Politica Internazionale

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martedì 24 aprile 2012

I difficili rapporti tra Israele ed Egitto preoccupano gli USA

Israele non aveva accolto bene, fin dall'inizio, la primavera araba egiziana. La permanenza la potere di Mubarak aveva permesso a Tel Aviv di stringere accordi sicuri con il vicino arabo, sia di pace, che si controllo reciproco delle frontiere, sia di collaborazione, anche in virtù del trattato del 1979, firmato alla Casa Bianca, e quindi con la benedizione degli USA, tra Begin e Sadat. Per Israele la frontiera egiziana era essenziale nel proprio scacchiere strategico, perchè rappresentava un accesso controllato in modo sicuro, che preservava, quindi il fianco meridionale, permettendo una maggiore concentrazione verso punti ritenuti più pericolosi. La garanzia del presidio garantiva invece all'Egitto di Mubarak i privilegi in aiuti economici ed armi con cui gli USA ricambiavano la stabilità della frontiera. Sebbene nei disordini di piazza Tahrir, cioè all'inizio e nel prosieguo della rivolta, non vi siano state ne manifestazioni ne una retorica contro Israele, con l'allontanamento del potere del dittatore egiziano è apparsa sempre più crescente l'ostilità contro lo stato ebraico, rimasta fino ad allora pressochè latente, in ragione del fatto che gli islamisti, tra i principali avversari di Mubarak, erano frequentemente fatti oggetto di repressione. Ma l'accordo tra Il Cairo e Tel Aviv è sempre stato percepito, non solo tra i più radicali, come un tradimento della causa araba; ciò ha determinato un progressivo deterioramento dei rapporti tra i due paesi, che ora sono caratterizzati da una reciproca diffidenza e soffrono di ulteriori margini di peggioramento. La vicenda del taglio alle forniture di gas da parte dello stato egiziano a quello israeliano rappresenta ora il culmine della tensione tra i due stati. Malgrado il tentativo di fare passare la questione, da parte di entrambi i governi come mero problema commerciale, forse nel tentativo congiunto di stemperare la questione, il fatto segue numerose diatribe, tra cui un incidente di frontiera tra le truppe dei due stati dove sono deceduti ben 11 soldati egiziani, a cui ha fatto seguito l'occupazione ed il saccheggio dell'ambasciata israeliana a Il Cairo, che di fatto ha determinato l'abbandono della sede diplomatica da parte del personale di Tel Aviv. L'attuale maggioranza parlamentare egiziana, costituita da partiti di matrice islamica, hanno più volte ribadito di non volere porre in discussione la pace con il paese vicino, ma sui reali motivi di queste dichiarazioni pesa la minaccia del mancato rifornimento dei consistenti aiuti statunitensi, piuttosto che una reale convinzione a mantenere rapporti di buon vicinato. Del resto sono proprio gli USA ad avere l'interesse del mantenimento di, almeno, una non belligeranza tra i due stati, che sarebbe in grado di aprire un nuovo fronte difficile da governare per la stabilità già precaria della regione. Per scongiurare pericoli da parte di integralisti l'esercito egiziano, che resta uno dei maggiori alleati israeliani nel paese, ha rafforzato la propria presenza nel Sinai, per prevenire atti terroristici contro Tel Aviv. In questa partita le forze armate del Cairo giocano un ruolo essenziale data la loro laicità, rappresentano un corpo sociale abbastanza impermeabile alle istanze islamiste, sopratutto le più radicali, ed insieme sono fortemente interessate agli aiuti americani, che sono per buona parte costituiti da armamenti. Ma ad Israele non basta l'aiuto dell'esercito egiziano, la certezza di una popolazione non certo ben disposta nei propri confronti appena oltre il confine ha decretato la necessità di rafforzare la presenza sui confini territoriali meridionali, con tre divisioni per rafforzare il controllo del territorio. In alcuni ambienti dello stato ebraico l'Egitto è ritenuto ancora più pericoloso che l'Iran ed in effetti, Teheran è molto lontana e materialmente non ha mai portato reali pericoli a Tel Aviv, se non con minacce cui non è mai stato dato seguito. Ben diversa in quest'ottica la valenza dell'Egitto, dal quale sono entrati e possono entrare armi per Hamas, kamikaze pronti a tutto e volontari per la guerra di liberazione della Palestina. Sebbene questo fronte riscuota minore interesse mediatico in effetti, almeno al momento è quello più gravido di pericoli immediati e tangibili e si capisce perchè Washington, malgrado stia in silenzio, segua la situazione con altrettanta attenzione e riguardo del possibile confronto tra Israele ed Iran. Se cede la frontiera egiziana, infatti, per Israele resta sicuro il solo confine con la Giordania e malgrado la potenza di fuoco dell'esercito della stella di David sia enorme diventerebbe obiettivamente difficile fare fronte a più situazioni contemporaneamente, ciò vorrebbe dire un nuovo teatro di azione per le forze armate americane: un pericolo da scongiurare comunque ma specialmente in campagna elettorale.

La UE teme per il successo dell'antipolitica e del populismo

Se al mondo della grande e piccola finanza conviene l'affermazione di partiti con orientamento conservatore, di centro, di destra moderata e perfino di una sinistra cosidetta progressista, cioè sensibile in buona parte alle istanze dei banchieri e degli uomini d'affari, cercando un compromesso spesso impossibile con le proprie idee di partenza, le ultime tendenze elettorali del vecchio continente vanno nel segno opposto. L'affermazione di partiti di estrema destra, con connotazioni xenofobe e populiste, vanno di pari passo con i successi e le sempre maggiori simpatie che riscuotono i movimenti di estrema sinistra, che ritornano in auge, dopo anni di oblio. E' il chiaro segno di un malessere diffuso nella popolazione europea, dove il disorientamento politico ha preso il sopravvento a causa di sempre maggiori sacrifici imposti alla cittadinanza, senza che questa ne senta il mtovi e, sopratutto, la ragionevole responsabilità. Il clima di sfiducia verso i partiti, che in Italia viene definito come anti politica, è un fenomeno che si allargato a macchia d'olio ed materialmente palpabile in ogni singola nazione europea. Il primo effetto preoccupante è l'indifferenza verso l'elettorato attivo che si esplica con la rinuncia ad esercitare le proprie funzioni elettorali, disertando le urne. La crescita dell'astensionismo è un fenomeno composto da due componenti: la prima è il rifiuto come ribellione all'incapacità ed alla disonestà dei politici, la seconda, che è connessa con la prima, è il mancato riconoscimento con alcuno dei candidati presenti sulla scheda elettorale; non si vota perchè il cittadino non sente alcuna comunità d'intenti o senso di appartenenza con i partiti e neppure si fida delle persone che si presentano al voto. L'elettore, in definitiva, non viene messo in condizione di esercitare il proprio diritto per mancanza oggettiva di condizioni materiali. La quota crescente di astensione dovrebbe fare riflettere i politici, ma finchè questa percentuale di non votanti non verrà computata al fine della distribuzione dei seggi, togliendo il corrispondente numero di seggi assegnabili in ragione del numero di chi non ha esercitato il diritto di voto, i partiti ed i loro candidati non saranno sanzionabili dei loro comportamenti. Questo perchè chi non vota accomuna ormai l'insieme dei movimenti ad una accozzaglia di incompetenti, nel migliore dei casi, e più spesso di disonesti. Si tratta di una visione che fino a poco tempo prima veniva definita senza mezzi termini qualunquista, ma con l'aumentare del fenomeno l'astensionismo è guardato con sempre maggiore rispetto, anche perchè si rafforzano e quindi ne forniscono giustificazione, le sempre più evidenti cause. Ma quando l'elettore si reca alle urne sceglie sempre di più movimenti estremi, che fanno della rottura con l'ordine vigente il loro programma elettorale, frammentando la protesta in schegge che possono diventare impazzite. E' la preoccupazione della stessa Unione Europea, che individua senza mezzi termini la tendenza politica in atto come vera e propria crisi accessoria del vecchio continente, da affiancare allo stato di difficoltà generato dall'economia e dalla finanza. I valori portanti di queste forze estreme sono contrari a quelli su cui si fondano le istituzioni europee ed il rischio di disgregazione del difficile e laborioso processo di unificazione dell'Europa è messo quindi a rischio dall'affermazione di queste forze politiche. Del resto esiste già l'esempio dell'Ungheria, dove il partito al potere, sta governando in dispregio delle direttive europee e costituisce un pericoloso precedente che mette a dura prova Bruxelles. Uno dei timori concreti degli eurocrati si basa sul passato storico del continente, quando le notevoli crisi economiche hanno favorito la nascita di movimenti come il fascismo ed il nazismo, che hanno diversi punti in comune con le idee propugnate dai partiti di estrema destra che registrano una crescita dei consensi. Occorrerebbe sapere se questi timori sono per la messa in pericolo di quei diritti civili e politici che sono ormai dati per scontati o se perchè, in un modo o in un altro, il successo di queste formazioni, che sono anti sistema, possono mettere in pericolo i poteri economico finanziari, che sono ora al vertice della piramide in Europa. Il sospetto è legittimo, Bruxelles non ha fatto molto finora per contrastare l'influenza di una finanza particolarmente accanita, i cui effetti e costi si sono riversati su di una popolazione impotente. Anche nei confronti della supremazia tedesca poco è stato detto, per cui i timori, legittimi e tardivi, degli effetti dell'ondata di consensi alle formazioni di estrema destra non possono che essere accolti come una constatazione amara. Del resto è da molti anni che la destra europea è in crescita, proprio grazie a motivi ben conosciuti riconducibili, oltre che a crisi economiche prima latenti e poi più evidenti, anche a decisioni e provvedimenti talvolta assurdi e sopratutto calati dall'alto, senza cioè la necessaria elasticità rispetto al contesto dove dovevano produrre i loro effetti, che hanno contribuito in maniera netta al successo di formazioni che traggono la loro forza in territori circoscritti e spesso contraddistinte da elementi xenofobi. Anche se esiste una debolezza di fondo di matrice statutaria e normativa che consiste nella scarsa forza delle istituzioni europee, peraltro composte da uomini di quei partiti e di apparati oggetto della contestazione, sempre troppo debole è stato l'atteggiamento delle istituzioni comunitarie contro lo strapotere della finanza, perchè il grido di allarme, senz'altro giusto, sia da ritenersi sincero. A meno che la UE non cambi rotta in maniera rapida ed urgente e sappia coinvolgere la totalità del sistema Europa in un diverso atteggiamento, gli anticorpi verso la deriva populista sono destinati a diminuire. Se non intervengono variazioni consistenti in miglioramenti materiali per la vita della maggior parte della popolazione europea il pericolo del caos politico è praticamente una certezza.

