Politica Internazionale

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giovedì 29 novembre 2012

Il cambiamento egiziano, pericoloso precedente nelle primavere arabe

La successione temporale, tra l'importante ruolo di mediazione giocato nel conflitto tra Hamas e lo stato di Israele, ed il cambiamento di atteggiamento verso le regole democratiche, assunto dal presidente egiziano Mursi, non sembra affatto casuale. Il sospetto è che la massima carica del paese delle Piramidi, abbia sfruttato un momento di grande favore da parte dell'opinione pubblica internazionale, per mettere in atto un cambiamento che non poteva non essere stato pensato precedentemente, ma che la crisi della striscia di Gaza ha soltanto accelerato nella sua realizzazione. D'altra parte la decisione di emanare il decreto tanto contestato, che rende le decisioni di Mursi inappellabili, non pare trovare motivazione alcuna, se non quella di interrompere lo sviluppo democratico iniziato con la primavera araba e culminato con le elezioni, che hanno proclamato proprio Mursi alla carica presidenziale. Quella che manca è una causa oggettiva e reale che abbia determinato la promulgazione di una legge di tale tenore, se non il compimento di un disegno tendente a riportare il paese, sostanzialmente ad uno stato di regime. Il significato della disposizione regala alla carica di presidente egiziano, poteri addirittura superiori a quelli detenuti dal deposto Mubarak ed il carattere di temporaneità, addotto da Mursi come una delle scuse usate per contrastare le proteste, non giustifica l'instaurazione di disposizioni così liberticide. Neppure la volontà proclamata di arrivare ad un dialogo nazionale tra tutte le forze politiche per giungere ad una intesa nazionale sulla Costituzione, può rappresentare un valido argomento a sostegno della via scelta, che imbocca una strada del tutto opposta a quella democratica. Il risultato è ora quello di un paese spaccato in due, con il funzionamento della giustizia paralizzato dallo sciopero della magistratura, a cui Mursi ha cercato di porre rimedio sostituendo il più alto funzionario in carica, con un uomo di sua fiducia. Così piazza Tahrir è tornata a riempirsi di dimostranti, sostanzialmente contrari alla fratellanza musulmana, il partito al governo, di cui Mursi è espressione. Lo svolgimento della vicenda, ben lontana da una conclusione, porta ad amare riflessioni sui reali sentimenti, verso la democrazia, dei partiti confessionali, come purtroppo temuto da più parti. La mancata affermazione delle formazioni laiche, rischia, che i peggiori timori, circa la reale propensione ad un sereno dibattito sulle regole della vita dello stato, da parte dei partiti di orientamento musulmano si avverino con tragica puntualità. La lotta che si sta combattendo per l'elaborazione della legge fondamentale del paese ha preso una piega dove i musulmani hanno gettato la maschera e non intendono tenere conto delle istanze delle minoranze (principalmente i laici ed i cristiani), portando avanti un progetto quasi teocratico palesemente in contrasto con il rispetto di tutte le parti in causa. Nei prossimi giorni, proprio Piazza Tahrir, luogo simbolo della lotta contro il dispotismo, sarà teatro di una manifestazione organizzata dai Fratelli Musulmani a sostegno del Presidente Mursi, sarà quello il momento cardine per capire la reale direzione che la parte al potere vorrà prendere. L'impressione è di essere di fronte ad un progetto di instaurazione della legge islamica in un paese tutt'altro che in accordo su questa via. La realtà sembra essere quella di una nazione che si avvia dal dispotismo laico di Mubarak ad un dispotismo confessionale, che, ai fini della democrazia, non muta la sostanza della pressione oppressiva sulla popolazione. Se è vero che la salita al potere dei partiti confessionali si è svolta in maniera democratica, lo svolgimento della vicenda pare attestarsi su di un esercizio di questo potere contraddistinto dall'abuso e dalla forzatura. L'atteggiamento di Mursi rivela però, la chiara paura di una affermazione di valori che possano mettere in discussione l'orientamento verso i precetti islamici tradotti da regole religiose in disposizioni civili. Questo aspetto è molto importante, perchè Mursi ha sempre professato una elaborazione e la conseguente applicazione delle leggi, slegata dagli aspetti confessionali, assicurando più volte, che la salita al potere di una formazione religiosa non era in contrasto con i principi democratici universali. Ciò non sta però ora avvenendo, non è chiaro se Mursi agisca di propria volontà compiendo un personale disegno o, più probabilmente, è in accordo con quella parte di mondo islamico, di cui è esponente, portatore di una visione ristretta alla dimensione confessionale della vita politica e sociale del paese. In ogni caso il tradimento è evidente, sia di fronte alla totalità della nazione, che attendeva un miglioramento sostanziale rispetto alla precedente condizione, sia di fronte al panorama internazionale, che pensava alla nazione egiziana come esempio per altri paesi, proprio per l'importanza storica del paese. Difficile non prevedere che le relazioni con l'occidente potranno subire un irrigidimento tutt'altro che positivo, sopratutto, pensando al ruolo egiziano in medio oriente, ma è questa, al momento l'unica speranza dei dimostranti contro il presidente egiziano: l'azione di convincimento delle cancellerie occidentali alla ripresa del percorso democratico così maldestramente abbandonato.

