermazione della propria sovranità politica. In quest'ottica il Mare Cinese Meridionale è stato dichiarato zona di interesse vitale, analogamente a Taiwan, Tibet e Xinjiang, il che fa capire espressamente quale siano le intenzioni e la volontà della Cina, che non lasciano spazio a trattative di sorta. Ma i casi di contrasto relativo a zone di mare ed isole contese sono destinati ad aumentare, le Isole Spratlys sono rivendicate anche da Filippine, Brunei, Malesia e Taiwan e non è esaurita la questione delle isole del sud del Giappone, nell'arcipelago di Senkaku in giapponese o Diaoyu in cinese, su cui aspira ad instaurare la sovranità anche Taiwan. Quello che rischia di innescarsi è uno stato di perenne allerta, anche a causa della accresciuta industrializzazione dei soggetti in campo, che hanno la necessità vitale di fare viaggiare più rapidamente possibile le loro merci. La situazione è continuamente monitorata dagli USA, che hanno stretto alleanze praticamente con tutti gli attori in campo, tranne che con la Cina, che diventa così il bersaglio dell'azione diplomatica statunitense nella regione. Idrocarburi a parte, il presidio delle vie di comunicazione marittime è ritenuto strategico da tutti i paesi coinvolti ed infatti Pechino non ha apprezzato l'intrusione americana, poichè Washington è l'unica potenza in grado di frenare le mire espansionistiche cinesi. Per il momento gli USA non hanno preso praticamente mai una posizione ufficiale di condanna delle strategia cinese, ma le alleanze che hanno stretto sono ancora più esplicite di un comunicato del ministero degli esteri. La questione è destinata ad una evoluzione di difficile previsione, perchè il confronto è soltanto all'inizio di una disputa che si annuncia molto lunga ed elaborata, probabilmente pare inevitabile che si giungerà a qualche incidente che obbligherà i vari attori regionali a sedersi ad un tavolo per trovare un assetto disciplinato e sicuro, per rispondere alla necessità di regolare questioni in sospeso ormai da troppo tempo.

Pericolo Siria per il Libano

La crisi siriana, oltre che per la propria intrinseca gravità, che abbraccia diversi aspetti, da quello morale a quello più strettamente geopolitico, ha nelle sue implicazioni, le conseguenze che potrebbe arrecare alla vicina nazione libanese, da sempre in bilico per le proprie tensioni interne. La ragione principale è una delle matrici del conflitto siriano, che è una caratteristica della zona medio orientale e cioè quella religiosa. Alla base della situazione della Siria, non vi è soltanto la ferrea dittatura di Assad, vista con la sola ottica della repressione dei diritti e dell'imposizione di uno stato tutt'altro che di diritto, ma anche la profonda rivalità ed avversione tra i sunniti e gli sciti, che nel caso siriano sono rappresentati dagli alawiti, la setta islamica che detiene il potere nel paese. Dietro questo confronto vi sono i paesi che fanno da riferimento alle due correnti islamiche: per i sunniti l'Arabia Saudita ed il Qatar, per gli sciti l'Iran. E' uno scontro che si ripete nella storia e che ha ripreso vigore da quando Teheran ha intrapreso una politica che mette al centro la strategia di diventare paese di riferimento, prima per gli sciti e poi come guida dell'Islam. La rivalità con l'Arabia Saudita non ha potuto che aumentare, aggravata dal fatto che Riyad, rappresenta il principale alleato americano della zona. Con l'aggravarsi della situazione questo confronto rischia di ripetersi in quella che viene indicata la zona immediatamente più delicata in prossimità delle frontiere siriane. Gli scontri e gli sconfinamenti di truppe sul territorio libanese testimoniano che questa preoccupazione è tutt'altro che infondata. L'instabilità dei confini del paese dei cedri e la presenza sul suo territorio di una nutrita rappresentanza di Hezbollah, estremisti islamici naturali alleati di Teheran, non fanno che completare il quadro di una situazione che diventa sempre più pericolosa. Quello che viene maggiormente temuto dagli osservatori internazionali, indipendenti e no, è il coinvolgimento del Libano nel conflitto siriano, per prossimità con Damasco e per i profondi legami che legano i due popoli, che aumentano le possibilità di replicare nella società libanese ciò che sta avvenendo in Siria. Questo comporterebbe il tanto temuto allargamento del conflitto fino alla soglia di Israele, con pericolose opportunità che l'Iran potrebbe prendere in considerazione. Anche perchè nell'ambiente degli hezbollah una caduta di Assad significherebbe un profondo ridimensionamento della visibilità e del peso del movimento, recuperabili solo con azioni da protagonisti contro lo stato israeliano. Se questo fa degli hezbollah un'arma in mano all'Iran, potenzialmente molto pericolosa, la circostanza è una delle spie della pericolosità della scarsa stabilità libanese, paradossalmente messa in crisi dalla possibile caduta del dittatore di Damasco. Secondo molti osservatori la diffusione del conflitto in Libano è probabile ancora prima di una eventuale caduta di Assad proprio per la ridotta superficie del paese, che non permette distanze di sicurezza tra le opposte fazioni. Se, infatti, una soluzione del conflitto siriano può essere la frantumazione del paese, in rispettive zone di competenza delle diverse fazioni in campo, di cui è composta l'opposizione al regime, particolarmente frammentata e divisa, nel Libano questo non è ritenuto possibile. Da non sottovalutare poi il ruolo di Al Qaeda, che ha adottato, dopo l'avvento delle primavere arabe, la strategia di infiltrarsi fin dentro le forze laiche e democratiche, per sfruttare questi canali ed inserire elementi di sovversione ulteriore destinati a complicare maggiormente la situazione. Con queste premesse la necessità di fermare la questione siriana diventa ancora più pressante, aldilà delle attuali gravi condizioni umanitarie, che rischiano di moltiplicarsi su di una scala più vasta e con ben altri attori coinvolti e conseguenze non solo limitate al suolo della Siria. Se il conflitto dovesse dilagare in Libano sarà molto più difficile fermarne il contagio anche ad altre zone della regione, con tutte le peggiori conseguenze del caso.

lunedì 23 luglio 2012

La crisi: occasione per cancellare i diritti

Le implicazioni della grande crisi economica che attraversa i paesi del sud europa ha imposto misure draconiane che hanno avuto l'immediato effetto di abbassare la qualità della vita delle popolazioni di questi paesi. La congiuntura particolarmente negativa è frutto di un concorso di cause, che riguardano in special modo, l'uso distorto dello strumento finanziario, con le banche principali indiziate del dissesto, e gli elevati debiti sovrani degli stati, frutto di imperizia e cattiva amministrazione continuata negli anni. Se non si può essere che d'accordo con la necessità di un aggiustamento dei conti, con il fine di favorire gli investimenti sulla parte sana dell'economia, in modo di stimolare una crescita invocata da più parti, quello che desta dubbi consistenti è la scelta degli strumenti per mettere riparo al dissesto economico. Anzichè puntare sui grandi patrimoni, con l'introduzione di patrimoniali che permettessero di alleggerire la tassazione del lavoro ed introdurre forme di tassazione sulle transazioni finanziarie, come la Tobin tax, in quest'ultimo caso con il doppio scopo di tassare dei guadagni ottenuti sempre al netto e di introdurre una forma sanzionatoria per il mondo finanziario, responsabile di gran parte dell'attuale situazione, si è preferito fare gravare il peso delle manovre economiche sulla maggior parte dei salariati introducendo nuove imposte ed aggravando quelle già esistenti, associandole ad un drastico taglio dei servizi, che va, quindi, ulteriormente a colpire lo stesso ceto sociale oggetto della maggiore tassazione. La percezione che lasciano queste manovre è di un intento punitivo, dietro il quale potrebbe leggersi una strategia più complessa della revisione totale dei diritti acquisiti in campo lavorativo e sociale per la parte numericamente più consistente della società nel suo complesso. L'esempio greco risulta essere illuminante se letto con questa logica: riduzione drastica degli stipendi, senza contrattazione sindacale, tagli al sistema sociale in settori particolarmente delicati come l'assistenza e la sanità e conseguente impoverimento, per decreto, della popolazione. Anche in Spagna ed in Italia, sebbene in forme più attenuate, ma sempre dure, rispetto al paese ellenico, si sono o si stanno attuando gravi tagli imposti esclusivamente dall'alto, eliminando percorsi di scelta condivisa. Quello che viene messo in piedi è un sistema di governo imposto dall'economia e non dalla politica, dove spesso chi detta queste regole proviene dagli stessi ambienti che hanno provocato il disastro. E' la stessa logica che attribuisce importanza ai giudizi degli istituti di rating, che giudicavano positivamente titoli che hanno contribuito a determinare la crisi economica. Il pagamento delle tasse serve a fornire servizi, non per ripianare debiti contratti da soggetti privati. Il caso delle banche spagnole è il chiaro esempio di come fare ricadere sulla collettività il costo di scelte sbagliate compiute da istituti privati, che dovrebbero fallire come qualunque altra azienda non più produttiva. Questa violazione del patto sociale tra stato e cittadini può costituire un pericoloso precedente, come quello della cancellazione arbitraria di alcuni diritti giustificata dalla necessità di porre rimedio allo stato di crisi. La creazione, quindi, di questi precedenti sovverte la logica dei rapporti tra lo stato e di alcuni suoi componenti, più deboli nelle trattative ancorchè numericamente maggiori, perchè adotta, facendole scendere dall'alto, scelte che variano la modalità del dialogo con le istituzioni finora vigente. Non è un caso che uno degli effetti rilevati da subito è stato l'aumento della diseguaglianza sociale, materializzatosi con l'aumento del divario tra i pochi ricchi, che spesso detengono percentuali altissime della ricchezza complessiva del paese, e la gran parte dei cittadini, che vedono ridursi drasticamente il reddito a loro disposizione. Questi segnali fanno sospettare che la presenza della crisi economica sia usata in modo strumentale per rivedere l'intero complesso del sistema dei diritti, specialmente quelli inerenti al lavoro, per promuovere una radicale revisione a favore di settori economici particolarmente attivi in questa dinamica. Questi aspetti sono favoriti in Europa dal vuoto della politica in ambito comunitario, infatti anzichè procedere da una unione politica, da cui fare discendere quella economica, si sta procedendo in senso inverso, con il settore economico, che riempiendo l'assenza della politica, ne ricopre anche le funzioni. Ma l'ottica dell'economia non è la stessa della politica e quello che privilegia è ben diverso da chi avrebbe o dovrebbe avere una visione più complessiva tale da salvaguardare diritti faticosamente conquistati.