lunedì 23 aprile 2012

Quale futuro per l'area euro dopo le elezioni francesi?

Quali saranno, per l'area Euro, le conseguenze di una sconfitta di Sarkozy? Se il presidente francese in carica non dovesse essere rieletto, il primo effetto potrebbe essere un sostanziale isolamento della Germania, che con la sua politica ha condizionato le politiche finanziarie dei governi della zona della moneta unica, spesso appoggiata in maniera fondamentale dalla Francia di Sarkozy. Sulla spinta di una crisi inconfutabile, la Germania ha obbligato a scelte di estremo rigore gli altri membri dell'euro, in nome di una stabilità finanziaria generale. Se questi provvedimenti, all'inizio erano dettati dalla necessità di sistemare conti pubblici in estrema difficoltà, il piano di riordino non si è poi evoluto verso una direttiva che potesse permettere una crescita tale da garantire una ripresa solida e necessaria per fare ripartire l'economia dell'area euro. Il sospetto è stato quello di avere avvallato, da parte dei governi europei, una politica finanziaria utile e strumentale alla sola Germania, che non si è messa a servizio dell'Europa, come più volte ribadito dalla cancelliera Merkel, ma che dalla sua posizione di forza ha incanalato i severi provvedimenti, di cui sono vittima tanti popoli europei, per rafforzare la propria economia e le proprie imprese. Infatti uno degli effetti delle misure imposte è una generale stretta creditizia che non permette alla imprese extra tedesche, di competere con il tessuto produttivo della Germania. Nonostante la sua evidente forza Berlino, non ha potuto fare da sola, spesso la Parigi di Sarkozy, seppure a tratti riluttante, ha supportato le direttive tedesche, fungendo da alleato alla pari soltanto per figura. In realtà la Francia, cercando di imprimere una sua direzione e potendo sedere a quella che pareva la stanza dei bottoni, è stata solo funzionale affinchè le impopolari decisioni prese dalla Germania sembrassero il frutto di una collaborazione paritaria e condivisa. Già il premier italiano, Mario Monti, aveva incrinato questa strana alleanza, quando dopo avere caricato di sacrifici gli italiani, richiedeva maggiori sforzi materiali per elaborare processi tali da favorire la crescita. Hollande, il principale sfidante di Sarkozy e dato per favorito nella corsa alla presidenza francese, si è incuneato in questo spazio lasciato inspiegabilmente libero dal presidente in carica. Uno dei punti forti della campagna elettorale del principale sfidante è stata proprio la promessa di una nuova negoziazione degli accordi sul rigore dell'euro, in modo da potere garantire bilanci più sicuri senza per questo soffocare la crescita. Il ruolo di supporter nella campagna elettorale di Sarkozy da parte della Merkel ha fatto capire bene quello che teme la Germania. La necessità di avere risultati immediati, senza l'elaborazione di un piano a lungo termine pone ora la cancelliera in un vicolo senza uscita. O meglio quelli che si aprono sono scenari profondamente diversi ed anche lontani nel loro possibile epilogo. Si è più volte parlato di una possibile uscita della Germania dall'area dell'Euro, non totale ma attraverso la creazione di zone della moneta unica a diversa velocità. Su di questa soluzione, caldeggiata dagli stati con i conti più in ordine, pare non si possa più contare: l'Olanda, una delle nazioni più dure con gli stati del sud Europa, è essa stessa alle prese con difficoltà di bilancio, tanto che il governo è caduto ed il paese si avvia ad elezioni anticipate. In questa situazione la Germania rischia di trovarsi sola, con una divisa molto valutata, che renderebbe molto poco concorrenziali i suoi prodotti. Inoltre politicamente una potenziale alleanza tra il secondo ed il terzo paese per economia della zona euro, la Francia e l'Italia, costringerebbe la Germania a rivedere il proprio protagonismo per non soffrire di isolamento. Ma questo potrebbe portare ad una crisi politica nel paese, che se costretto ad elezioni potrebbe cambiare gli assetti di potere, portando al governo di Berlino idee più vicine a modelli espansivi, pur nel mantenimento di determinati valori di bilancio non derogabili. Ma anche una riconferma di Sarkozy, obbligherebbe l'inquilino dell'Eliseo a cambiare atteggiamento verso Berlino. I dati elettorali francesi, dove spicca l'ottimo risultato di Marine Le Pen, parlano chiaramente del gradimento del corpo elettorale di campagne incentrate sulla necessità dello sganciamento dall'invadenza della finanza sulla politica e della voglia di riconquistare una maggiore libertà di azione sia politica che economica. Quindi anche con una rielezione il presidente in carica, non potrà tenere conto, nella sua azione governativa, di tali espresse richieste provenienti dalla società francese. Si andrà quindi, in ogi caso, ad un sostanziale ribilanciamento dei rapporti verso lo stato tedesco, che non potrà più abusare della propria posizione di forza, pena un isolamento tutt'altro che magnifico.

venerdì 20 aprile 2012

Pechino interessata all'Artico

Complice il disgelo causato da una dissennata politica industriale, che non ha tenuto conto degli effetti della propria azione sul clima, l'Artico, che rappresenta una riserva di energia enorme e non ancora sfruttata, sta diventando sempre più facilmente raggiungibile. E' da questo assunto che si muove la Cina, paese sempre più affamato di fonti energetiche, per cercare di entrare nello sfruttamento di materie prime del circolo polare artico e di aprire nuove vie di comunicazioni marine che rendano minore la distanza tra Asia ed Europa, per il trasporto delle merci. Pechino ha individuato nell'Islanda, paese dove il leader cinese Wen Jiabao effettuerà una visita ufficiale, all'interno del viaggio dal 20 al 27 Aprile nel nord dell'Europa, una base strategica per sviluppare questa linea economica, in ragione della posizione geografica dell'isola a metà tra continente artico ed Europa. In realtà la Cina aveva tentato di entrare in Islanda con una pratica spesso adottata con paesi più poveri e cioè acquisendo porzioni di territorio per effettuare speculazioni immobiliari ed impiantare le proprie infrastrutture. Ma il piano è fallito per l'opposizione del governo di Reikiavyk. Ora Pechino proverà la via ufficiale degli accordi economici per sviluppare una collaborazione conveniente ad entrambi le parti, questo perchè la Cina continua a ritenere fondamentale potersi appoggiare a basi islandesi. Tuttavia il piano per potere accedere all'Artico non comprende la sola Islanda, il colosso cinese cerca di avere maggiore importanza dell'attuale ruolo di osservatore, all'interno del Consiglio Artico, composto da Canada, Danimarca, Finlandia, Islanda, Norvegia, Russia, USA e Svezia. La politica cinese nei confronti dello sfruttamento dei giacimenti sotto la calotta polare consiste nel dirsi disponibile allo sviluppo sotenibile e pacifico della regione, la quale, però, non deve essere considerata come territorio privato dei paesi geograficamente più vicini, ma, viceversa è da intendersi come patrimonio comune del mondo. E' una tesi controversa, conoscendo le reali mire cinesi sulle risorse energetiche presenti e sul loro peso strategico in ottica sia industriale che militare. L'impressione è che siamo di fronte ad un futuro denso di annose dispute e che per i giuristi e le organizzazioni internazionali ci sarà molto lavoro. Ma la Cina è costretta a muoversi in tempo perchè oltre ai paesi membri del Consiglio Artico, si sono mossi anche la UE, il Giappone e la Corea del Sud, tutti a rincorrere lo sfruttamento dei preziosi giacimenti. All'interno del Consiglio Artico, poi, si muovono alleanze e tendenze che potrebbero essere determinanti per Pechino: infatti se Russia e Canada, sono i paesi che più ostacolano la marcia cinese, altri potrebbero essere necessari per i progetti di Pechino. La Svezia e la stessa Islanda sono quelle più favorevoli ad una cooperazione con la Cina e poi esiste il caso Norvegia. I rapporti tra Pechino ed Oslo non sono buoni dopo che la Cina ha condannato la Norvegia per l'assegnazione del premio Nobel al dissidente Liu Xiaobo, impedendogli il ritiro dell'ambito riconoscimento. La guerra commerciale che si è innescata a seguito di questo episodio non favorisce certo un miglioramento dei rapporti e la continua richiesta di scuse di Pechino per il Nobel non permette un miglioramento della situazione. Tuttavia, circoscrivendo la situazione alla necessità cinese di entrare in gioco per l'Artico, Pechino si troverebbe ora in una posizione di inferiorità rispetto ad Oslo e questo potrebbe fare riconsiderare al governo cinese la propria politica verso la Norvegia. Potrebbe essere anche l'occasione per la richiesta di un cambio di atteggiamento di Pechino verso i dissidenti ed inserire così regole democratiche in cambio di risorse energetiche, una soluzione da non scartare.