martedì 27 novembre 2012

L'incremento demografico delle zone povere sarà sempre più pericoloso gli equilibri mondiali

Il rapporto diffuso dall'UNICEF in occasione della giornata mondiale dell'infanzia, presenta dati preoccupanti circa l'incremento demografico generale, su quello del continente africano e su quello dell'infanzia nelle zone povere. Le previsioni dicono che nel 2025 le nascite saranno concentrate, per un terzo del totale, in Africa, dove vi sarà un dato analogo relativamente alle persone con meno di diciotto anni. Questi valori presentano un brusco cambiamento nella serie storica dei dati statistici, che contavano appena un bambino su dieci nato in Africa, su quelli nati nel mondo nel 1950. All'interno del dato di previsione, che evidenzia in maniera sostanziale i cambiamenti e le tendenze demografiche future, è compreso il fatto che i decessi dei bambini sotto i cinque anni saranno concentrati nell’Africa subsahariana. Il totale della popolazione, nel 2025, avrà un incremento di un miliardo di persone, passando dall'attuale totale di sette miliardi ad otto miliardi di abitanti, dove un miliardo sarà composto da bambini, di cui il 90% collocato nelle regioni meno sviluppate. La scomposizione dei nati da ora al 2025, valutati in due miliardi di individui, avrà la maggiore concentrazione, circa un quarto, nei 49 paesi classificati come sottosviluppati, mentre 860 milioni di persone nasceranno in nazioni già molto popolose, ma con buone prospettive di crescita come: Cina, India, Indonesia, Pakistan e Nigeria. Proprio la Nigeria dovrebbe registrare l'aumento più consistente, annoverando 31 milioni di persone sotto i 18 anni, con, però, il dato previsionale di un decesso di una persona su otto in questa fascia di età. Da qui al 2025 mancano ancora poco più di dodici anni, su questa previsione, che proviene da un ente altamente attendibile, si può ancora incidere, lavorando per cambiare dati che rischiano fortemente di compromettere equilibri mondiali molto labili. Un incremento così forte in stati poverissimi, si può contrastare con politiche demografiche, che siano tese alla riduzione della natalità, associate ad investimenti che permettano una sussistenza autonoma di partenza, che debba poi evolversi in economie di tipo più maturo. L'alternativa è fornire uomini, come merci, al mercato dell'emigrazione illegale, destinata ad assumere proporzioni di esodo biblico, di cui si sono già avuti esempi sostanziali con le recenti carestie, avvenute nella regione del Corno d'Africa. Strettamente connesso con questo fenomeno vi sarà l'aumento dell'influenza dell'estremismo islamico, che avrà facile terreno di coltura, in una situazione esplosiva, dove sarà facile addebitare, come in parte è vero, la mancanza di cibo ai paesi occidentali. Non esistono quindi, soltanto ragioni umanitarie, che dovrebbero comunque essere quelle più rilevanti, per cercare di cambiare queste previsioni, sono presenti anche ragioni di chiara opportunità politica ed economica, che richiedono una pronta risposta sia in sede sovranazionale che presso i singoli stati più ricchi. Le pesanti carestie avvenute recentemente non hanno saputo fornire risposte che andassero aldilà della pura emergenza: forniture di generi alimentari in grado di mitigare temporaneamente il bisogno immediato di cibo. Non vi è stato, viceversa, o vi è stato in maniera non incisiva perchè limitata ad alcuni progetti pilota, una azione organica di lungo periodo capace di dare il via alla soluzione definitiva del problema alimentare nelle zone più sottosviluppate. Non che questa operazione sia facile, ci si muove in una zona che non ha ricchezze naturali tali da richiamare investitori in grado di contribuire alla cronica mancanza di infrastrutture, inoltre la sicurezza è un aspetto, purtroppo molto aleatorio, per la presenza di bande criminali e gruppi estremisti, che sono in grado di ostacolare, spesso con la scusa della religione, l'intervento delle associazioni umanitarie. Occorre quindi una presenza militare capace di pacificare le zone di intervento, come atto preventivo di una eventuale azione di intervento infrastrutturale. La necessità di costruire canali di irrigazione e strade è il primo passo da compiere per potere aspirare ad una autosufficienza economica, che possa scongiurare, almeno in parte, le fosche previsioni del rapporto UNICEF. Pur in tempi di crisi economica così grave per i paesi ricchi, i loro governi devono trovare le risorse da investire affinchè la mortalità infantile, ed in generale per fame sia combattuta, nel contempo le istituzioni sovranazionali come l'ONU devono aumentare il loro impegno al di fuori dell'emergenza, proprio per evitare ulteriori emergenze, altrimenti la polarizzazione nord-sud del pianeta è destinata ad aggravarsi con risultati allarmanti sia per la geopolitica, che per la sicurezza e per l'economia.