venerdì 20 luglio 2012

La situazione somala resta difficile

Ad un anno di distanza dalla dichiarazione dello stato di carestia in Somalia, da parte delle Nazioni Unite, la situazione nel paese africano resta sempre molto grave. Secondo l'Alto Commissariato per i rifugiati, sarebbero oltre un milione i somali in esilio, ed il numero, nell'ultimo anno, ha avuto un notevole incremento. Le condizioni atmosferiche, segnate dalla mancanza di pioggia, hanno causato un ritardo nella raccolta dei prodotti agricoli, che, peraltro, si annuncia minore nel quantitativo, rispetto alla già scarsa dello scorso anno. L'effetto immediato è una penuria di generi alimentari, che per di più, subiscono un aumento dei prezzi, tale da generare una nuova carestia. Già nello scorso anno la siccità aveva colpito duramente il paese, provocando esodi massicci di persone in cerca di cibo, quella attesa è quindi una situazione che, inevitabilmente, aggraverà la situazione somala ed anche quella del Kenya, principale destinazione dei profughi. Le condizioni sono, infatti, particolarmente critiche a Dadaab, uno dei campi profughi più grandi del mondo, distante circa 100 chilometri dalla frontiera tra il Kenya e la Somalia. Ufficialmente questo campo profughi ospita 463.000 persone, ma calcoli ufficiosi parlano di 630.000 persone, nello scorso anno gli arrivi giornalieri, sono stati in media di 1.000 persone al giorno, ma nei periodi più critici della carestia la cifra è stata abbondantemente superata, con 40.000 arrivi mensili a Luglio e 38.000 ad Agosto. Ma sulla Somalia grava anche la difficile situazione politica, per la presenza del gruppo integralista islamico di Al Shabab, vicino ad Al Qaeda, che ha spesso interferito sugli aiuti alimentari da parte dell'ONU, non graditi perchè di provenienza occidentale. Il primo ministro somalo Ali Mohammed Abdiweli aveva già annunciato a Giugno, una offensiva militare, prevista per Agosto, sulla città di Kismaayo, situata nella regione del Basso Giuba, relativamente vicina al Kenya, base operativa dei ribelli di Al Shabab. Questa eventualità, resa necessaria dalla continua intraprendenza dei ribelli islamici e sollecitata dallo stesso Kenya, in seguito ai ripetuti sconfinamenti in territorio kenyota delle azioni militari dei miliziani di Al Shabab, rischia di essere una aggravante sulla situazione alimentare della Somalia, perchè potrebbe impedire o almeno rendere più difficili, gli aiuti alimentari portati dalle organizzazioni internazionali. Proprio su questo argomento è necessaria una revisione dell'atteggiamento delle potenze mondiali e dell'ONU, che si sono limitate, fino ad ora, a portare soltanto aiuti di emergenza senza organizzare una adeguata programmazione capace di comprendere più livelli per scongiurare l'emergenza somala. E' necessaria una prima forma di aiuto militare che permetta al governo somalo di liberare il proprio territorio da forze che ne impediscono la stabilità e quindi la capacità di affrontare il problema alimentare con un efficace programma basato sulla autosufficienza. Il problema somalo non è meno grave di quello libico o di quello siriano, soltanto perchè la regione non è strategica o non possiede risorse tali da muovere le forze occidentali. Lo stesso Kenya va aiutato perchè fino ad ora si è fatto carico di un problema enorme per le proprie risorse, la presenza del fondamentalismo islamico è comunque pericolosa anche se confinata nel territorio della frontiera somalo keniota.

giovedì 19 luglio 2012

Israele sempre più provocato

Il grave attentato contro i turisti israeliani compiuto in Bulgaria, costituisce un ulteriore elemento di di destabilizzazione della già precaria situazione in cui risulta essere la pace mondiale. Per Tel Aviv la responsabilità è iraniana, Teheran sarebbe stato individuato come l'organizzatore di una rete terroristica che comprende, oltre allo stesso stato iraniano, gli Hezbollah, Hamas ed anche Al Qaeda. Se ciò fosse dimostrato saremmo di fronte ad un disegno complesso la cui vera finalità sarebbe di mettere in discussione gli attuali equilibri mondiali. In realtà i sospetti su quello che dice Israele non sono nuovi, l'azione di Teheran da tempo si concentra sulla distruzione dello stato ebraico e diversi attentati, le cui vittime erano personalità israeliane, dimostrerebbero legami comuni. L'Iran ha da tempo messo al centro della propria politica estera l'annientamento di Israele, come fattore aggregante di una comunità più vasta di soggetti, che si richiamano anche espressamente all'anti americanismo, questo collante, nelle intenzioni di Teheran, dovrebbe permettere al paese di guadagnare una sorta di leadership su di un insieme di medie e piccole potenze, caratterizzate principalmente dalla forte connotazione islamica radicale ed, in seconda battuta, da sentimenti contrari alla bandiera a stelle e strisce. L'uso del terrorismo è soltanto una parte della strategia di Teheran, che si avvale anche di strumenti quali finanziamenti verso terzi e, sopratutto, l'allacciamento di una vasta rete di rapporti internazionali con scopi principalmente commerciali, che si sono andati intensificando, dopo che il paese è stato sottoposto alle sanzioni economiche per la ricerca nucleare, dietro cui ci sarebbe la volontà di costruire l'ordigno atomico. Pur mantenendo una condotta pericolosa, l'impressione che Teheran ha sempre alimentato è stata quella di avvicinarsi al punto di rottura senza mai raggiungerlo, le provocazioni, talvolta molto pesanti e pericolose, non hanno mai raggiunto livelli tali da provocare una risposta, che non fosse ferma ma sempre pacifica. L'innalzamento esponenziale della tensione dovuta al problema atomico, ha però variato di molto la situazione: Israele è costantemente in allerta, ed i contrasti profondi nel proprio tessuto sociale, tra chi è favorevole ad un intervento preventivo e chi è contrario, hanno prodotto lacerazioni significative. Per ora grazie agli USA, la soluzione bellica è stata scongiurata, ma le continue provocazioni sollevano considerevoli dubbi su quanto possa continuare questa situazione. Israele si considera vittima di vari attentati operati a danno di diverse comunità ebraiche sparse nel mondo, in particolare in Kenya, Thailandia, Azerbaijan, Turchia, Grecia, Georgia e Cipro, e questo contribuisce ad innalzare un livello di tensione già pericolosamente vicino al punto critico. Con l'attentato in Bulgaria, gli autori paiono volere ridurre le possibilità di evitare una rappresaglia, avvicinando sempre di più Israele alla decisione di intraprendere una risposta di tipo bellico. Su quali possano essere le ragioni di esprimere una volontà così decisa a provocare un paese già sull'orlo di una crisi di nervi, è opportuno fare delle considerazioni. Se l'attentato è opera, come indicato dal governo di Tel Aviv, diretta od indiretta di Teheran, allora sembrerebbe evidente l'intenzione di provocare una reazione israeliana, per trascinare in un teatro bellico anche gli Stati Uniti. Una ragione potrebbe essere per consentire in qualche modo all'Iran di mantenere il controllo della Siria, tuttavia tale risultato non pare giustificare il tributo di sangue a cui i bombardamenti di Israele sotto porrebbero la teocrazia islamica. Un'altra ipotesi è favorire un governo di falchi, che condanni lo stato israeliano ad un isolamento internazionale a causa di una azione oltre il limite consentito dal pensare comune. Ma anche per questa eventualità i danni che per l'Iran potrebbero prefigurarsi potrebbero essere contro producenti anche sul piano politico, andando a favorire le forze di opposizione interna. Mettendo a bilancio tutte le possibilità pare obiettivamente difficile che all'Iran sia conveniente essere vittima di una rappresaglia israeliana, infatti pur non essendo quella iraniana una forza armata debole, pare difficile una capacità di opporsi alla potenza di fuoco di Tel Aviv, tale da garantire una adeguata difesa del proprio territorio. Se questo è vero, Tel Aviv potrebbe avere elaborato una teoria, almeno in parte errata, nel senso che l'Iran è stato effettivamente dietro a varie manovre terroristiche ma potrebbe essere anche possibile che parti consistenti dei movimenti che potrebbe avere controllato, abbiano compiuto una fuga in avanti. Queste schegge impazzite potrebbero avere interesse a portare Israele alla reazione, anche in ragione della situazione siriana, che è legata a filo doppio con il Libano sempre in bilico e della situazione venutasi a creare in Egitto, con i partiti islamici al governo. In questo caso è evidente che l'interesse principale è creare una polveriera in medio oriente, che vada poi a coinvolgere anche Iran, Iraq ed Afghanistan, nel tentativo, difficilmente realizzabile, di saldare tra di loro gli elementi più estremisti dell'Islam. Se, infatti a livello di collaborazione trans nazionale, come è stato nell'esperienza di Al Qaeda, si sono sviluppati contatti tra diversi esponenti di stati differenti, la matrice del radicalismo religioso fusa con la volontà militare, ha dato luogo ad un movimento terroristico abbastanza omogeno, diverso è il caso di volere unificare punti di vista molto diversi a causa di diverse esigenze basate su territori differenti e percezioni talvolta opposte. Tuttavia il pericolo rimane, un conflitto in questo momento storico, potrebbe facilmente allargarsi dal medio oriente a tutto il mondo, sebbene con forme non convenzionali e potrebbe riportare il mondo molto indietro.