giovedì 19 aprile 2012

L'India dispone di un missile capace di colpire la Cina

Con il lancio sperimentale del primo missile indiano di classe intermedia, cioè con una gittata inferiore a 6.400 chilometri, dotato di capacità nucleare, Nuova Delhi completa quella che considera la propria strategia preventiva nei confronti dei possibili avversari regionali. Questo missile, infatti colma il vuoto difensivo nei confronti della Cina, avversario economico e politico, con cui i rapporti diplomatici sono tutt'altro che distesi. Il sistema missilistico indiano contava nel suo organico soltanto missili a corto raggio, con gittata entro i 2.500 chilometri, pensati per la possibile minaccia proveniente dal Pakistan, ora l'arsenale dell'India si pone direttamente al di sotto di quelli dei cinque paesi membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell'ONU, che sono dotati di missili balistici intercontinentali capaci di sostenere una gittata oltre i 5.000 chilometri. Sul piano geopolitico mondiale non è una buona notizia: la proliferazione nucleare avanza ed il corso della storia sembra mettere indietro le lancette degli orologi, quando la pace mondiale si basava sull'equilibrio del terrore. La differenza era che gli attori direttamente coinvolti erano soltanto due, mentre ora la platea dei soggetti coinvolti è molto più vasta ed i soci del club dell'armamento nucleare rischiano di aumentare sempre di più. Ciò non può che comportare una minore stabilità, seppure latente, ed accrescere le possibilità di uso di questi armamenti, anche se la ragione maggiore della costruzione di questi missili è di natura preventiva, il solo fatto che una nazione accresca il proprio arsenale nucleare è fonte di irrigidimento diplomatico, aggravando spesso relazioni già difficoltose. Senza entrare nel caso più spinoso, costituito del confronto Israele-Iran, il missile indiano ha subito generato una piccata risposta diplomatica cinese, che parlava chiaramente di auto sopravalutazione della forza militare indiana. La Cina ha un arsenale ben più fornito e gli sforzi continui per ammodernare le sue forze armate, con investimenti ingenti, sono proprio una delle cause della corsa al riarmo nella regione, sia sulla terra che in mare, che coinvolge direttamente diversi paesi. Quando si verifica il successo di un test missilistico, la nazione che lo ha compiuto, per prima cosa si affretta a dichiarare che la nuova arma non è contro alcun paese e così ha fatto l'India, per evitare tensioni diplomatiche, specialmente con il vicino cinese. Ma il missile indiano non è che una parte dei cospicui investimenti militari operati da Nuova Delhi. Il governo indiano è convinto che il progresso economico della propria nazione debba essere tutelato da un sostanzioso rafforzamento delle forze armate, questo elemento non può non rappresentare una fonte di profonda preoccupazione per la stabilità mondiale. La politica estera indiana, tradizionalmente alleata agli USA, ha recentemente compiuto passi verso una autonomia non ancora ben chiarita, ma che tende ad un protagonismo regionale e l'assetto stesso dello stato indiano, che ha un ordinamento federale, spesso governato da forze in netto contrasto tra di loro, rappresenta elementi di profonda incertezza in relazione al possesso di tali armamenti. Anche il recente caso, che rappresenta una chiara violazione del diritto internazionale, che sta purtroppo continuando, del sequestro della nave mercantile italiana e dell'incarcerazione di militari della stessa nazione per un episodio non chiarito, ma comunque avvenuto in acque internazionali, non depone a favore di una potenza che si vuole accreditare come pacifica. Ma aldilà di considerazioni di carattere più esteso, l'elemento di maggiore urgenza è il potenziale peggioramento delle relazioni tra India e Cina, che hanno in comune diversi chilometri di frontiera. I difficili equilibri commerciali tra i due paesi, sui quali si innestano politiche internazionali potenzialmente molto pericolose, come il sempre maggiore avvicinamento di Pechino ad Islamabad, possono costituire il detonatore di un progressivo aggravamento dei rapporti tra i due colossi. Al mondo serve tutt'altro che un nuovo confronto che aggravi la stabilità politica ed economica.

mercoledì 18 aprile 2012

Il caso Repsol: precedente pericoloso in una condizione globale difficile

L'atto della presidentessa argentina Kirchner, di rinazionalizzare i giacimenti petroliferi del paese a danno della società spagnola Repsol, che li aveva in concessione, dopo un pagamento di circa 13 miliardi di euro, obbliga a riflessioni che sconfinano nelle questioni degli equilibri geopolitici. La prima considerazione da fare è che la tempistica non è casuale, l'Argentina colpisce la Spagna in un momento di debolezza economica, aggravandone i fondamentali, che infatti sono immediatamente peggiorati. Sembra una vera e propria dichiarazione di guerra economica e diplomatica, che non può essere letta slegata dall'azione politica sulla questione delle Falkland-Malvinas intrapresa sulla stampa contro il governo inglese. Siamo di fronte ad un ulteriore tassello, costruito dal governo argentino, per portare avanti la propria strategia di distrazione dalla difficile questione interna. Tuttavia questo è solo un aspetto della più ampia e complessa questione. La valenza strategica delle risorse naturali impone continue scelte che variano gli assetti pre esistenti, sebbene questi siano regolati da accordi internazionali o semplicemente da accordi di tipo commerciale. Il governo argentino si trova nella difficile situazione di avere la materia prima ma non la tecnologia per lavorarla, in questo manifestando la assoluta arretratezza delle proprie infrastrutture, ma risolvere il problema semplicemente espropriando le raffinerie di un gruppo industriale estero, pone o meglio dovrebbe porre il paese in uno stato di totale inaffidabilità, oltre che esporlo a sanzioni e guerre commerciali. Ma questo è vero solo in parte, la Spagna attuale ha poche possibilità di fare valere le sue ragioni, per prima cosa proprio per la difficile situazione che sta attraversando e poi perchè, come paese esportatore avrebbe comunque degli ulteriori svantaggi ad intraprendere una azione commerciale contro l'Argentina, che è nei confronti spagnoli, paese importatore. Nemmeno la UE, può andare oltre le proteste formali, evidenziando ancora una volta l'impotenza dell'organismo, che è grande solo sulla carta e ben poche volte nella pratica. Resta il problema che di fronte ad altri potenziali partner stranieri, anche in campi diversi da quello energetico, l'Argentina dovrebbe entrare sulla lista nera dei paesi poco affidabili. Malgrado questa considerazione ovvia Buenos Aires non deraglia dai propri propositi, questo potrebbe significare che dietro la manovra della nazionalizzazione ci siano altre potenze o gruppi stranieri pronti a subentrare alla società spagnola e per la verità si sono già fatti i nomi di società russe. Ma anche se ciò non dovesse verificarsi e l'Argentina optasse per una gestione nazionale delle proprie risorse energetiche, nel panorama internazionale la manovra non ha destato grossa indignazione. Gli USA non hanno fatto alcuna dichiarazione e nei paesi latino americani è sempre più crescente il sentimento anti europeo nella misura in cui gli stati o le società del vecchio continente sono percepite non come portatrici di lavoro e di reddito ma come sfruttatori delle risorse e del lavoro di quelle che erano ex colonie, anche se da tempo si sono affrancate da questo stato. Tutto ciò non può che portare alla riflessione che la ricchezza mondiale deve essere divisa in modo diverso, sia sul piano internazionale che sul piano sociale interno ad ogni paese. Casi come quello della Repsol potrebbero aumentare proprio in ragione della maggiore difficoltà economica degli stati causata dalla congiuntura attuale, che obbliga i governi a racimolare le risorse disponibile dove sono, anche contravvenendo alle leggi commerciali. In fondo la Spagna è una potenza medio piccola che di fronte ad un caso del genere può ben poco, ma se ciò accadesse e potrà accadere, a potenze di maggiore peso e consistenza quale potranno essere le vie di soluzione? Quella che rischia di aprirsi è una fase difficile dei rapporti commerciali internazionali, perchè condizionati dall'alto debito pubblico di diversi stati e dalla difficoltà finanziaria della manovra dei governi. La soluzione Kirchner rischia di aprire una strada pericolosa e densa di elementi negativi, che si può prevenire soltanto con una ridiscussione globale degli effetti negativi della finanza mondiale, in modo da prospettare una soluzione sicura ma diluita nel tempo del problema del debito pubblico mondiale.