lunedì 26 novembre 2012

USA: Partito Repubblicano le ragioni della sconfitta e la necessità del cambio di atteggiamento

Negli USA, il dopo elezioni ha portato nel Partito Repubblicano un momento di forte contrasto, dettato dal pessimo risultato elettorale, che oltre a non raggiungere la vittoria nella corsa per la presidenza, ha anche subito un calo di seggi al Senato. La situazione attuale è quella di un partito spaccato in due, con, da una parte, il vecchio gruppo dirigente ed i suoi seguaci e, dall'altra gli esponenti del Tea Party, che rappresentano la nuova tendenza all'interno del movimento conservatore statunitense. Pur avendo diversi punti in comune, le due parti sono, nel contempo, molto distanti sulla concezione intrinseca con cui praticare l'azione politica. Il gruppo dirigente è composto da personale più navigato ed esperto, che, pur restando nei binari del conservatorismo, agisce in modo più pragmatico per il raggiungimento dell'obiettivo. Tuttavia questa caratteristica, nelle ultime elezioni, è stata frustrata da un candidato inadatto, frutto di una scelta basata su troppi compromessi, che ha puntato su di una persona spesso in contraddizione anche con se stessa. I continui errori, compiuti a ripetizione, hanno vanificato le possibilità di vittoria esistenti, fondate sulla delusione dell'azione in campo economico di Obama. L'avere snobbato il voto femminile e quello delle minoranze etniche ha denunciato i limiti di una campagna impostata sulla base elettorale certa, senza cercare il consenso in altre aree attraverso l'elaborazione di programmi, che pur restando nel solco conservatore, sapessero richiamare anche un tipo di elettorato nuovo, oramai necessario per arrivare alla vittoria. Non pare però possibile che la scelta di Romney sia stata presa con tanta leggerezza, ben sapendo i limiti del candidato a cui si affidava la competizione. Quello che emerge è un partito ingessato e privo di linfa vitale e sopratutto arroccato su posizioni ormai troppo lontane dalla base. Del resto è questa, sostanzialmente, l'accusa che proviene dal Tea Party: un allontanamento dalla base, incapace di essere coinvolta anche a livello emotivo, dal programma del candidato presidente. Se il Tea Party ha indubbiamente ragione, vi è però da dire, che la parte direttiva del partito accusa il movimento di avere preso una strada troppo di destra, spesso coincidente soltanto con il comune sentire dell'America più profonda, legata alle questioni religiose e troppo lontano dagli effettivi problemi che uno stato multietnico come gli USA deve quotidianamente affrontare. Ma se questo è vero occorre dire che Romney non ha certo incarnato i valori di una destra moderna, capace di confrontarsi con elasticità alle sfide attuali; semmai la percezione che il candidato repubblicano ha trasmesso è stata di essere troppo elitaria, il che non può certo piacere ai seguaci del Tea Party. L'errore di tutto il movimento è stato quindi di scendere troppo a compromessi con due visioni che erano quasi opposte e non sapere trovare una sintesi capace di produrre un candidato che sapesse ridurre le distanze anzichè aumentarle. La lezione non è da poco, senza sapere compattare fino ad unire queste due anime del partito, i repubblicani hanno poche speranze di incidere nell'immediato sulla politica delgi Stati Uniti. Il futuro perà può dare già delle opportunità per operare dei cambiamenti strategici in attesa di tempi migliori. Nello scorso mandato l'ostruzionismo praticato dai repubblicani in sede istituzionale è stato, spesso, la causa di veri e propri blocchi all'attività dell'apparato statale, una strategia controproducente, che non è irragionevole individuare come una delle cause della sconfitta elettorale. Se non vi sarà un cambio di rotta sarà difficile poi presentarsi come paladini degli interessi nazionali, viceversa un atteggiamento più duttile, che possa dimostrare la partecipazione a scelte che possano favorire azioni tese a favorire le riforme, potrà presentare il Partito repubblicano come una forza più responsabile, non ferma ad inutili posizioni di principio. I prossimi appuntamenti riguarderanno la riforma fiscale e la legge sull'immigrazione: si tratta di due prove cruciali, non solo per la maggioranza, ma, in un'ottica di lungo periodo, ancora di più per la minoranza, che è chiamata ad esercitare un ruolo più attivo del semplice rifiuto. Una partecipazione attiva alle decisioni, impostata su di un dialogo differente potrà generare una nuova immagine del partito, maggiormente disposta a collaborare con un governo di segno opposto, portando alla discussione la propria esperienza e le proprie esigenze, esercitando un ruolo costruttivo anche dalla parte dell'opposizione.