mercoledì 18 luglio 2012

Israele alla finestra della situazione siriana

Il responsabile dei servizi segreti militari di Israele, Aviv Kochavi, stima una vita tra i due mesi ed i due anni per il regime siriano. L'analisi, supportata da dettagliate riprese satellitari, presentata al parlamento di Tel Aviv, apre per il paese della stella di David, un ventaglio di considerazioni sui possibili sviluppi derivanti dalla caduta di Assad. Le possibilità di una guerra tra Israele e Siria, con Assad ancora al comando, sono considerate molto scarse, i reparti siriani che pattugliavano le alture del Golan, sono stati infatti spostati in zone teatro della guerra civile e, sopratutto, intorno a Damasco. Tuttavia l'assenza delle truppe regolari favorisce l'addensamento sulla linea di confine, di cellule appartenenti a gruppi di jihadisti, che possono costituire un pericolo per Israele, perchè possono portare a compimento attacchi terroristici non convenzionali, inoltre questi gruppi potrebbero essere usati dallo stesso regime di Damasco per creare diversivi, tramite attacchi al paese vicino, tali da distogliere l'attenzione dell'opinione pubblica mondiale dalla sanguinosa guerra civile siriana. Quella che si respira in Israele è una sindrome da accerchiamento, il precipitare della crisi siriana libera tutte le paure che Assad, pur da nemico, riusciva a contenere. Per Tel Aviv si acuisce il problema Hezbollah al confine con il Libano, la frontiera con l'Egitto non è più sicura, da quando è caduto Mubarak e con la vittoria delle formazioni islamiche si temono consistenti aiuti verso Hamas, nella striscia di Gaza. Su tutto, poi, incombe la grande paura della progressione verso l'atomica di Teheran, che costituisce una fonte di dibattito continua nel paese. Per quanto riguarda quello che seguirà dopo la caduta di Assad è difficile pronosticare una soluzione sicura a causa della profonda divisione delle forze che si oppongono al regime. Israele, con una vittoria delle formazioni islamiche, rischia di trovarsi come vicino, un'altro stato, che dopo l'Egitto ha abbracciato anche in politica l'islam; ma se in Egitto, pur con tutte le condizioni sfavorevoli presenti per Israele, pesa l'influenza degli Stati Uniti, in Siria questa sarebbe assente ed anzi l'influenza maggiore potrebbe essere quella dell'Iran. Teheran, il maggiore alleato di Assad, impegnato anche in prima persona nella repressione, potrebbe avere buone possibilità di influenzare anche il nuovo corso siriano, sempre che prevalga la linea islamica, proprio in virtù della profonda rivalità con Israele. L'Iran, difficilmente rinuncerà a quello che ritiene un territorio, prima che un alleato, chiave per la propria politica estera, che verte principalmente sul fare da capofila contro quella che definisce l'entità sionista. In questo quadro risulta difficile credere che non possa prevalere la linea di chi vuole la guerra preventiva con Teheran. Anche se i fronti su cui intensificare la vigilanza cominciano ad essere parecchi. Questo potrebbe portare ad una revisione del piano di difesa militare israeliana, in un momento di grande difficoltà politica per il paese, alle prese con la defezione dalla compagine governativa dei partiti ebraico ortodossi, la destra religiosa della nazione israeliana, a causa della questione della fine dell'esenzione dal servizio militare obbligatorio per i lettori della Torah. Israele sta quindi entrando in un periodo cruciale della sua storia, obbligato però ad aspettare lo sviluppo degli eventi, sempre che non decida una azione singola sganciata anche dal quadro della stretta alleanza con gli Stati Uniti.

L'Ecuador a rischio sanzioni USA

L'amministrazione statunitense avverte, tramite il proprio ambasciatore a Quito, che lo stato dell'Ecuador potrebbe incorrere in sanzioni internazionali per gli accordi siglati con l'Iran, sopratutto nel campo petrolifero. La strategia americana, di isolamento economico del regime iraniano, sta avendo delle difficoltà per la controffensiva messa in campo da Teheran in centro e sud america. Sfruttando la necessità di greggio di paesi che hanno una economia in via di sviluppo e che sono tradizionalmente poco sensibili alle esigenze USA, il governo iraniano ha sviluppato una serie di contatti commerciali, con lo scopo di aggirare l'embargo derivante dal contenzioso sullo sviluppo della tecnologia nucleare, sul quale Ahmadinejad è molto sensibile.
L'Ecuador potrebbe rischiare di diventare un esempio ed un monito per tutti quei paesi, sopratutto dell'area del centro e sud america, che mantengono od intendono instaurare rapporti commerciale con l'Iran. Gli USA, d'altro canto, sono costretti ad una accelerata sulle sanzioni per mettere in maggiore difficoltà Teheran e, sopratutto, mantenere le minacce israeliane di aprire un conflitto preventivo entro i limiti delle sole intenzioni. La controindicazione di questo inasprimento è di aumentare la tradizionale ostilità dei paesi del centro e sud america contro gli Stati Uniti. In Ecuador, ma ancor più in Venezuela, l'applicazione diretta delle sanzioni potrebbe essere interpretata come una ingerenza nella politica interna degli stati e sopratutto la percezione punitiva che ne deriva, potrebbero mettere a rischio le relazioni con Washington. Il pericolo concreto è che venga a formarsi un blocco di stati, in grado di sfidare apertamente gli USA sul terreno della politica estera, con lo scopo di avere maggiore libertà di azione. Per gli Stati Uniti potrebbe così aprirsi un fronte diplomatico molto difficile da gestire, con l'autorità americana messa in pesante discussione. Resta chiaro che la chiusura di un mercato come quello americano, costituisce una minaccia molto forte per economie povere ma in espansione, che hanno necessità di esportare verso nazioni più ricche e logisticamente vicine, quindi la minaccia delle sanzioni, per ora dovrebbe avere ancora il suo potere deterrente adeguato, tuttavia, senza una politica di aiuti mirati, sul lungo periodo, gli Stati Uniti rischiano di perdere la loro influenza sui paesi centro e sud americani, per la grande penetrazione commerciale e quindi anche politica, che stanno esercitando nuovi soggetti, come la Cina, provenienti dall'esterno del continente o come il Brasile, che, si può dire, giochi in casa. Lo sviluppo continuo degli assetti di potere e di forza, in ambito geopolitico, provoca continui cambiamenti degli equilibri mondiali, anche in zone, che alcuni stati considerano sotto la propria esclusiva sfera di influenza. Il caso delle sanzioni verso nazioni collegate ai rapporti con un paese come l'Iran, deve costituire un caso scuola per la politica estera, non solo americana, ma anche per potenze di medio calibro. La continua evoluzione degli scenari internazionali ad una velocità molto più alta che nel passato, dove gli equilibri mondiali erano cristallizzati entro poche variabili, richiede un ventaglio di possibilità, sempre percorribili, da scegliere a seconda degli sviluppi che si concretano in maniera quasi istantanea. Difficile prevedere gli sviluppi e le reazioni se le sanzioni americane verranno applicate, il rischio di creare alleanze anti USA è concreto, per questo, forse, è opportuno che Washington abbandoni la pratica della forza, per abbracciare un tattica maggiormente persuasiva basata su nuove prospettive di politica estera, fatte di maggiore cooperazione internazionale, che consentano agli USA di mantenere la propria influenza ed ai paesi, che cercano sbocchi commerciali con soggetti poco raccomandabili, di avere maggiori possibilità in campo economico con paesi affidabili.