martedì 17 aprile 2012

Il pericolo di guerra tra Sud Sudan e Sudan

Dopo la difficile situazione in corso nel Mali, un'altro conflitto, che potrebbe però avere ben altre conseguenze, rischia di svilupparsi nel continente africano. Quello tra Sudan e Sud Sudan, dove la seconda nazione è nata per mezzo di un referendum democratico staccandosi dalla prima, è un confronto aperto che sta per scoppiare da mesi. Nonostante la prima impressione dopo l'effettuazione del referendum, fosse quella di una tranquilla transizione, sebbene precedentemente ci fossero stati anni di confronti militari, il mancato accordo definitivo sulle rispettive linee di confine ha lasciato una situazione potenzialmente instabile, che ora presenta il conto. Tutto ruota al fattore petrolio, determinante per l'economia dei due paesi, che restano comunque dipendenti l'uno dall'altro a causa del possesso del Sud Sudan dei giacimenti e del Sudan delle infrastrutture necessarie per il trasporto del greggio. Tuttavia con la perdita della parte meridionale del paese, Khartum, capitale del Sudan, ha visto diminuire la sua capacità estrattiva di circa il 75%. E' così diventato fondamentale cercare di inglobare all'interno dei propri confini la città petrolifera di Heglig, capace di una produzione di circa 115.000 barili al giorno. La città si trova nell distretto di Abyei, letteralmente a cavallo tra i due stati e spesso teatro di scontri tra le due fazioni. Va detto che un arbitrato internazionale riconobbe al Sudan i giacimenti di idrocarburi presenti a nord, est ed ovest della città di Abyei, insieme ad i siti petroliferi di Heglig, mentre al Sud Sudan si assegnò il controllo amministrativo del centro urbano di Abyei ed il campo petrolifero di Diffra. Alla città di Abyei veniva concesso però anche uno speciale status amministrativo che prevedeva l'effettuazione successiva di un referendum, attraverso il quale il centro urbano avrebbe dovuto scegliere di quale stato avrebbe fatto parte. Questo referendum non è mai stato indetto e rappresenta uno dei motivi che contribuiscono e rendere poco limpida la situazione, favorendo la disputa che potrebbe sfociare in conflitto.
Le dichiarazioni che provengono da Karthoum parlano espressamente del Sud Sudan come nemico ed il conflitto appare sempre più probabile, anche perchè le truppe del Sud hanno occupato Heglig, andando a violare l'arbitrato internazionale ma sopratutto colpendo in maniera pesante l'economia Sudanese, privandola dalla quota consistente di greggio proveniente dalla città occupata. L'aviazione sudanese ha così intrapreso una massiccia campagna di bombardamenti, che potrebbe aprire altri fronti di confronto bellico. Ma questa situazione, che in altri teatri sarebbe già sfociata in una dichiarazione di guerra aperta, non si evolve ed i due paesi ufficialmente sono ancora in pace. Entrambi temono che una guerra formale aprirebbe scenari difficile da controllare, sia sulpiano geopolitico che economico e quindi preferiscono proseguire su atti intimidatori isolati da un contesto più ampio, scaramucce di confine che dovrebbero, nelle intenzioni dei due contendenti provocare la desistenza dell'avversario. Una delle ragioni è il costo troppo elevato di una guerra su grande scale, che nessuna delle economie dei due paesi sarebbe in grado di sopportare. Ci sono poi le esortazioni delle Nazioni Unite e dell'Unione Europea a trovare un accordo, anche per evitare pericolose ripercussioni sul prezzo del greggio in un momento particolarmente difficile per l'economia globale. I due soggetti sovranazionali dovrebbero adoperarsi di più per dirimere la questione, iniziando a mediare tra i due stati per quel che riguarda le problematiche economiche più immediate ma che costituiscono sempre un terreno minato. Il Sud Sudan accusa infatti il Sudan di rubare il proprio petrolio che viene trasportato nelle infrastrutture sudanesi, ma quest'ultimo accusa il primo di non pagare i costi del trasporto dovuti; a questo va ad aggiungersi la polemica sul mancato accordo della ripartizione del gettito fiscale circa i prodotti petroliferi, che occorre ricordarlo, vengono lavorati dal greggio del Sud Sudan in raffinerie sudanesi.

lunedì 16 aprile 2012

Osservazioni sugli attentati dei talebani a Kabul

La tradizionale offensiva di primavera, da parte dei talebani in Afghanistan, è partita in modo spettacolare proprio nel cuore della capitale del paese: Kabul. La capacità tattica dei talebani ha saputo coordinare un ventaglio di attentati portati ai centri nevralgici dello stato, alle ambasciate occidentale ed alle caserme della NATO. L'uso di kamikaze, votati alla morte, ha reso più difficile l'azione preventiva delle forze governative, anche se il fallimento dei servizi segreti, gli unici in grado di fornire informazioni tali da anticipare le mosse dei terroristi, appare in questi momenti significativa. Sono occorse ben diciassette ore di combattimenti, con l'appoggio dell'aviazione leggera americana, per avere ragione dei combattenti talebani, che hanno dimostrato una notevole capacità militare, anche al di fuori dei terreni montuosi, a loro ben più congeniali. Nonostante le lodi del generale americano John Allen, che comanda l'ISAF, alle forze regolari afghane, è chiaro che il teatro di guerra di Kabul non rappresenta l'intero Afghanistan. La capitale del paese, oltre ad essere un teatro urbano, contiene al suo interno arsenali e caserme, sia dell'esercito locale che di quello NATO, che consentono un presidio costante ed una conseguente reazione rapida ad eventuali attacchi. Non così nelle zone montagnose del paese, che comprendono valli impervie ed inaccessibili e dove le forze talebane possono contare anche sull'appoggio di gran parte della popolazione. Tanto è vero che neppure i potenti mezzi dell'esercito americano, come gli altri eserciti che nel corso della storia ci hanno provato, sono riusciti ad avere ragione dei combattenti locali. Tuttavia, se fino ad ora i combattimenti più feroci si sono svolti proprio nei territori di montagna, l'attacco diretto a Kabul può essere un punto di svolta nella strategia talebana ed insieme rappresentare la consapevolezza della propria forza. E' un nuovo elemento da non sottovalutare per il prosieguo delle ostilità e della vita stessa dello stato afghano come è stato ricostruito dal 2001. La posizione di Karzai esce indebolita da un attacco così diretto al cuore del paese e probabilmente gli USA saranno costretti a rivedere la loro strategia di uscita, prevista per il 2014; inoltre l'attacco militare compiuto in grande stile, significa anche il fallimento dichiarato delle trattative dei mesi scorsi. Sul tavolo del Qatar, erano puntate le speranze americane di lasciare un paese pacificato, con il coinvolgimento di almeno quella parte di talebani che pareva più disposta al dialogo. Proprio questa divisione tra le varie componenti della galassia talebana, potrebbe fare pensare che gli autori degli attentati possano fare parte della parte più oltranzista, che con una tale operazione ha cercato, ed ottenuto, una maggiore visibilità mediatica. In ogni caso è inconfutabile che la capacità di infiltrarsi e di compier atti terroristici proprio nei centri di potere raggiunta dai talebani risulta essere notevolmente accresciuta. Ancora una volta il lavoro dei servizi segreti, come rilevato dal presidente Karzai, non è stato all'altezza e continua a rappresentare il tallone d'Achille del sistema difensivo interno. Se ad un certo punto la politica di Obama, di puntare meno sull'impatto bellico e potenziare sia i servizi di informazione, che il contatto con il tessuto sociale, mediante la costruzione di scuole e di ospedali, sembrava produrre buoni risultati, ora si torna clamorosamente indietro ed il paese, oltre che meno stabile, risulta in preda ad una frattura insanabile tra centri urbani e zone montuose, dove la sovranità del governo di fatto è inesistente. La volontà di compiere atti che hanno una cassa di risonanza così ampia è anche quella di colpire l'immaginazione del popolo americano nel momento del voto imminente. I sentimenti del cittadino medio sono combattuti tra volontà di affermazione della super potenza americana e la paura di finire in situazioni analoghe al Vietnam ed all'Iraq. Ma Obama non può, per ragioni strettamente geopolitiche abbandonare Karzai, che senza gli USA è un uomo morto. Un paese di nuovo in mano ai talebani è fuori dai progetti americani, perchè potrebbe tornare ad essere un serbatoio importante per il terrorismo internazionale. La questione diventa quindi di difficile soluzione. Probabile che per il momento il programma di ritiro resti invariato, ma dopo le elezioni qualcosa potrebbe cambiare.