venerdì 23 novembre 2012

La Cina nuovo protagonista nel Medio Oriente

Una delle novità più importanti emerse dalla fine dei recenti combattimenti tra Israele ed Hamas, avvenuti nella striscia di Gaza, è il nuovo ruolo che la Cina sta cercando di ritagliarsi nelle questioni medio orientali. Pechino è stata sollecitata dagli arabi, in particolare dal piccolo Partito Comunista Palestinese, ad intervenire con un ruolo di mediazione per la soluzione del conflitto e lo ha fatto, sbilanciandosi, dalla parte dei palestinesi. Questo sostegno implica un dialogo privilegiato con il movimento che ha il maggior peso politico nella striscia di Gaza. Per Hamas, del resto, avere un sostegno direttamente all'interno del Consiglio di sicurezza, può rappresentare un bilanciamento allo stretto rapporto di cui gode Israele con gli Stati Uniti. Se ciò si verificasse, i rapporti di forza all'ONU potrebbero cambiare radicalmente a danno di Tel Aviv, che vedrebbe compromessa la sua libertà di azione, che ha ottenuto ben poche condanne, in funzione di possibili future censure, come ad esempio sul tema degli insediamenti dei coloni. Il cambiamento di Pechino, circa il suo consueto approccio alla poltica estera, che ha finora previsto la non ingerenza negli affari interni degli stati come regola di comportamento, potrebbe significare una svolta epocale nel panorama internazionale ed il primo segno tangibile della volontà di esercitare attivamente un ruolo da grande potenza. La questione israelo palestinese, costituirebbe una buona occasione per cimentarsi in una contesa da troppi anni irrisolta, con un ruolo da protagonista. La posizione ufficiale cinese è quella di sostenere l'efficacia della tregua, in una maniera non neutrale; infatti Pechino, pur esortando entrambe le parti al cessare il fuoco, ha messo particolare enfasi per fermare l'azione israeliana, ritenuta troppo violenta. Vi è anche un altro elemento che fa pendere la preferenza cinese verso i palestinesi ed è il pieno appoggio alla domanda di adesione dello stato della Palestina come membro osservatore presso l'ONU. Questo cambiamento di atteggiamento della Cina, forse già frutto del nuovo corso uscito dal recente congresso, non potrà che determinare contrasti con l'amministrazione americana, principale alleato di Israele e unica potenza estera ad agire nell'area. Delle possibili e probabili reazioni americane non possono non essere consci i dirigenti cinesi, la mossa di Pechino non può essere casuale, se la Cina ha messo in conto complicazioni diplomatiche, deve, per forza, avere valutato di trarre sviluppi positivi. Le valutazioni cinesi possono essere sia della già citata volontà di perseguire un ruolo di grande potenza, sia di avere solidi argomenti per i futuri rapporti che intende allacciare con il mondo arabo. Le questioni economiche sono molto spesso alla base delle azioni cinesi e la volontà di stringere sempre nuovi accordi con i maggiori produttori di petrolio potrebbero avere causato la virata verso la causa palestinese, da sempre al centro dei sentimenti dei paesi arabi. Tuttavia giudicare soltanto sulla base degli interessi cinesi i possibili sviluppi della nuova situazione che si sta andando a creare può essere riduttivo. La presenza di un soggetto così importante, sia nell'area, che nella questione a livello politico, potrebbe favorire un dialogo più equilibrato, che potrebbe convenire anche all'amministrazione americana non proprio in sintonia con il governo di Tel Aviv. Quello che potrebbe accadere con la presenza cinese potrebbe favorire un processo di pacificazione più duraturo che potrebbe consentire di mettere lel basi alla costruzione della nazione della Palestina, finalmente come stato indipendente.