lunedì 16 luglio 2012

Fermare l'aumento della denutrizione

Al già alto numero di persone in stato di indigenza, si prevede, che da qui al 2020, soltanto otto anni, si dovrà aggiungere la consistente cifra di settante milioni di persone. Si tratta di un destino che porterà ben oltre la povertà, cioè l'indigenza assoluta, con mancanza di cibo ed acqua e condizioni igieniche totalmente insufficienti. Di questa massa di disperati, si stima che oltre quattrocentomila bambini non arriveranno a compiere cinque anni. Quello che più sorprende che questa previsione di medio periodo è stata elaborata in conseguenza dei dati della crisi finanziaria che attanaglia il mondo dal 2008. E' un effetto domino che crea conseguenze spaventose: l'impatto su società già poverissime dell'aumento dei generi alimentari, la speculazione sui prodotti e terreni agricoli, con la riconversione da produzione alimentare a prodotti per i carburanti, ha creato una spirale che pare inarrestabile. Non bastavano gli episodi bellici, sempre in aumento e l'incremento del fenomeno della siccità, che pesa in maniera preponderante sulla filiera della produzione agricola, ora il mondo industrializzato presenta i conti della sua speculazione anche alla parte più povera del pianeta. Le conseguenze, oltre che di impatto morale, saranno pesanti anche su quello politico: il terreno di coltura che si sta sviluppando permette una sempre maggiore influenza di apparati clericali sempre più radicali, che gettano le basi per una ostilità di fondo contro l'occidente. Le persone che scappano dalla fame diventano materia di pressione per gli stati ricchi, usate come mezzo di ricatto, mentre le grandi risorse dei paesi poveri vengono svendute ai nuovi colonialisti dei paesi in via di sviluppo molto al di sotto dell'effettivo valore. Ad aggravare la situazione giungono notizie preoccupanti dai governi europei, che nella loro ansia di regolarizzare bilanci da tempo costruiti male, vogliono tagliare i già esigui fondi per la cooperazione e gli aiuti ai paesi del terzo mondo. Una simile politica, oltre che miope si rivela doppiamente colpevole di popoli e persone che possono costituire una bomba ad orologeria. Quello che si favorisce, non si capisce quanto inconsapevolmente, è un confronto futuro, non su basi pacifiche tra il nord ed il sud del mondo, con quest'ultimo influenzato sempre più da una religione e religiosità, che rappresenta l'unico rifugio di situazioni disperate. Anzichè favorire una crescita dei paesi poveri, che consenta uno sviluppo dignitoso, quella che pare affermarsi è una tendenza neocolonialista, caratterizzata dall'assenza di strumenti atti a migliorare le condizioni di popoli allo stremo. In questo quadro molto preoccupante, del quale, però non si avverte l'urgenza ne dai governi occidentali ne dalle istituzioni sovranazionali, prende sempre più corpo, l'esigenza di studiare mezzi e formule per attenuare uno stato di cose destinato ad essere esplosivo, con ricadute dirette sulla vita dei paesi occidentali. Occorre partire dal presentare il conto alla finanza speculativa, che tanta responsabilità ha su questo stato di cose. L'introduzione della Tobin tax è ormai improcrastinabile ed una percentuale di essa deve essere destinata a progetti di sicuro valore, che possano fermare le situazioni più critiche in campo alimentare e medico dei paesi poveri. Ma questo solo in prima battuta, perchè poi occorre fornire gli adeguati finanziamenti atti a creare uno sviluppo, caratterizzato da condizioni di ecosostenibilità e giustizia sociale, in modo da estendere al maggior numero di persone un adeguato stato di benessere, anche tramite l'istruzione e la formazione professionale, così da avere una manodopera specializzata in grado di sostenere e partecipare ad i progetti internazionali. La responsabilità dell'occidente non deve essere intesa nell'esclusivo senso morale, ma deve essere anche letta ed interpretata come investimento sia sociale che economico, per creare benessere in situazioni di sottosviluppo. Questa azione deve, infatti, andare nel senso opposto della semplice azione caritatevole e paternalistica, propria di visioni falsamente liberali, ma anche religiose auto assolutorie, ma deve essere contraddistinta dalla reale intenzione di costruire un processo che dia una effettiva inversione di tendenza, non solo nello sconfiggere la denutrizione e la povertà ma di avviare, finalmente, un progetto globale per innalzare redditi medi totalmente insufficienti per entrare nel mondo globalizzato.

venerdì 13 luglio 2012

Cina: troppo piccolo il mercato interno, la crescita rallenta

Il rallentamento della crescita cinese, registrato al di sotto dei valori previsti dal governo, impone a Pechino una attenta valutazione sullo stato complessivo della propria economia. Quello che colpisce è un apparato industriale oramai sovradimensionato al bisogno della domanda, sia esterna che interna. La crescita esponenziale delle scorte industriali, si può spiegare soltanto con una consistente minore vendita verso l'estero, non compensata abbastanza dallo stimolo della domanda interna. In realtà la diminuzione delle esportazioni era attesa, a causa della crisi dei paesi ricchi, ma non con questi volumi; per rimediare al calo della domanda esterna si era pensato di stimolare la crescita di quella interna per generare un effetto di compensazione, che potesse permettere un bilanciamento tale da mantenere il previsto tasso di crescita. La ritardata adozione della strategia e degli strumenti per l'aumento del fronte interno giunto al maggiore calo della domanda esterna hanno, di fatto, provocato il rallentamento che proprio Pechino voleva evitare a tutti i costi. Gli effetti pratici di questo rallentamento vanno dal già citato aumento delle scorte, ai tagli salariali ed al fenomeno dei fallimenti industriali, tipico di una economia avviata verso la maturità. Eppure le manovre del settore bancario erano indirizzate per favorire il credito: la banca centrale cinese per ben due volte ha abbassato il tasso di interesse e per tre volte ha ridotto la quota di riserva del capitale degli istituti bancari, per favorire il circolante. Inoltre il controllo sul settore immobiliare, se ha creato inizialmente un rallentamento del comparto, ha concretamente impedito lo scoppio della tanto temuta bolla immobiliare, che molti danni ha generato negli Stati Uniti. Ed anche il fenomeno inflattivo, spauracchio di Pechino, è rimasto contenuto intorno al 2,2%. Tuttavia ciò non è bastato a mantenere una crescita ancora troppo basata sulle esportazioni, mentre l'immenso paese cinese potrebbe rappresentare per se stesso una enorme valvola di sfogo della propria produzione. Alla base di questa mancanza vi è ancora troppa arretratezza delle regioni interne, che patiscono una differenza di reddito con la costa e le regioni industrializzate in notevole misura, sebbene siano stati fatti alcuni sforzi per dotare di infrastrutture le regioni più povere, la vastità del territorio non ha permesso uno sviluppo omogeneo del paese, che, oltre essere fonte di profonde tensioni sociali, rappresenta indubbiamente un grande ostacolo alla diffusione commerciale dei prodotti. Non si può non notare anche una mancanza di visione più ampia da parte di Pechino, che ha concentrato l'industrializzazione soltanto in alcune zone, che hanno accresciuto i propri redditi, a discapito di altre lasciate in situazioni arretrate. Se questa scelta poteva essere giustificata all'inizio del processo di industrializzazione del paese, che non disponeva di adeguate risorse per coinvolgere l'intero territorio, quello che sorprende è la mancata attuazione di un benessere più diffuso in grado di incrementare un mercato interno decisamente asfittico. Infatti alle dichiarazioni governative, che hanno più volte messo al centro dei loro programmi la crescita del consumo interno, non sono seguiti atti capaci di realizzare concretamente questi propositi. Ora in una situazione di compressione dei consumi generalizzata, il ritardo cinese nel creare i presupposti di un innalzamento della domanda interna, rappresenta un ulteriore fattore di debolezza dell'impostazione del sistema della Cina, che si trova con la necessità di svuotare i magazzini delle proprie fabbriche. Il rischio è quello di abbassare i prezzi e di ingolfare mercati già saturi, che rischiano di diventare totalmente incapaci di ricevere altri prodotti, andando così a bloccare il circolo della crescita in maniera determinante. Finiti, quindi i tempi della crescita esponenziale per Pechino si tratterà di elaborare nuove strategie per evitare valori di crescita troppo piccoli per i suoi standard; una sfida molto difficile per il governo ed il popolo cinese.