Il pericoloso nervosismo di Israele

Nel comportamento di Israele nei confronti degli attivisti internazionali, che si erano dati appuntamento per l'inaugurazione di una scuola palestinese a Betlemme per denunciare la politica del controllo dell'accesso ai territori da parte dello stato ebraico, si ravvisa un comportamento pericoloso per lo svolgimento futuro della questione palestinese e degno delle peggiori dittature e forse elemento peggiore un comportamento autolesionistico che non può che denunciare lo stato di profonda confusione di cui è preda il governo di Tel Aviv. Minacciare le principali compagnie aeree europee di ritorsioni in caso di imbarco di persone presenti sulla lista dei non graditi, significa andare contro ogni logica del buon senso. Anche chi non parteggia apertamente con la causa palestinese non ha potuto fare altro che rilevare come i metodi usati da Tel Aviv sfiorino, oltre che l'inopportunità, anche una fonte di potenziale attrito con diversi paesi, che pure sono alleati di Israele. Cosa teme Israele da una protesta che in fondo non è diversa da molte altre, portata avanti si, da organizzazioni di altri paesi e quindi con rilevanza internazionale, ma in cui sono protagoniste associazioni che si presentano palesemente filo palestinesi, quindi che non portano alcuna novità alla causa della Palestina? La sensazione è che in altri tempi Israele avrebbe lasciato fare la manifestazione, controllandola da lontano, ma senza esporsi in modo così marcato di fronte ad un panorama internazionale che è completamente allibito. Ma il senso di accerchiamento e la continua tensione per la questione iraniana, devono avere alterato in maniera significativa il metro di giudizio del governo. Occorre dire, che sia la politica del controllo degli accessi e sopratutto la politica degli insediamenti abusivi dei coloni israeliani nei territori palestinesi sono atti di forza illegittimi, che il governo di Benjamin Netanyahu compie sapendo di infrangere accordi precedenti, nonostante insista ad incolpare i dirigenti palestinesi di non volersi sedere al tavolo della pace. La strategia di pressione politica messa in atto da Mazen, con la pressante richiesta di riconoscimento della Palestina all'ONU, ha, di fatto, messo all'angolo Israele, entrato nell'occhio mediatico e diplomatico internazionale. Tel Aviv non sapendo fornire risposte flessibili a causa di una rigidità di fondo, ha inasprito la sua politica costrittiva contro i palestinesi, imboccando una strada senza uscita. Il punto cruciale è che ora Israele è al centro di questioni più ampie, per le quali la soluzione pacifica e definitiva del problema palestinese rappresenterebbe un grosso contributo proprio per trovare la stabilità almeno regionale se non di settori più ampi. Questa attenzione innervosisce il governo che non può continuare una politica repressiva lontano da occhi indiscreti ed anche una banale manifestazione, ma con partecipanti internazionali è capace di turbare la situazione a tal punto da creare casi al limite dell'incidente diplomatico. Il culmine, quasi comico, è stata la patetica lettera del capo del governo israeliano agli attivisti, dove con toni da dittatore paternalista si invitava a dimostrare contro la repressione siriana o quella degli oppositori iraniani; cose che comunque non escludono di manifestare per la Palestina. Il tentativo di fare distogliere l'attenzione su Israele per rivolgerla su altre questioni ricalca uno schema già usato proprio da quei dittatori sui quali Netanyahu chiede di rivolgere le attenzioni dei sostenitori palestinesi. La situazione nervosa del governo israeliano si rivela dunque molto critica ed è un fattore che non può che destare forte preoccupazione circa la questione del nucleare iraniano, dove Tel Aviv ha più volte manifestato la volontà di un attacco armato preventivo. Quello che ne potrebbe derivare non è prevedibile ed il fatto che un arsenale nucleare sia in mano a chi assume iniziative così platealmente contro producenti innanzitutto per il proprio paese nono può che aggiungere motivi di enorme preoccupazione.

venerdì 13 aprile 2012

La distorsione politica dei governi tecnici

Un mezzo, che in futuro pare dovrà aumentare sempre di più, per permettere di governare le crisi economiche e finanziarie, dovrebbe essere costituito dalla rinuncia di quote di sovranità nazionale a beneficio di organizzazioni sovranazionali. Detto così potrebbe significare soltanto, in un quadro politico e normativo certo, il mero trasferimento di delega, attraverso il comune esercizio del voto, da rappresentanze esclusivamente nazionali a rappresentanze sovranazionali, comunque in grado di garantire una rappresentatività democratica capace di gestire le situazioni sia di ordine esecutivo che legislativo, che il momento storico attraversato vorrà presentare, attraverso la politica, intesa come esercizio democratico. Se così fosse, gli unici a potere obiettare qualcosa contro questo ordinamento potrebbero essere coloro che si riconoscono in movimenti locali o nazionalistici, che non riescono a superare l'idea di patria o nazione e pertanto non condividono l'unione tra stati, pur accomunati da reciproci fattori comuni, capaci di aggregare nazioni diverse. Sono obiezioni legittime che fino a questo momento rappresentavano l'unico elemento di contrarietà ad una spinta propulsiva definitiva che portasse, ad esempio, al compimento del processo per gli Stati Uniti d'Europa. Le crisi finanziarie, oltre ai tanti fattori negativi che hanno portato, sia di tipo economico, che sociale, sono anche riuscite ad incrementare la sfiducia, che ha passato le frontiere dei partiti nazionalisti o dei movimenti locali, verso la politica di unione perchè questa è stata scavalcata in avanti dalla costruzione di forme di governo artificiali, che non hanno nulla in comune con i risultati scaturiti dalle urne elettorali. La piaga dei governi tecnici, che provengono alla fine, da quegli stessi ambienti che hanno determinato le crisi finanziarie, è stato il colpo finale che favorirà il sentimento dell'anti politica. Cittadini delusi da classi politiche incapaci e non all'altezza, sia morale che tecnica, mancante, cioè, della totale capacità dell'esercizio dell'amministrazione della cosa pubblica, si vedono ora vessati da personale di governo, calato dall'alto, che percorre scopi, senza alcuna discriminazione di tipo politico, senza cioè alcun apparente criterio di scelta, in nome di obiettivi da raggiungere attraverso il mero uso della calcolatrice. Politiche fiscali troppo pressanti che non tengono conto della necessaria crescita e che per questo saranno vanificate, sono percorse in modo ottuso e con pochi compromessi con quei soggetti politici che costituivano i tradizionali interlocutori del dibattito politico. Questo è già realtà per Grecia ed Italia ed il rischio che la pratica si allarghi ad altri stati è ormai una certezza. Ci si avvia verso un nuovo feudalesimo, se possibile peggiore delle dittature, dove il consenso non è necessario perchè ciò che legittima il potere è il solo fattore economico, un potere sordo ed impermeabile alle critiche, tanto da non doverle neppure considerare come elemento di disturbo alla propria azione, un potere che per ora mantiene i riti della democrazia in vita, ma svuotandoli dei loro reali significati e che in futuro potrà cancellarli come inutili orpelli perchè rallentano l'azione governativa. D'altronde è proprio il diffuso sentimento, in gran parte giustificato, di avversione alla politica che costituisce un fattore facilitante della diffusione della tecnocrazia: l'impressione di competenza ed anche di onestà che spesso ispirano i tecnici maschera molto bene il fatto che svolgano la loro azione senza investitura popolare ed anzi che questa possa diventare non più necessaria in un futuro prossimo. Anni ed anni di uso distorto dei media hanno favorito uno spianamento delle coscienze e delle consapevolezze proprio di quei ceti che più dovrebbero esercitare i loro diritti democratici e che ora, invece, sono proprio quelle parti sociali che più avvallano l'avvento dei tecnici, non rendendosi conto di esserne le principali vittime. In nome dela tecnocrazia è più facile cancellare diritti ed indebolire conquiste per cui si è impiegato anni: non è la parte politica avversa che li propugna per un particolare programma politico, ma sono soltanto gli effetti che permettono di raggiungere un valore complessivo che scongiura qualche punto in meno di un indice borsistico. Appiattendo il confronto, che diventa asettico e privo della dialettica necessaria a sviluppare il classico dibattito politico, il raggiungimento dello scopo è quasi indolore perchè anestetizzato dai freddi dati presentati senza un necessario corollario programmatico decisivo per la sua comprensione. Insomma senza una limitazione urgente del ricorso al governo di tipo tecnico si richia la perdita della democrazia senza neppure rendersene conto, occorre perciò trovare alternative che consentano di superare le tradizionali differenze ideologiche tra le forze politiche, anche con forme di coalizioni temporanee, ma non imposte dal mercato, che permettano di recuperare alla politica il ruolo che le spetta.