giovedì 22 novembre 2012

Dopo il conflitto. Riflessioni sull'accordo tra Israele ed Hamas

Raggiunta la tregua i due schieramenti si proclamano entrambi vincitori, e, lasciando da parte il tragico bilancio dei morti, si può ritenere che ciò contenga elementi di verità, anche se con distinzioni molto importanti. Israele ha mostrato la propria forza militare, non solo funzionale all'occasione specifica, ma anche come monito futuro a chi vorrà attentare al proprio territorio, sia in senso stretto, che in senso più ampio, cosa che vale sopratutto per l'Iran. Malgrado le vittime palestinesi provocate, Israele può uscire dalla vicenda con un atteggiamento gradito alle potenze occidentali, in particolar modo agli Stati Uniti, per non avere voluto strafare con una operazione di terra, più volte minacciata, finendo per dimostrare senso di responsabilità ed ascolto delle indicazioni dell'occidente. Nel contempo, però la trattativa con Hamas, ottiene il risultato politico più importante per Tel Aviv: il discredito dell'ANP e di Abu Mazen, lasciati ai margini della vicenda e mai entrati in gioco. L'avversione di Israele verso Abu Mazen è cresciuta in maniera esponenziale dopo che il Presidente dell'ANP ha portato avanti il suo progetto di riconoscimento della Palestina come stato osservatore all'ONU, elemento di profondo disturbo, a livello internazionale, per Tel Aviv. Ora l'esclusione, praticamente totale, dai negoziati per la pace, pongono l'ANP in una posizione sfavorevole come portavoce di tutti i palestinesi. Tuttavia questo obiettivo centrato dagli israeliani, rischia di diventare un boomerang per Tel Aviv, in quanto l'ANP è sempre stata la parte più moderata dei palestinesi con cui rapportarsi. La crescita di importanza di Hamas sul piano diplomatico, può essere parte di un disegno di Israele più complesso, di cui la parte politica che governa la striscia di Gaza è del tutto inconsapevole. Infatti l'accresciuta rilevanza di Hamas, motivo di vanto per il movimento, rischia di privilegiare, all'interno del movimento per la liberazione della Palestina, la parte meno affidabile per il percorso del processo di pace e della eventuale costruzione di uno stato indipendente, perchè soggetta ad idee più fondamentaliste e meno accomodanti. Come dire, che, se sorgessero complicazioni, Israele potrebbe accomunare anche la Cisgiordania ad eventuali azioni contro il movimento palestinese. In effetti le vicende precedenti allo scoppio del conflitto di Gaza, preannunciavano proprio questo: il disconoscimento dell'ANP da parte del governo di Israele come interlocutore privilegiato nel processo di pace. Tel Aviv, pratica una strategia prevedibile, che garantisce sempre buoni risultati e che punt alle continue divisioni tra le due anime principali del movimento della Palestina. E' una tattica che in questo momento premette agli israeliani di guadagnare tempo su di un argomento per loro molto importante: il destino degli insediamenti, che violano gli accordi di Oslo. Nella sua fame di territorio e sotto elezioni, il governo israeliano sa di essere in difetto di fronte agli accordi internazionali e punta a screditare la controparte proprio di fronte alla platea della nazioni come interlocutore non più affidabile. Ma è una tattica che non può portare lontano, sicuramente nel breve periodo avrà ricadute positive, ma alla lunga sarà difficile che Hamas possa rimpiazzare l'ANP nel suo ruolo guida delle trattative, anche perchè Abu Mazen è comunque preferito dagli USA. Hamas, di contro, si gode il suo momento di popolarità, spacciando una sconfitta militare completa, come una prova di resistenza contro la forza di Israele. Ben più importante è però la rilevanza internazionale che il movimento islamico ha saputo accreditarsi grazie all'intervento diplomatico di Egitto, Turchia e Qatar. Essere diventati interlocutori di governi nazionali, nell'occasione allo stesso livello, ha accresciuto la sua importanza sul piano diplomatico, facendo diventare Hamas pienamente un soggetto internazionale. Si tratta di una situazione nuova per Hamas, che potrebbe costituire anche un mezzo per ammorbidirne le posizioni estreme, grazie all'uscita dal proprio isolamento, favorita dalla continuazione dei rapporti appena instaurati. Difficile prevedere gli sviluppi su questo piano, per Hamas si tratta di una situazione di assoluta novità, dopo anni di rapporti quasi esclusivi con movimenti clandestini o terroristici, è indubbio che la sua classe dirigente si trova impreparata alla nuova condizione, ma se l'occasione sarà sfruttata a dovere e con responsabilità potrebbe costituire un elemento positivo all'interno dell'intera vicenda. Ma alla fine di queste riflessioni restano i dubbi di un accordo che non convince, se Hamas si è fatta carico della responsabilità di ciò che potrebbe partire dalla striscia di Gaza contro Israele, cosa potà accadere se la minaccia sarà portata avanti, sfuggendo al controllo di Hamas, da gruppi salafiti o di Al Qaeda? E se l'Iran dovesse attuare, a sua volta una tattica preventiva contro Israele aggredendolo? Oppure, al contrario, se l'esercito di Tel Aviv uccide, anche per sbaglio, un militante sospettato di compiere un attentato? Sono solo alcuni dei casi che potrebbero verificarsi e rimettere in discussione tutto, con USA ed Egitto in continua trepidazione per il possibile accadere degli eventi.

mercoledì 21 novembre 2012

La regione del Mar Cinese meridionale futuro fulcro della politica estera mondiale