giovedì 12 luglio 2012

In Europa è ancora presente la schiavitù

I dati presentati dall'Organizzazione Internazionale del lavoro, presentano una situazione europea allarmante riguardo alla presenza di persone sottoposte ad un regime di schiavitù all'interno del territorio del vecchio continente. Sarebbero, infatti, quasi un milione di persone, nella maggioranza di sesso femminile, i lavoratori esclusi da ogni diritto e sottoposti a condizioni di vita vessatorie. Le due maggiori categorie riguardano lo sfruttamento sessuale, con circa 270.000 persone costrette a queste pratiche ed i lavori forzati, che interessano circa 670.000 individui. Nel primo caso, la prostituzione, il fenomeno colpisce cittadine provenienti dall'Asia, dall'Africa e dall'Europa centrale, spesso al centro di vere e proprie tratte di esseri umani, che entrano inconsapevolmente in un meccanismo che gli toglie ogni dignità, spesso vendute dalle stesse famiglie di origine a causa di condizioni di estrema povertà. Queste persone sono alla base della piramide di una delle industrie più prospere, quella del sesso, che è in mano a gruppi di malavita organizzata, e che spesso costituisce una branca di attività più ampie che vanno dal commercio di droga ed armi fino ad arrivare al mercato degli espatri clandestini. Si tratta di un sistema economico criminale che si basa su meccanismi ben oliati e che sfrutta sinergie, anche complesse sopratutto nell'organizzazione ferrea e metodica, per creare economie di scala, particolarmente redditizie, grazie al collegamento ed alla contiguità dei settori di mercato criminale. Del resto anche la parte del lavoro forzato, che, secondo l'Organizzazione internazionale del lavoro, riguarda cittadini comunitari in prevalenza, ma ha punte elevate anche di cittadini africani, specie nell'agricoltura, costituisce un modello economico vincente per chi sta nella parte alta della piramide organizzativa. La già citata agricoltura, l'edilizia, il lavoro domestico ed il settore manifatturiero, costituiscono i principali ambiti dove la schiavitù riesce ad assicurare rendimenti elevati alle organizzazioni criminali, proprio in ragione di un bassissimo costo del lavoro esercitato in ambiti contraddistinti dall'assenza di regole e diritti. Se la considerazione morale non può che essere la base della condanna del fenomeno, anche quella di tipo economico non è da sottovalutare: primo si alimenta un mercato produttivo distorto capace di alterare in maniera determinante la concorrenza nei confronti di quelle imprese che fanno della correttezza la base della loro attività lavorativa, secondo la clandestinità del lavoro non consente l'adeguato controllo della lavorazione da parte dell'autorità costituita, generando fenomeni contraddistinti da carenze igienico sanitarie, ad esempio del settore agroalimentare, o da difetti strutturali nel settore delle costruzioni. Molto rilevante è anche la dimensione che ha raggiunto il fenomeno della richiesta di elemosine e le emergenze ad esso collegate, come l'uso di minori o di persone portatrici di handicap fisici o psichici al centro di vere e proprie speculazioni incentrate proprio sulla loro disabilità. Il pericolo della congiuntura economica attuale è che il fenomeno della schiavitù registri un incremento anche in relazione al riciclaggio di denaro da investire nelle attività ad esso collegato. Sebbene gli stati aderenti all'Unione Europea abbiano compiuto dei passi avanti nel contrasto al fenomeno della schiavitù, sia dal punto di vista legislativo che operativo, il dato presentato dall'Organizzazione Internazionale del lavoro risulta essere talmente sostanzioso nella misura delle sue dimensioni da richiamare l'attenzione verso la necessità di un cambiamento dell'approccio alla lotta del fenomeno. Mettere il problema della tratta degli esseri umani e del loro impiego forzoso in cima ad una agenda comune europea rappresenta, infatti una necessità ormai inderogabile, si tratta di affrontare il problema attraverso una organizzazione capillare di controllo sia per il movimento delle persone, che per gli aspetti finanziari del fenomeno che possono permettere di risalire alle centrali che governano il moderno schiavismo. Cancellare questa pratica non umana è doveroso anche per non avere motivi di mancata legittimità dell'istituzione europea, sempre pronta ed in prima fila per la difesa dei diritti nel mondo, senza che, purtroppo, riesca ad assicurarli completamente sul proprio territorio.

mercoledì 11 luglio 2012

L'Egitto in piena crisi istituzionale

La vittoria dell'islamico Morsi in Egitto, ha rovinato i piani dei militari e sopratutto, sta innescando una crisi istituzionale, che potrà avere anche soluzioni tali da rimettere in discussione il processo democratico del paese. Uno dei primi atti del nuovo presidente è stato quello di reintegrare il parlamento nelle sue funzioni, confutando così il provvedimento della Corte Costituzionale che ne aveva decretato l'illegittimità. Questa decisione ha però riaperto le profonde divergenze con le forze armate, vere mandanti della sospensione dell'organo legislativo egiziano, ed ha provocato un conflitto con la stessa Corte Costituzionale, che, al momento, pare insanabile, con il risultato di avere creato una situazione in cui la vita istituzionale risulta bloccata. La risposta della Corte Costituzionale, infatti, è stata quella di sospendere il decreto presidenziale ristabilendo la situazione ante risultato elettorale, con il parlamento di nuovo dichiarato illegale. Va ricordato che, tecnicamente, alla base della decisione della Corte vi è un difetto nella legge elettorale. Proprio per questa ragione Morsi ha il solo appoggio dei partiti islamici, Fratelli Musulmani e Salafiti, mentre per le formazioni laiche il decreto che rimetteva al proprio posto il parlamento è stato addirittura definito golpe istituzionale. Questo significa che la frattura nel paese non è solo istituzionale ma anche sociale, d'altro canto i partiti laici avevano preferito schierarsi a favore del candidato sconfitto, espressione dei militari ed in un certo senso anche del passato regime, piuttosto che vedere un esponente degli islamici nella carica di presidente. Quello che è uscito dalla primavera araba è un Egitto profondamente diviso, in bilico tra attaccamento alla religione, che negli anni bui del regime ha rappresentato un sicuro rifugio, e voglia di modernizzazione sociale e politica, che male sopporta il bavaglio religioso al posto di quello della dittatura. Sono due mondi in aperto contrasto e probabilmente inconciliabili, che hanno trovato nel terreno istituzionale la loro arena di scontro. Ma questa volta l'esercito non è imparziale ed è intenzionato a fare pesare la propria importanza sia come soggetto politico, che stabilizzatore del paese. La sentenza della Corte costituzionale, composta da uomini nominati da Mubarak e quindi ritenuta moralmente illegittima dai partiti musulmani, affida il ruolo del parlamento alle Forze Armate, che ricoprono quindi un doppio ruolo, alquanto inedito in un regime democratico, ma quello che si sta sviluppando in Egitto è una forma di stato ancora incompiuta, dove si può presentare il paradosso di un esercito maggiore garante delle libertà individuali rispetto ad una assemblea eletta. Del resto il timore di gran parte della società egiziana, ma non certo della maggioranza che si è recata alle urne, è l'applicazione della sharia come legge vigente nel paese, mentre sulpiano internazionale si teme una deriva dell'Egitto verso paesi fondamentalisti come l'Arabia Saudita, che, tra l'altro sarà il primo viaggio all'estero di Morsi. Inoltre per i militari è ritenuto fondamentale non alterare i rapporti diplomatici con Israele e Stati Uniti, attraverso i quali giungono gli aiuti in materiale e tecnologia. Quelli che si aprono sono scenari segnati dalla grande imprevedibilità: se il potere maggiore è in mano ai militari, non è interesse di questi passare come coloro che, tramite un colpo di stato per ora non violento, hanno invalidato la competizione elettorale di uno dei paesi arabi più importanti, ma, tuttavia, godono anche dell'appoggio, certamente insperato, dei partiti laici usciti sconfitti dalle elezioni, che tutto volevano, durante le dimostrazioni contro Mubarak, tranne passare dalla dittatura alla legge islamica. I vincitori delle elezioni, dal canto loro, hanno la forza per mobilitare masse numerose, ma minori rispetto a quando nelle piazze scendevano anche quelli che ora sono i loro avversari politici, hanno però il risultato a loro favorevole da presentare sul piano internazionale, anche se tutto il panorama diplomatico, conscio dell'equilibrio precario della situazione, invita i due contendenti ad un dialogo serrato per superare la crisi.