I comportamenti comuni dei dittatori e la necessità di anticiparli

Dalle ultime vicende emerge chiaramente come lo schema mentale dei dittatori si muova su binari comuni, con similitudini impressionanti. In genere fin dai primi episodi di ribellione la risposta scelta è fin da subito quella violenta, accompagnata con un silenzio sul fatto di cronaca. Se la repressione pubblica riesce, segue una fase di annientamento degli oppositori operata dalla polizia, più spesso segreta, con rapimenti che sfociano in utilizzo di mezzi coercitivi violenti, che spesso possono concludersi con la soppressione fisica del catturato. Se gli episodi di protesta si ripetono e riescono, come ormai la diffusione dei mezzi tecnologici permette con una certa facilità, a varcare i confini del paese, i media in mano alla dittatura si affannano a presentare le rivolte come atti terroristici tesi a destabilizzare la nazione, più spesso definiti come eseguiti su mandato di potenze straniere. La potenza di fuoco messa in campo per stroncare il dissenso è sproporzionata alla forza dell'avversario, che, a quel punto, deve sperare in un aiuto esterno, meglio se sotto la copertura delle Nazioni Unite. Così è stato per la Libia, ma il contrario sta avvenendo in Siria. Nella fase intermedia del processo di ribellione, che non parte mai in modo violento, ma sempre più spesso su impulso di uno svariato numero di persone, che sfidano il regime in luoghi pubblici, spesso eletti a simbolo della protesta stessa, come la famosa piazza del Cairo, il dittatore, se in difficoltà, non tanto per quanto riguarda la politica interna ma piuttosto per quella estera, inizia a fare promesse per guadagnare tempo, sperando che la situazione volga in suo favore. Spesso le altre nazioni, cadono nel tranello e concedono tempo prezioso alla riorganizzazione della repressione, con azioni parallele di politica estera che devono fare presa su possibili nazioni alleate, sempre per interessi particolari strategici, geopolitici o economici. A questo punto, di solito entrano in gioco le sanzioni, che provocano effetti immediati negativi sulla popolazione, andando ad aggravare situazioni già molto difficili. Per lo stato oggetto di sanzioni gli effetti entrano ad avere una qualche ripercussione non con tempistiche veloci, grazie a riserve accumulate, che permettono un certo margine di gestione della situazione. Sul lungo periodo, quando gli effetti delle sanzioni iniziano a produrre conseguenze anche per il regime, la tattica può diventare di inasprire ulteriormente la repressione o fingere concessioni, che in realtà servono ad accreditarsi ad una opinione pubblica internazionale, ma che non hanno alcuna ripercussione sui diritti rivendicati. Un aspetto comunemente rilevato è il ricorso ad individuare forze esterne, altre nazioni o organizzazioni terroristiche esistenti, ma che spesso non sono protagoniste dei disordini, come responsabili delle agitazioni che causano la repressione dei regimi. Ciò implica una volontà ben precisa di non accreditare un ruolo politico all'opposizione o alle opposizioni interne, perchè semplicemente all'interno delle dittature non deve essere riconosciuta la presenza di idee o comportamenti al di fuori degli schemi prestabiliti. Si dovrebbe così ottenere il duplice scopo di auto accreditarsi un consenso generale, che in effetti non è presente e nello stesso tempo, di non offrire la sponda al coinvolgimento di altri soggetti nella ribellione. Le nazioni democratiche che vogliono contribuire ad eliminare le dittature e che si trovano coinvolte nel teatro internazionale come soggetti attivi, insieme alle organizzazioni internazionali, spesso non tengono conto di questi schemi, ormai provati e così facendo non anticipano le mosse delle dittature, sopratutto in ragioni di interessi di stabilità, che al contrario vengono proprio intaccati da episodi repressivi. Il ruolo delle Nazioni Unite è ancora troppo bloccato da regolamenti troppo stringenti sull'autonomia di funzionamento, per cui le risposte fornite, quando ci sono, avvengono in modo tardivo. Il problema della violenza su popoli interi, oltre a generare naturali sentimenti di ribrezzo, deve essere anche visto in maniera tale da individuarne le possibili conseguenze in un mondo sempre più globalizzato e legato da sistemi di causa ed effetto che vanno a ripercuotersi nello normale svolgimento della vita di un qualsiasi stato democratico. Per tutti valga il triste esempio delle migrazioni dei popoli in fuga non solo dalla fame ma dalle guerre e dalle repressioni. Si è assistito, con la guerra libica, a movimenti ingenti di masse di rifugiati verso le coste europee, dove hanno trovato stati totalmente impreparati alla gestione del fenomeno. La migliore tattica dovrebbe essere una azione preventiva a livello politico, mediante aiuti ed assistenza, per favorire la transizione democratica pacifica che riguardi tutti quei regimi potenzialmente pericolosi per la stabilità mondiale. Non si tratta di un pensiero utopico, ma di un progetto a lungo termine che è un investimento per la pace e la stabilità mondiale, che può essere affrontato soltanto, come primo attore da una organizzazione internazionale.

martedì 10 aprile 2012

La questione Falkland-Malvinas come uso distorto della politica internazionale

Il ritorno della questione delle Isole Falkland o Malvinas, nasconde le difficoltà, sul piano interno, della Presidentessa argentina Kirchner, che fa uso di una tecnica ormai abusata dei governanti alle prese con un calo di consenso. Per gli argentini le isole Malvinas sono una questione delicata e molto sentita, tanto da ritenere la sovranità britannica un abuso ed un episodio residuale di colonialismo. Questo sentimento è condiviso dalla maggioranza della popolazione e su questo fa leva la Presidentessa argentina per aggregare un sentimento nazionale partendo da basi politiche diverse, cercando di coinvolgere anche chi non condivide il suo credo politico e sopratutto ne contesta l'azione governativa. E' uno schema conosciuto bene ed altrettanto bene collaudato, che fa perno su questioni di politica estera, che consentono una facilità maggiore di dichiarazioni programmatiche, rispetto ad enunciare programmi di politica interna, meno soggetti a variabili incontrollabili e che consentono, in prima battuta, di diminuire il livello di attenzione sulle difficoltà interne, ed in seconda battuta, hanno risultati più facilmente manipolabili di fronte all'opinione pubblica. Quello che è singolare è però l'analogia con le difficoltà interne del premier britannico Cameron, cui la collega Kirchner offre, seppure inconsapevolmente, una sponda in un momento di altrettanto grande difficoltà per la situazione del Regno Unito. Cameron è alle prese con difficoltà finanziarie, pessimi rapporti con l'Unione Europea ed è coinvolto in uno scandalo, ben poco british, circa spese per cene e festini. L'assist della presidentessa argentina non potrebbe arrivare in un momento migliore, segnato dalla necessità, ancora una volta, di distogliere l'attenzione dei media inglesi dalla controversa azione politica del loro premier. La situazione è speculare, anche per gli inglesi, in questo vittima del vecchio retaggio dell'impero britannico, la questione Falkland ha un potenziale di unità enorme. Inoltre la vittoria della guerra di qualche decennio addietro, contro un'Argentina vittima della dittatura militare, evoca un forte richiamo alla forza della nazione. Anche allora lo schema ricalca quello che ora si sta ripetendo: una giunta militare in difficoltà tenta il colpo di reni cercando di riprendere un territorio da sempre sentito come appendice della nazione, ma perde la guerra e ciò ne causa l'inizio del declino, concluso con il ritorno della democrazia a Buenos Aires. Risultato contrario per la Lady di ferro Margaret Thatcher, che partendo da una situazione interna sfavorevole, grazie alla vittoria militare riprese quota nei consensi del popolo inglese. Aldilà della effettiva importanza sia strategica, che economica delle isole al largo del mare argentino, sopratutto in ottica di sfruttamento delle risorse dell'antartide, in questo momento storico è fortunatamente difficile che l'episodio militare possa ripetersi, anche se l'Argentina vorrà mettere in pratica le minacce di embargo economico. Tuttavia per lo studio delle dinamiche dei riflessi sulla politica interna da parte della politica estera ed il loro uso da parte di governanti in difficoltà le Falkland o Malvinas rappresentano uno dei più chiari esempi di utilizzo distorto, aldilà delle motivazioni dichiarate, per cercare di mascherare situazioni negative di politica interna, peccato che il bilancio dei morti oltrepassò quota ottocento vittime.

Truppe siriane aprono il fuoco in territorio turco

Un grave episodio capace di peggiorare ulteriormente il clima diplomatico nei confronti della Siria, è avvenuto al confine con la Turchia, dove, proprio nel territorio di Ankara, sono stati allestiti numerosi campi profughi per i siriani in fuga dalle violenze del regime di Assad. A Kilis, nell'Anatolia Sud Orientale, truppe siriane hanno aperto il fuoco contro il campo profughi e gruppi di fuggitivi che cercavano di raggiungerlo. La distanza, di poche centinaia di metri, dell'ubicazione del campo, dalla frontiera siriana ha facilitato il compito dei soldati di Damasco, che hanno provocato almeno un morto e diversi feriti. Le ragioni dell'assalto andrebbero individuate, nella volontà di compiere una rappresaglia ad un attentato avvenuto nella città siriana di Salama. Secondo le versioni di alcune organizzazioni umanitarie la polizia turca non avrebbe risposto al fuoco. Questo fatto può soltanto indicare la volontà, per ora, da parte del governo della Turchia, di non rispondere a provocazioni, che potrebbero allargare il conflitto. Le relazioni tra i due paesi sono ormai irrimediabilmente rovinate, da quando Ankara ha condannato la repressione violenta di Damasco ed ha aperto i propri confini ai fuggitivi siriani. Ma può essere anche l'indicazione di una impreparazione ad un eventuale attacco da parte del regime siriano, oltre i confini del paese, anche se è difficile valutare se l'azione contro Kilis, sia una iniziativa personale di qualche comandante siriano, sfuggita di mano o se rientra in un effettivo piano di allargamento del conflitto. Questa ipotesi potrebbe essere suffragata dal tentativo di Assad di distogliere l'attenzione della repressione in corso nel proprio paese, una strategia che il dittatore di Damasco ha attuato più volte con una tecnica di azioni veloci, a cui è seguita una immediata ritirata, che costringono l'opinione pubblica internazionale ha distogliere, seppure per poco, la concentrazione mediatica sulla guerra civile in corso. In ogni caso, queste iniziative erano per lo più di tipo diplomatico, con l'azione di Kilis la questione siriana sale un gradino nella possibile evoluzione degli eventi, ricordiamo che la Turchia è un membro della NATO e lo statuto dell'Alleanza Atlantica prevede un intervento militare, in alcuni casi automatico, in caso di aggressione ad un paese membro. Del fatto è sicuramente consapevole il governo di Damasco, a cui non piace sicuramente dare una occasione così chiara ad un intervento armato sul proprio territorio. Se questo è vero resta in piedi un errore umano, che però è significativo, sullo stato di tensione e di scollamento delle truppe fedeli al dittatore, con il centro di comando. Particolarmente significativa è la tempistica dell'episodio, che avviene alla vigilia dell'inviato dell'ONU Annan. Difficile che il fatto non sia oggetto di discussione, anche perchè lo sconfinamento in territorio straniero, può portare a conseguenze capaci dell'allargamento del conflitto. Tuttavia il governo turco, per ora non ha mostrato di volere compiere ritorsioni, assumendo un atteggiamento di grande responsabilità, come ha sottolineato il Ministro della Difesa Ismet Yilmaz, che ha affermato che lo stato turco deve obbligatoriamente considerare tutte le eventualità che potranno verificarsi e prepararsi quindi ad ogni situazione che si presenterà, ma che questo stato di allerta non significa necessariamente prepararsi ad una guerra. L'affermazione è chiara, avvisa i vicini siriani che non saranno tollerate altre invasioni, ma nel contempo, attende gli esiti della missione di Annan, atteggiamento senz'altro concordato con l'alleato statunitense.