Obama ha concluso il suo viaggio nel sud est asiatico, dove è stato impegnato ad un rilancio strategico della diplomazia americana nella regione. La chiave di volta della politica estera americana nei confronti dei paesi della zona è stata quella di porsi come una nazione che appartiene al Pacifico e che opera in questo mare, ritenendolo cruciale, sia per i propri interessi, che, in una visione più ampia, nel futuro, dove sarà una parte del globo che avrà una grande espansione è sarà sempre più centrale nei complessi equilibri geopolitici ed economici. Obama ha da tempo individuato queste peculiarità, sopratutto nella zona meta della sua visita. I paesi toccati dal suo tour diplomatico, potranno recitare, grazie alle proprie caratteristiche, ruoli di primo piano per le loro potenzialità, sia dal punto di vista della forza lavoro, che dalla loro posizione geografica. Si tratta di popoli, che pur affetti ancora da condizioni di sviluppo precario, si stanno affacciando velocemente alla ribalta del mondo economico, grazie ad una industrializzazione sempre più spinta; sono, cioè, importanti sotto il punto di vista di produttori che di consumatori. Gli USA hanno tutto l'interesse ad allacciare rapporti sempre più stretti con questi paesi, in un quadro, però, di democrazia affermata, come è stato espressamente chiesto ai governanti della Birmania, che pur avendo compiuto sostanziosi passi avanti, sono stati incoraggiati a proseguire nello sviluppo delle riforme. Obama ha riconosciuto che nel passato la politica americana è stata invasiva, attraverso operazioni militari, che non rientrano più nel nuovo corso degli Stati Uniti, indirizzati ad una collaborazione paritaria per la costruzione di una pace durevole e prospera dal punto di vista economico, per entrambe le parti. Sulla regione è in corso una vera e propria corsa tra Cina ed USA, per avere maggiore influenza sui governi dei paesi che la compongono, per Pechino è fondamentale diventare la prima potenza operante sul territorio per sfruttare in modo completo le distanze relativamente brevi che la separano dagli altri paesi, per Washington è importante non permettere una completa area d'influenza cinese in una zona così importante. I recenti sviluppi inquadrano comunque molto bene quale sarà lo scenario internazionale che sarà alla ribalta della politica estera mondiale: sulla regione del Mar Cinese meridionale i riflettori si sono appena accesi.

martedì 20 novembre 2012

Cina, Giappone e Corea del Sud si incontrano per aprire una zona di libero scambio