martedì 10 luglio 2012

Sempre più tesi i rapporti tra Cina e Vaticano

I rapporti, interrotti ufficialmente nel 1951, tra Cina e Vaticano, sono destinati a deteriorarsi, nonostante il riallaccio con Pechino, fosse uno dei programmi del pontificato di Benedetto XV. Il nodo centrale resta sempre la questione della nomina dei Vescovi cinesi, che il Vaticano ritiene, conformemente alla dottrina, propria prerogativa, oltre che garanzia per l'unità della chiesa. Non la pensa così lo stato cinese, che vede una violazione della propria autonomia, fino a diventare una interferenza vera e propria, la nomina di un funzionario ecclesiastico operante sul proprio territorio. La questione non è nuova, tanto da avere generato due corpi cattolici, formalmente ben distinti all'interno della Cina. Infatti oltre alla Chiesa cattolica ufficiale, costretta a vivere in semi clandestinità, vi è l'Associazione Patriottica, che rappresenta l'organizzazione attraverso la quale il Partito Comunista controlla i cattolici, si tratta di cattolici atipici perchè mettono lo stato cinese davanti al Papa e godono di minore libertà di espressione, giacchè il clero dirigente è allineato in modo ortodosso ed acritico alle direttive di Pechino. In realtà la divisione tra queste due chiese non è poi così netta e spesso vi è chi ne fa parte di entrambi, anche se la situazione non è uniforme in tutto il paese e vi sono differenze, anche sostanziali, da regione a regione. La presenza cattolica in Cina si aggira ufficialmente intorno ad i cinque milioni, mentre il dato stimato ammonta a dodici milioni, ma non si hanno dati certi, proprio perchè la chiesa ufficiale è osteggiata dall'apparato, quindi il dato ufficiale si riferisce agli appartenenti alla Associazione Patriottica, molti dei i quali però, ricordiamo potrebbero fare parte anche della chiesa ufficiale. Nei giorni scorsi l'ordinazione da parte del governo di un nuovo Vescovo, padre Yue Fusheng, a capo della diocesi di Harbin, la maggiore città del nord-est, ha provocato la reazione vaticana, che l'ha definita illeggittima ed ha minacciato la scomunica per il nuovo vescovo ed i prelati a lui vicini. Fatto che ha una duplice implicazione perchè il nuovo vescovo è anche il vice presidente dell'associazione patriottica e chi lo ha ordinato, il vescovo Fang Xingyao, ne ricopre addirittura la carica di Presidente. In quest'ottica la reazione vaticana assume anche una implicazione politica e quindi non solo dottrinale, perchè attacca, con le minacce di scomunica, lo stesso stato cinese. Ciò non può non implicare un raffreddamento dei rapporti diplomatici in una fase storica dove il Vaticano si sta battendo per la libertà religiosa e la Cina cerca in tutti i modi di accreditarsi come potenza mondiale. Ma senza l'imprimatur di Roma, Pechino rischia di avere un problema in più sul piano del mancato rispetto dei diritti individuali. In effetti la reazione cinese, che ha definito la protesta vaticana come oltraggiosa ed irragionevole, rileva uno stato di apprensione sul tema, che non può che fare riflettere sulle difficoltà, sia esterne che interne, che Pechino sta affrontando. Se la nomina di un prelato favorevole può aiutare a smorzare l'opposizione interna, sul piano internazionale ha una risonanza tutt'altro che positiva. La polemica è aggravata dalla sparizione di Thaddeus My Daquin, un vescovo ausiliare di Shanghai, arrestato dalla polizia cinese e del quale si sono perse le tracce. Troppo spesso la chiesa ufficiale pare essersi schierata con con chi richiedeva maggiori garanzie a favore dei diritti, sfuggendo oltre modo al controllo dell'apparato e ciò ha generato la necessità di aumentare l'influenza dell'Associazione Patriottica per incanalare in qualche modo questa protesta. Tuttavia i conti di Pechino potrebbero essersi rivelati sbagliati se l'eco delle proteste vaticane consentirà una maggiore attenzione al problema della libertà religiosa all'interno dello stato cinese.

Obama punta ad una riforma delle tasse

La questione della tassazione è da sempre al centro dei programmi elettorali, a qualsiasi latitudine; ma è negli USA che è particolarmente sentita e fonte di pesanti scontri. Nella patria del liberismo è da sempre considerato autolesionistico parlare di incremento della tassazione, per questo la proposta di Obama, seppure nella sua semplicità, è destinata a fare da spartiacque alla propaganda elettorale per le presidenziali. In realtà la proposta di aumentare le tasse non è destinata all'universalità della popolazione americana, ma soltanto a chi supera la soglia di reddito dei 250.000 dollari. Pur non essendo una cifra da normalizzazione sovietica la proposta del presidente uscente ha già incontrato le resistenze dei repubblicani, che hanno la maggioranza al congresso. La ragione della volontà di ridurre la tassazione per quella che è definita la classe media americana, il serbatoio di voti maggiore, è la creazione di una maggiore disponibilità economica per un numero maggiore di persone, capace di fare da volano per una economia sempre in stato di difficoltà. Il contraltare a questa manovra è l'azzeramento dei benefici per i più ricchi, tramite la fine delle agevolazioni fiscali combinate con l'aumento delle aliquote, andando così ad applicare una sorta di redistribuzione, peraltro molto attenuata. L'obiezione repubblicana si basa sulla minore ricaduta degli investimenti da parte dei ceti più ricchi, posizione opinabile in quanto già ora l'apporto dei ceti abbienti alla ripresa non ha garantito la ripresa economica tanto decantata dalle teorie liberiste. Viceversa la possibilità di una maggiore spesa per un numero maggiore di persone potrebbe dare maggiori risultati in ottica di sviluppo. Il punto di partenza è la revisione di una legge del presidente Bush che prevedeva una serie di tagli fiscali per l'intera popolazione, Obama è sempre stato contrario all'applicazione universale della defiscalizzazione, ma l'avversa maggioranza al Congresso gli ha sempre impedito una revisione verso una maggiore equità del provvedimento. Ma questa legge deve affrontare la scadenza fissata entro la fine dell'anno, Obama è favorevole a mantenerla soltanto per i redditi sotto i 250.000 dollari, che tradotto in aliquote fiscali vuole dire tassazione al 30% per chi percepisce un reddito entro la soglia dei 250.000 dollari ed una aliquota che può variare dal 33% al 39% applicabile a scaglioni, per gli importi superiori. E' su questo tema che verteranno i sondaggi elettorali per capire chi sarà eletto presidente ed oltre gli steccati politici, quella lanciata da Obama è una provocazione alla politica fiscale statunitense che dagli anni ottanta, cioè dall'era Reagan, ha caratterizzato il sistema USA. Riuscire ad invertire questa tendenza potrebbe aprire una nuova via anche nel resto dell'occidente, restio a tassare i grandi patrimoni familiari a scapito dei redditi da lavoro, sempre più penalizzati dalla crisi. Sarebbe la conferma della statura da leader mondiale di Obama.

lunedì 9 luglio 2012

Elezioni in Libia: verso la sconfitta dei partiti musulmani

I primi exit poll delle elezioni libiche, le prime dopo il dominio incontrastato di Gheddafi, la cui affluenza è stata di circa il sessante per cento degli aventi diritto, vedrebbero sconfitto il partito dei Fratelli Musulmani libico a favore dell'Alleanza delle forze nazionali, formazione che riunisce circa quaranta formazioni, nel tentativo di creare una sintesi dei vari gruppi impegnati nella lotta contro il rais di Tripoli. Il vantaggio della formazione laica sarebbe certo in quasi tutti i distretti del paese. Se il risultato dovesse essere confermato, la Libia interromperebbe le vittorie elettorali di tipo confessionale, che hanno portato al potere, in tutti i paesi attraversati dalla primavera araba, le formazioni di matrice islamica. Sopratutto la Libia andrebbe a rappresentare una enclave tra Egitto e Tunisia, diventando, potenzialmente, un interlocutore preferito per il mondo occidentale, sia per la sponda meridionale del Mediterraneo, che per il mondo arabo. Tuttavia non bisogna confondersi sulla natura dell'Alleanza delle forze nazionali, descriverlo come movimento di matrice liberale appare esagerato, in quanto, pur non essendo una forza islamica dichiarata, sostiene la sharia come fonte di diritto. Questo fattore costituisce una anomalia in una forza politica che si definisce laica, ma rappresenta anche uno spunto di riflessione sulle modalità di definizione sui nascenti movimenti politici arabi, derivanti dalla primavera araba. Infatti il metro di valutazione applicato ai partiti occidentali non può valere in questo contesto, dove possono coesistere l'impronta non confessionale con l'apprezzamento della legge islamica.
Anche la complicata legge elettorale adottata dal paese libico non aiuta a costruire una ipotesi certa, giacchè si stima che circa 120 eletti su 200, sarà di matrice indipendente e quindi soltanto i restanti 80, saranno espressione dei partiti; ma proprio questa prevalenza di candidati eletti indipendenti dovrebbero costituire la base per la sconfitta degli islamisti e portare Mahmoud Jibril alla vittoria. Il solo fatto di rappresentare una alternativa ai partiti islamici ha provocato la definizione di candidato degli europei, tuttavia per ora questa possibilità non è una certezza, il vincitore, comunque, dovrà fare sfoggio di equilibrio e lungimiranza, per governare un paese più frammentato che diviso: la grande sfida infatti sarà riuscire ad unire le regioni occidentali con quelle orientali, divise anche al loro interno in diversi gruppi tribali. Compito non facile, le divisioni che hanno contraddistinto la lotta di liberazione sono rimaste tali, anche dopo l'uccisione del Colonnello; le stesse difficoltà dell'esercizio del voto, ostacolato con attentati, specie nella regione della Cirenaica, rappresentano ulteriori segnali di ostativi nel cammino della costruzione dello stato ed anche l'assoluta assenza di almeno un inizio di un processo di pacificazione nazionale, non costituisce certo una buona premessa. Con queste basi di partenza il vincitore delle elezioni dovrà misurarsi poi con una serie crescente di difficoltà rappresentate dalla gestione dei ricchi giacimenti petroliferi e del conseguente reimpiego dei proventi, sia in ottica di redistribuzione del reddito per innalzare una qualità di vita decisamente bassa, sia in ottica della costruzione di infrastrutture per sviluppare l'economia del paese, creando alternative all'industria energetica capaci di attirare investitori esteri. Il compito non è agevole perchè quella libica è stata una società che Gheddafi ha basato sulla corruzione per catturare il consenso delle tribù più importanti. Per creare la nuova società libica le tribù saranno il punto di partenza obbligato, ma che andranno poi superate nel tentativo di dare un assetto maggiormente moderno, per lo meno a quella che dovrà essere la classe dirigente del paese, cercando di dare una maggiore articolazione al tessuto sociale, attraverso la creazione di partiti ed associazioni e la partecipazione attiva alla politica delle donne, molto osteggiate in campagna elettorale.