venerdì 6 aprile 2012

Lo stato dei Tuareg si dichiara indipendente

Se, da una parte è stato citato, forse giustamente, il diritto all'autodeterminazione dei popoli, come motivo giustificante della lotta dei popoli tuareg, per la creazione di un proprio stato, culminata nella dichiarazione di indipendenza della regione a nord del Mali, denominata dagli stessi tuareg, Azaouad, dall'altro lato, occorre considerare come questa auto proclamazione in stato indipendente è maturata. Se è vero che la regione separata dalla nazione cui apparteneva, il Mali, è da sempre considerata la patria del popolo tuareg, che non hanno mai riconosciuto il paese con capitale Bamako, come proprio stato, ed hanno nutrito per anni sentimenti di indipendenza, il modo in cui è avvenuto questo distacco, tutt'altro che pacifico e concordato, genera naturali sospetti sulla natura e sul futuro della nazione nascente. Le alleanze con cui il Movimento Nazionale per la Liberazione della Azaouad, ha raggiunto il proprio scopo, gettano un'ombra lunga sulla stabilità regionale che va oltre i confini delineati dai separatisti tuareg. Del resto la situazione del nuovo paese è tutt'altro che chiara, nella regione continuano i saccheggi e le violenze, e non vi è una identità tra le forze che compongono i vincitori. Infatti se per i tuareg si tratterebbe di dare sostanza alle aspirazioni della creazione di un proprio stato autonomo, i combattenti islamici, che hanno partecipato attivamente al conflitto, auspicano la creazione di uno stato dove deve essere vigente la sharia. Non bastano a quietare una situazione molto complicata le promesse del Movimento Nazionale per la Liberazione della Azaouad (MNLA), di rispettare le frontiere con gli stati confinanti e la loro inviolabilità, dichiarando concluse le ostilità. Dal punto di vista diplomatico l'auto proclamazione di uno stato incontra serie difficoltà se non vi è alcun riconoscimento degli altri attori internazionali e per il momento non sembra che vi sia alcuna nazione intenzionata a compiere passi ufficiali verso la stato dei tuareg, sopratutto nessun paese africano. Il nuovo soggetto è così esposto alla rappresaglia internazionale, perchè formalmente ha rovesciato l'autorità di uno stato sovrano. Tuttavia la situazione del Mali, il cui governo legittimo è stato rovesciato da un colpo di stato, è oggetto di sanzioni internazionali e questo fatto, oltre che essere a favore dei rivoltosi, blocca ogni iniziativa internazionale ed anche della stessa nazione a cui è stata sottratta una parte consistente del territorio, che si è limitata a dire agli abitanti del nord del paese di opporre resistenza agli invasori, abbandonandola di fatto al proprio destino. AL momento, quindi la situazione è bloccata e nelle cancellerie si attendono gli sviluppi della situazione con uno stato di sotanziale allerta per i timori della costituzione di uno stato islamico integralista appena dopo le rive del Mediterraneo.

mercoledì 4 aprile 2012

Nel Mali pericolo della nascita di uno stato islamico

La questione del Mali rischia di diventare un focolaio sempre più pericoloso per l'occidente. Dal colpo di stato, giustificato con la necessità di contrapporre una politica repressiva alle istanze di libertà delle regioni settentrionali del paese, la situazione interna è precipitata. L'avanzata delle armate Tuareg ha imposto la legge islamica, la sharia, nelle città conquistate, praticamente cancellando il turismo da città come Timbuctù e gettando sul lastrico una economia già in grossa difficoltà. Le violenze dei ribelli hanno provocato la fuga di almeno 200.000 persone, che fuggono nelle nazioni vicine Mauritania, Niger, Burkina Faso e in Algeria e nelle zone interne del paese, per sfuggire alla fame e sopratutto ai combattimenti in corso, determinando una frattura territoriale dello stato del Mali, ormai diviso in due. Quello che preoccupa maggiormente le cancellerie occidentali è la possibile saldatura tra i tuareg, i salafiti ed Al Qaeda, che da queste vicende potrebbe avere nuovi e positivi impulsi da innestare in una organizzazione che pareva in disarmo. In realtà quello che muove gli uonimi blu sarebbero ragioni più pragmatiche ad allearsi con gli estremisti islamici, come il controllo dei fiorenti traffici di droga, persone ed armi, che transitano nelle regioni ora occupate. Tuttavia anche questo aspetto non è da sottovalutare, sopratutto se unito con le motivazioni dei gruppi estremisti, che potrebbero trarre anch'essi vantaggio dai movimenti di merci di contrabbando, sopratutto in un'ottica di riorganizzazione di tutto quel movimento variegato che si richiama al terrorismo islamico. In questo quadro il colpo di stato nel Mali, aggrava una situazione già di per se preoccupante; l'instabilità del paese africano non consente una risposta militare adeguata all'avanzata dei tuareg, ma, neppure, un interlocutore affidabile per i paesi occidentali, preoccupati dagli effetti di una spaccatura del paese con una parte costituita in repubblica islamica, in una zona già monitorata per i possibili rifugi che già potava offrire in regime di clandestinità a gruppi terroristici. In quadro, per così dire istituzionalizzato, per Al Qaeda raccogliere proseliti anche fuori dal paese, tra gli emarginati e gli esaltati della religione islamica sarebbe molto più agevole, disponendo di territori al di fuori del controllo di forze istituzionali. Tuttavia la parte moderata del movimento dei tuareg minimizzano su queste alleanze, che presentano come strategiche per il raggiungimento dell'obiettivo di controllare la regione di Azawad ritenuta la patria dei nomadi, che dovrà diventare la Repubblica Islamica Azawad. Ma i successi dei tuareg hanno provocato una grande ondata di risentimento nella popolazione del Mali nei confronti degli autori del colpo di stato, ritenuti una causa del successo dell'avanzata degli uomin blu. Il colpo di stato ha interrotto la catena di comando dello stato, non permettendo di fornire una adeguata risposta militare alle mosse di tuareg. Inoltre il paese è stato gettato, proprio a causa del colpo di stato nell'isolamento internazionale ed oggetto di sanzioni, che hanno scatenato una corsa all'accaparramento dei beni alimentari, che, a loro volta, hanno causato violenze e saccheggi. E' una situazione sia politica che diplomatica complicata, lo stato del Mali rischia di perdere una gran parte del proprio territorio e l'occidente di trovarsi a pochi chilometri di distanza un nuovo stato, base ideale per il terrorismo islamico. La situazione, per ora fluida, rischia di diventare un nuovo caso per il Consiglio di sicurezza dell'ONU, con i probabili relativi contrasti e la necessità di agire per impedire una soluzione del caso che si preannuncia difficile e poco conveniente per chi vuole la stabilità della regione.