Malgrado i forti contrasti, peraltro finora più scenografici che altro, sulla territorialità di alcune isole disabitate, Cina, Giappone e Corea del Sud, daranno vita ad un vertice che mette al centro la creazione di una area di libero mercato, che promette di diventare un volano eccezionale, potendo diventare, potenzialmente, la zona di libero scambio più estesa nel mondo. Per una volta, quindi, il ruolo dell'economia è più forte di quello militare e diventa elemento concreto di pacificazione internazionale. Infatti nella conferenza di Phnom Penh, dove i membri dei tre motori economici asiatici si incontreranno, le dispute territoriali passeranno senz'altro in secondo piano e non è detto, che se i colloqui saranno fruttuosi, non si possa arrivare ad un accordo condiviso per una soluzione definitiva sulle isole contese, che possa contentare tutte le parti. Già il fatto che queste tensioni non impediscano il vertice, rappresenta un motivo di speranza affinchè la questione non degeneri in una evoluzione pericolosa, ma si indirizzi verso una conclusione ragionevole. L'importanza che riveste il vertice, al quale, è bene ricordarlo, partecipano la seconda e la terza economia mondiale, per i riflessi sull'economia è quindi largamente superiore alle questioni che riguardano le isole contese; attualmente il commercio tra i tre paesi ammonterebbe a circa 515 miliardi di dollari, che salirebbero inevitabilmente se si aprisse la zona di libero scambio tra le tre nazioni. L'intenzione è quella di sviluppare la cooperazione dell'Asia Orientale per provocare la crescita della regione, sopratutto puntando all'incremento dei mercati interni, che sono ora sotto utilizzati, specialmente quello cinese; tale crescita potrebbe compensare la minore domanda occidentale, se permanesse lo stato di crisi attuale e diventerebbe un elemento propulsivo determinante una volta superata la depressione economica dei paesi ricchi. In effetti quando tornerà la fase espansiva nell'occidente sommata con la spinta in un mercato di libero scambio nell'Asia orientale, potrebbe fare schizzare gli indici di crescita verso l'alto, con il ritorno della doppia cifra in Cina. Ma quello che si tratta tra Cina, Corea del Sud e Giappone, potrebbe essere soltanto un punto di partenza per una evoluzione ben più grande, capace di coinvolgere fino a sedici paesi: le dieci nazioni dell'Associazione del Sud-Est dell'Asia orientale (Brunei, Cambogia, Indonesia, Laos, Malesia, Myanmar, Filippine, Singapore, Thailandia e Vietnam), più India, Australia e Nuova Zelanda. Un mercato con una potenzialità enorme, con 23.000 miliardi di PIL, un terzo del prodotto interno lordo mondiale, con una platea di consumatori di ben 3,5 miliardi di persone. Di fronte a questa eventualità si capisce bene perchè, nonostante i venti di guerra del medio oriente, il primo viaggio del rieletto Presidente USA, Barack Obama, nei paesi che si affacciano sul Mar Cinese Meridionale, non solo non sia stato rinviato, ma abbia rivestito una enfasi tutta particolare, sull'importanza degli incontri. Quella che si annuncia è una guerra non militare ma combattuta con armi di fine persuasione, fatta di aiuti ed accordi sempre più stringenti, per accaparrarsi il mercato che attualmente rappresenta le maggiori potenzialità per un'economia che deve uscire dalle secche della crisi.