venerdì 6 luglio 2012

Presidenziali USA: Romney gioca la carta della politica estera

I temi della politica estera irrompono sulla scena della campagna elettorale americana. Mitt Romney, che ha finora preferito discutere quasi esclusivamente di questioni economiche, deve essere stato sollecitato dai suoi collaboratori ad affrontare quello che per lo sfidante repubblicano è un terreno difficile. Infatti sulla carta, su questo argomento, Obama pare troppo in vantaggio perchè può mettere sul piatto della bilancia l'eliminazione di Bin Laden, il ritiro dall'Iraq e quello prossimo dall'Afghanistan, l'atteggiamento equilibrato tenuto nei confronti dell'Iran, sottoposto a sanzioni dure, ma senza mai travalicare verso posizioni irresponsabili. Dove può sfondare, invece, Romney è sul rapporto con Israele, deterioratosi con la presidenza Obama a causa degli eccessi del presidente israeliano Benjamin Netanyahu, che ha praticato una politica espansionistica nei territori palestinesi in aperta violazione dei trattati e del buon senso. In realtà il rapporto tra USA ed Israele, visto nell'ottica democratica è stato gestito bene da Obama, che finora è riuscito ad impedire le tanto minacciate azioni preventive di Tel Aviv verso Teheran. Ma questo è proprio il punto che intende sfruttare Romney per conquistare la potente lobby ebraica americana. Aldilà delle incomprensibili dichiarazioni, che hanno rivelato un certo dilettantismo ed una scarsa conoscenza del panorama diplomatico, relative a possibili bombardamenti sull'Iran in caso di una sua elezione, Romney intende visitare Israele per fare sentire la sua vicinanza, più che al popolo al governo israeliano. E' però anche un'operazione di facciata in omaggio all'elettorato più conservatore, che interpreta l'atteggiamento di Obama verso l'Iran come una debolezza anzichè apprezzare lo sforzo di cercare di evitare potenziali conflitti. Questo aspetto è collegato al desiderio, mai sopito, dei repubblicani di vedere il proprio paese come potenza predominate sulla scena internazionale, tendenza opposta alla politica praticata da Obama, che anzi spesso ha lasciato gli Stati Uniti in una posizione defilata in più di una occasione presentatasi, valga come esempio per tutti l'appoggio ai ribelli libici che hanno visto gli USA in una posizione di seconda fila rispetto a Francia ed Inghilterra. Romney ritiene che questo sia un buon argomento elettorale e non ha esitato a rispolverare un clima da guerra fredda con pesanti dichiarazioni sul comportamento della Russia. Effettivamente occorre riconoscere che Mosca dalla rielezione di Putin ha praticato una politica estera quanto meno ardita, regalando il proprio appoggio a dittatori e stati potenzialmente pericolosi, situazione ben conosciuta da Obama, che però evita posizioni di evidente contrasto con il Cremlino, continuando nella tattica, seppure faticosa del dialogo ad oltranza. La posizione dello sfidante repubblicano, ha così provocato le immediate critiche del governo russo, che ha pronosticato, nel caso di elezione di Romney, una probabile crisi diplomatica tra i due paesi nel corso del primo anno del suo mandato. Un confronto più duro e serrato di quello attuale trai due paesi preventiva uno sconvolgimento degli equilibri attuali, che seppure poco stabili, consentono ancora margini di collaborazione tra Mosca e Washington. Vista sotto questa prospettiva la mossa di Romney di demonizzare la Russia sembra un autogol, ma potrebbe trattarsi di una mossa calcolata per tentare di recuperare l'elettorato del tea party che si è allontanato dal partito repubblicano, tuttavia negli ambienti ufficiali del partito la sortita di Romney è stata condannata da esponenti autorevoli e di grande competenza internazionale come Henry Kissinger e Colin Powell, che hanno sottolineato come il rapport con la Russia attuale non deve essere rovinato solo per la questione nucleare iraniana. L'avere affermato che Mosca rappresenta per gli USA la più grande minaccia geopolitica pare così essere un miscuglio di inesperienza e voglia di esagerare per sfondare a destra, che non segnala lo sfidante presidenziale per la sua competenza in politica internazionale, inoltre la mancanza evidente di cautela si evidenzia come una caratteristica molto pericolosa per un individuo che intende guidare la nazione più importante del mondo.

Cuba verso il modello cinese

Per uscire dalla gave crisi economica, che sta condizionando materialmente la vita del paese, il presidente cubano Raul Castro ha iniziato una visita in Cina, per capire la trasformazione della nazione in colosso economico, mantenendo un ordinamento nominalmente comunista. Il motivo ufficiale della visita è costituito dalla firma di accordi commerciali tra l'Avana e Pechino, tesi a rilanciare l'economia cubana. La Cina, dopo il Venezuela rappresenta il secondo partner commerciale di Cuba, ed intende intensificare i rapporti, anche per la posizione strategica di Cuba e per il basso costo del lavoro. Significativa a questo proposito l'apertura di linee di credito capaci di creare investimenti infrastrutturali capaci di richiamare la presenza di imprese straniere. Per l'Avana è importante anche rompere l'embargo internazionale provocato dal blocco imposto dagli USA, che ha di fatto affossato la già gracile economia cubana. Tuttavia, aldilà dell'importanza degli accordi commerciali e delle basi gettate per creare i presupposti per una industrializzazione del paese, il rilievo più importante della visita a Pechino del presidente cubano è costituito dalla volontà di comprendere il modello cinese per applicarlo nel proprio paese. La trasformazione in economia di mercato, pur nella rigidità di un sistema politico tutt'altro che democratico, tanto da non prevedere la pluralità dei partiti ed anche il mancato riconoscimento di alcuni diritti fondamentali, della Cina pare una strada adeguata ai dirigenti de l'Avana da seguire per l'evoluzione del paese cubano, ormai consapevole di dovere dare una svolta ad una struttura produttiva insufficiente per uscire dalla miseria in cui è sprofondato il paese. Il punto di partenza è stato probabilmente individuato nella fase che la Cina ha attraversato negli anni 80 e 90 del secolo scorso, quando ha avviato una privatizzazione graduale di vecchie industrie statali in un contesto protetto da fenomeni inflattivi giunto alla garanzia di un mercato stabile, anche per il ferreo controllo del partito unico al potere, che ha potuto impedire i problemi tipici presenti in una forma di governo democratica, quale rivendicazioni sindacali o di altri gruppi di pressione. Il basso costo del lavoro, analogia che Cuba può garantire da subito, è stato il volano iniziale dello sviluppo cinese, sopratutto mantenuto e garantito per le imprese dalla rigidità dei salari non gravati da forme di contrattazione e quindi imposti dall'alto. Un doppio ossimoro sia per il comunismo, a cui si rifaceva e si rifa il regime cinese, che per lo stesso capitalismo che aveva trovato in Cina il terreno maggiormente favorevole nel corso della storia. In sostanza la Cina si è sviluppata in un capitalismo senza controllo proprio grazie ad una politica che non ammetteva dissenso. Ciò ha permesso, pur in assenza di diritti democratici l'uscita dalla povertà di una grande massa di persone, ma ha anche creato profonde differenze sociali, capaci creare forti tensioni in una società in grande evoluzione. La situazione di Cuba attuale presenta numerose analogie con la situazione di partenza della Cina verso lo sviluppo, un partito unico capace di un controllo capillare sulla società del paese ed in grado di imporre soluzioni anche pesanti dal punto di vista lavorativo, un tessuto sociale sull'orlo della miseria, che può garantire una mano d'opera a basso costo ma insieme desideroso di affacciarsi al consumo generalizzato e così capace di alimentare anche un mercato interno, che può essere rilanciato proprio grazie all'ingresso di soggetti stranieri, invogliati da una situazione garantita dall'assenza di forme di opposizione e quindi dalla certezza di avere di fronte un interlocutore unico per le trattative. Se per Cuba la strada verso questo modello sembra così avviata, occorre rilevare la pericolosità della diffusione nel mondo del sistema cinese in quel mondo che si definiva comunista, come succede anche in Vietnam, che infatti sarà la prossima tappa della visita di Raul Castro. E' un tipo di sviluppo che si concreta in assenza totale di regole e tutele per i lavoratori, spesso sottoposti sia ad orari massacranti che esposti ad ogni tipo di rischio per la propria salute. Certo all'inizio garantisce una via d'uscita dalla miseria, ma questo non può giustificare i soprusi e gli abusi subiti per riscuotere un misero salario. L'occidente dovrebbe fare maggiore pressione affinchè la tutela di questi lavoratori compia una sostanziale evoluzione, non solo per considerazioni morali, ma anche economiche: il minor costo del lavoro e le minori garanzie costituiscono una forma di concorrenza sleale che impoverisce il tessuto industriale dei paesi più ricchi, che sono già stati colpiti da delocalizzazioni selvagge e che hanno impoverito il tessuto sociale. Avviare un dibattito nelle sede internazionali per elaborare forme minime di tutela universale per i lavoratori è ormai diventato improcrastinabile.