martedì 3 aprile 2012

Sale la disoccupazione nell'area euro

La zona euro è alle prese con un nuovo rialzo della disoccupazione, avendo toccato la quota record del 10,8% a febbraio. Si tratta del valore più altro da quando è stata creata la moneta unica. E' una tendenza che non subisce variazioni essendo ben dieci i mesi consecutivi che il dato oltrepassa il 10%. Siamo davanti, ormai ad una crisi strutturale del sistema euro, causata dall'indebitamento degli stati e da un periodo recessivo che appare divenuto sistemico. L'economia paga una navigazione a vista, che non comprende politiche e programmi di grande respiro e che, sopratutto, sconta divisioni profonde tra le vedute dei singoli governi non coordinati dall'istituzione centrale europea. E' proprio la debolezza politica di Bruxelles, uno dei punti deboli dell'intero sistema dell'euro, non avendo i necessari strumenti giuridici gli eurocrati si limitano a recepire le decisioni degli stati più forti, che si sono arrogati la guida dell'euro, subendo anche decisioni in contro tendenza con lo spirito comunitario. L'assenza di una politica finanziaria comune, che riesca a pianificare la necessaria costruzione delle infrastrutture, ormai insufficienti, è poi una causa della disoccupazione direttamente discendente dalla mancanza di programmazione politica. Ma manca anche un necessario supporto centrale alle imprese, capace di supportarle, sia negli aspetti legali, che economici, che organizzativi, nei confronti dei paesi emergenti, che possono, per ora opporre una maggiore competitività, grazie al migliore costo del lavoro e processi burocratici più snelli. I dati sulla disoccupazione, oltre che un chiaro segnale di difficoltà economica, che si riflette nell'ambito sociale, rappresentano un grave fallimento delle politiche comunitarie incapaci di imporsi su quelle statali e di arginare il fenomeno, che, per altro, si riflette anche nella forza lavoro immigrata, anch'essa colpita dal trend negativo. Significa che oltre al lavoro più qualificato, mancano le occasioni per impieghi di minore professionalità. Il risultato è una economia sempre più avvitata su se stessa a cui alla attuale fase recessiva, seguirà la stagnazione. La sempre minore disponibilità del sistema di liquidità non potrà che peggiorare le cose mandando definitivamente in crisi oltre che l'industria, anche il commercio, andando ad aumentare l'esercito dei senza lavoro, con ovvie ricadute sulla stabilità sociale. Se il dato aggregato europeo è del 10,8%, la situazione europea vista nei singoli paesi è tutt'altro che uniforme e si presenta a macchia di leopardo. La Spagna ha un tasso di disoccupazione addirittura peggiore di quello greco 23,6% contro il 21%, Portogallo ed Irlanda si aggirano attorno al 15% ed in Italia è del 9,3%. Questi sono i casi più gravi, chiaramente influenzati dalla ricaduta degli effetti del debito pubblico, che toglie finanziamenti alle imprese, costrette a tagliare sul personale. Meglio va in altri paesi come in Austria (4,2%), Paesi Bassi (4,9%), Lussemburgo (5,2%) e Germania (5,7%). In Belgio, il tasso di disoccupazione è salito al 7,2%. Difficile essere avere previsioni positive su quei paesi che hanno fortemente tassato i redditi fissi per riparare ai guasti di finanze pubbliche dissennate e che, guarda caso, sono anche quelle nazioni dove si registrano i valori di disoccupazione più elevati. Minore disponibilità di potere di acquisto non può che fare contrarre la spesa per famiglia e lasciare la merce invenduta nei magazzini, con il conseguente abbassamento degli ordinativi industriali e quindi ulteriore taglio occupazionale. Senza politiche del lavoro in grado di contenere la parte del salario direttamente girata verso le tasse, non può innescarsi alcun circolo virtuoso; se lo stato ha bisogno di nuove entrate occorre che si rivolga non più al lavoro ma al capitale, ormai non è più solo una questione di equità sociale.

lunedì 2 aprile 2012

Mali: dai Tuareg il pericolo di un nuovo stato islamico radicale

Quello che sta succedendo in Mali può portare alla nascita di un nuovo stato islamico radicale con la sharia come legge vigente. La preoccupazione corre nelle capitali occidentali, che temono che una consistente porzione di territorio diventi la base ufficiale di gruppi estremisti capaci di mettere a segno atti terroristici in nome dell'Islam.
Il problema del nord del Mali somma diverse questioni che costituiscono pericolosi focolai di instabilità. Infatti si tratta di questioni politiche, culturali, demografiche, economiche e geopolitiche. L'avanzata dei Tuareg si sta sviluppando nelle tre regioni settentrionali, che hanno una estensione pari ai due terzi del Mali, ma con una densità di popolazione più bassa ospitando il 20% del totale degli abitanti. La rivolta è in corso dal 17 gennaio ed ha avuto l'impulso decisivo con il ritorno dei Tuareg che hanno combattuto e perso la guerra in Libia a fianco di Gheddafi, di cui erano un corpo scelto. Si tratta di contingenti ben armati ed equipaggiati, capaci di occupare militarmente un terreno parzialmente sguarnito e fortemente instabile per la massiccia presenza di trafficanti di persone, armi e droga, e vari gruppi terroristici come cellule di Al Qaeda e gruppi di salafiti. Proprio a causa di queste presenze non gradite ad Algeri, si è ipotizzato che dietro l'avanzata dei Tuareg ci sia anche il benestare dell'Algeria, tuttavia se questa ipotesi potrebbe essere corroborata da un interesse per la salvaguardia delle proprie frontiere, occorre anche rilevare che le manovre dei Tuareg stanno generando un esodo di massa da parte delle popolazioni del Mali in fuga dalla guerra, che stanno attraversando anche la frontiera algerina.
I Tuareg hanno conquistato le città di Timbuctu e Gao, abbandonandosi a saccheggi ed atti di violenza contro la popolazione del Mali, sopratutto da parte degli arabi indigeni e dei salafiti.
Le vittorie dei tuareg sono state facilitate anche dal caos amministrativo in cui versa il Mali, dove lo scorso 22 marzo un colpo di stato ha deposto il presidente in carica Amadou Toumani Touré. Tuttavia l'autore del golpe Il capitano Amadou Sanogo ha dichiarato che restituirà il potere nei prossimi giorni con il ripristino della costituzione del 1992 e delle istituzioni repubblicane, invitando le parti sociali a tenere libere elezioni. Ma per un vuoto di potere non è il momento adatto e per il Mali la situazione rischia di diventare ancora più compromessa, anche se gli obiettivi dei Tuareg dovrebbero essere stati tutti raggiunti e non dovrebbe esserci, quindi una ulteriore avanzata. Resta alta la tensione nella Comunità economica degli Stati dell'Africa Occidentale, già in allerta per il colpo di stato nel Mali ed ora preoccupata per le conseguenze della ribellione Tuareg all'interno del territorio dell'organizzazione. Una forza armata di circa 2000 uomini sarebbe già pronta, su mandato della Comunità, per intervenire contro le forze dei Tuareg. Si rischia così una nuova guerra, che potrebbe coinvolgere anche le potenze occidentali, che come già rilevato, temono fortemente una deriva islamista radicale nelle zone occupate.

La Birmania verso la democrazia, potrebbe diventare strategica per gli USA

Per la Birmania si apre un nuovo periodo. Con la vittoria della Lega Nazionale per la Democrazia, il partito del premio Nobel per la pace, Aung San Suu Kyi, che dovrebbe conquistare 44 dei 45 seggi in palio per questa tornata elettorale, il paese asiatico si avvia sulla strada della democrazia. Le elezioni, per cui si temevano intimidazioni e brogli, si sono svolte praticamente senza alcuna eccezione di rilievo, come appurato dagli osservatori internazionali, ammessi dal regime. La vittoria della leader è stata schiacciante, raggiungendo il 99% dei voti nella circoscrizione di Kahwmu, una rivincita sul regime che l'aveva costretta al silenzio tramite la detenzione. Questo risultato rappresenta il sentimento del paese e la voglia di cambiamento per affrancarsi dalla dittatura militare, che ha tenuto lo stato in una condizione di arretratezza sia economica che culturale, grazie ad una politica di sistematica soppressione dei diritti. Ma il clima, nella stessa forza di governo, è cambiato, la necessità di uscire dal duro regime delle sanzioni, ha favorito la progressiva apertura dei militari verso un sistema, che pur essendo ancora lontano dalla democrazia, vi si inizia ad avvicinare. Non si dovrebbe ripetere la situazione del 1990, quando il partito di Aung San Suu Kyi, vinse le elezioni, ma la vittoria non fu riconosciuta e la Signora, come viene definita la permio Nobel, fu relegata agli arresti domiciliari. Anzi alcuni analisti ipotizzano che per il governo in carica è meglio la vittoria della Lega Nazionale per la Democrazia, in quanto non potrebbe esistere garanzia migliore per testimoniare la reale intenzione della volontà di chi sta al potere di volere e legittimare il cambio democratico in atto. Se attualmente il partito della Signora diventa così la seconda forza del paese, potenzialmente è già la prima, diventando in grado di influenzare le prossime cruciali scelte del paese per farlo uscire dalla condizione di estrema povertà in cui versa. Occorrerà, comunque verificare le reali intenzioni e la reazione dei militari, che stanno ancora dietro al governo in carica, al risultato elettorale, che era comunque largamente previsto. Ma il regolare esito delle votazioni e l'invito agli osservatori internazionali, non possono che fare sperare in un futuro positivo. Se così sarà le dure sanzioni a cui è sottoposto il paese dovranno essere cancellate e per la Birmania democratica sarà oggetto di aiuti internazionali, specialmente dagli USA, che intendono allargare la loro influenza sulla zona del Sud Est asiatico in funzione anti cinese. Si tratta di una influenza non certo militare ma economica, su di un territorio che potrebbe diventare chiave sia per i traffici che per gli investimenti produttivi, grazie ad una manodopera a basso costo. Per gli USA potere collaborare con un sistema democratico in una zona ritenuta strategica è molto importante per arginare lo strapotere economico cinese. In quest'ottica vanno viste le dichiarazioni entusiastiche, circa il risultato elettorale birmano, che sono uscite dalla Casa Bianca.