giovedì 5 luglio 2012

Le milizie problema della Libia alla vigilia delle elezioni

La Libia del dopo Gheddafi, resta uno stato che non è in grado di assicurare i diritti civili. Da questa motivazione parte la richiesta di Amnesty International ai politici in lizza per le prossime elezioni, le prime dopo quaranta anni di dittatura, di dare precedenza alla costruzione di uno stato in grado di rispettare i diritti umani, fondato sul diritto. La situazione nel paese mediterraneo sarebbe contraddistinta da continue violazioni dei diritti umani, grazie alla presenza di arresti arbitrari e tortura. Non è un buon biglietto di presentazione per il rinnovato stato libico, dove non è stato sconfitto il fenomeno delle bande armate, che continuano a porsi al di fuori della legge, rifiutando la consegna delle armi e l'arruolamento in strutture dello stato. Quello delle milizie armate è un problema che si è posto ancora prima della caduta di Gheddafi, espressione militare delle tribù, le formazioni paramilitari, costituiscono uno stato nello stato, anzi tanti stati nello stato, gestendo intere porzioni di territorio dove dominano incontrastate in virtù della grande conoscenza geografica e dell'appoggio della popolazione. Tuttavia spesso sono protagoniste di eccessi talmente gravi, che sono capaci di alterare l'immagine che il governo centrale cerca faticosamente di costruirsi. D'altronde era risaputo che lo stato libico era una nazione artificiale, senza un retroterra culturale comune, che non si è creato neppure dopo l'eliminazione della dittatura di Gheddafi. La Libia stava insieme soltanto perchè era governata dal pugno di ferro del dittatore, abile a distribuire parte delle ingenti ricchezze alle tribù più fedeli. Ma ciò non ha creato una coscienza statale comune, anzi una delle strategie del Rais era proprio quella di alimentare le divisioni tribali, per volgerle a proprio vantaggio. Uno degli errori occidentali è stato quello di lasciare il paese a se stesso dopo l'eliminazione fisica di Gheddafi, senza aprire una conferenza, tra tutte le forze della ribellione, capace di valutare e trovare una soluzione, anche dividendo il paese, capace di assicurare da subito stabilità. Gli sforzi di tenere insieme il paese, grazie agli sforzi di una parte delle forze che hanno rovesciato il regime, non paiono così avere sortito un effetto apprezzabile e ciò non fa guardare positivamente alle prossime elezioni. Anche senza l'investitura ufficiale il governo di transizione avrebbe dovuto avere già saldamente in mano la situazione, ma così non è stato e la minaccia delle bande armate grava pesantemente sul processo democratico libico. Una ulteriore particolarità che non ha segnato una rottura con il regime è costituita dall'ingiusta ed ingiustificata detenzione dei migranti che arrivano sul territorio libico per attraversare il Mediterraneo e giungere in Europa. C'è il sospetto che questa sia una bomba a tempo da puntare sulle nazioni della sponda settentrionale del mare mediterraneo, per costringerli a forme di aiuto concordate: una pratica già messa in atto con successo dal Colonnello.

Il taglio del welfare, come politica per abbattere i debiti pubblici

Uno dei più eclatanti e devastanti effetti della crisi economica in atto è il preoccupante taglio, operato in modo indiscriminato praticamente in tutta la totalità dei paesi, del sistema del welfare. Anni di conquiste e di progresso sociale, vengono ridotti, se non cancellati, in maniera tale da riportare indietro le lancette degli orologi della storia. In alcuni casi i governi sembrano perfino praticare modalità punitive, nei confronti della maggioranza delle società che amministrano. La caduta degli ascensori sociali, precipitati verso il basso della piramide della società, provoca che i destinatari dei tagli siano, oltre ai ceti più bassi, anche i ceti che una volta erano definiti medi. L'erosione di ricchezza, avvenuta tramite un progressivo abbassamento del valore dei salari, giunta ad una sempre maggiore diminuzione dei servizi, senza contare l'aumento della tassazione diretta ed indiretta, determina il ritorno di situazioni, che si credeva ormai lasciate alle spalle. Siamo di fronte al fallimento di un modello sociale, che pur in diverse varianti e sfumature a seconda della zona geografica e della effettiva ricchezza dei rispettivi paesi, assicurava per prima cosa la dignità di cittadinanza, attraverso provvedimenti concreti al maggior numero possibile dei suoi componenti. Fa specie e sorprende, che tali pratiche restrittive, giustificate con il necessario abbattimento del debito pubblico, siano percorse, tranne poche eccezioni, da un arco politico che va dalla destra, anche quella cosidette sociale, alla sinistra, sopratutto quella definita più illuminata, passando per il centro, che in Europa spesso si ispira ai valori cristiani. Non si capisce se questi abbattimenti dello stato sociale siano stati intrapresi per calcolo di convenienza e faciltà di azione, si colpisce, in sostanza, il maggior numero di individui, ricavando tanto con poco sforzo, o se si tratta di una scelta politica ben precisa, per riportare la massa ad un livello facilmente controllabile, costringendola all'emergenza continua. In ogni caso è il fallimento del capitalismo, inteso come maggiore diffusione del benessere possibile, ed è, al contrario, l'affermazione dei pochi sui tanti, tramite l'accentuazione delle differenze e delle distanze sociali. In sostanza si favorisce la concentrazione della maggior parte della ricchezza della società, in mano ad un numero ridotto di persone, con percentuali che sfiorano, nei casi migliori, il 10% della totalità. Questa pratica, ancora una volta, è derivata da un uso distorto della ideologia liberale degenerata nella sua peggiore accezione: quella del liberismo senza freni e controlli. Credere che favorire i ceti ricchi, sottoponendoli a tassazioni ridicole, possa costituire una leva per la crescita economica, oltre ad essere moralmente opinabile, è ormai una scelta sbagliata, dimostrata ampiamente, nei teatri più diversi. Del resto la recessione attuale, dipende in buona percentuale, anche dall'impossibilità della maggior parte della popolazione di esercitare una adeguata capacità di spesa, dalla quale deriva la contrazione dei consumi, ma anche le minori entrare per lo stato, che provoca, quindi, un risultato opposto alla direzione voluta. La maggiore dimostrazione di questo fatto è il quasi totale mancato ricorso a politiche di tassazione basati sul patrimonio, che possono permettere l'allegerimento della pressione fiscale sul lavoro. La volontà di percorrere questa via è il più chiaro segnale dei risultati che si evidenzieranno in un futuro sempre più prossimo. Tuttavia, anche le società, pur nella loro anestesia dettata da un insieme di sfiducia ed uso sapiente dei mezzi di comunicazione, iniziano a presentare qualche motivo di cambiamento. L'affermazione di Hollande, in Francia, che ha messo al centro della propria campagna elettorale una tassazione elevata per i grandi capitali, il successo elettorale dell'estrema sinistra in Grecia, che partiva proprio da questi presupposti, possono indicare la via per la costruzione di un modello alternativo, basato sulla maggiore redistribuzione del reddito nazionale. Mantenere un welfare adeguato e degno di uno sviluppo sociale adeguato, rappresenta infatti, il migliore programma possibile per ricostruire una società più equa.