lunedì 19 novembre 2012

Unione Europea: sul bilancio divisioni sempre maggiori

Per il Presidente della Commissione Europea Barroso resta difficile raggiungere un accordo che ratifichi il bilancio di previsione per l'Unione Europea, previsto per il periodo 2014-2020, che contiene elementi tesi a favorire la crescita, ma che contrasterebbero con la volontà di rigore portata avanti dagli stati del nord del continente. Secondo Barroso il bilancio, pur contenendo forti tagli di spesa, come richiesto dagli stati più rigoristi, favorirebbe la crescita economia, creando occupazione, sopratutto nelle fasce giovanili, che patiscono i più alti livelli di disoccupazione. Tuttavia le proposte sul tavolo, che suscitano maggiore disaccordo, sono quelle relative al taglio dei programmi di solidarietà sociale relativi alla lotta alla povertà. Queste resistenze, tra l'altro da parte di governi da sempre in prima linea per il welfare state, come la Svezia, rischiano di creare una frattura profonda tra i due poli geografici europei, mettendo seriamente a rischio l'unità sovranazionale. Quella che si presenta molto concretamente è la possibilità tanto temuta dell'Europa a due velocità, con la novità che i due piani distinti non sarebbero più soltanto economici, cioè in relazione all'Euro, ma anche politici, determinati da una visione particolaristica dell'interesse nazionale, troppo spinto per essere ancora inquadrato in un contesto continentale. Anche il recente ostruzionismo contro i fondi destinati all'Italia per la ricostruzione del terremoto delle zone produttive dell'Emilia, peraltro già stanziati, rivela la mancanza dei presupposti di fondo, da parte di alcuni governi di paesi, oltre al regno Unito, dove sta emergendo un sentimento contrario ai fondamenti dell'Unione Europea. Il caso italiano, poi è illuminante sulle reali intenzioni di chi ha posto i pareri ostativi, con scuse di circostanza, contro un territorio capace produttivo probabilmente in concorrenza con quelli appartenenti agli stessi stati contrari. Questo caso limite, va, comunque, ricompreso in un atteggiamento più ampio le cui responsabilità non possono non cadere sul comportamento tedesco e su quello inglese, capaci di fare proseliti in stati neanche tanto in buona salute economica. Berlino ha la colpa di insistere in un rigore punitivo, che sfiora la patologia: se le paure dei tedeschi sono quelle di dovere contribuire con i propri fondi per tamponare le situazioni debitorie degli stati in difficoltà, occorre rammentargli i facili investimenti che hanno procurato lauti guadagni in Grecia e Spagna e tutto il mercato dove le loro esportazioni sono ingenti, nel sud Europa. Questi fatti dovrebbero essere usati con maggiore spregiudicatezza dai pavidi governanti europei, che sembrano farsi dettare l'agenda dei loro impegni dalla cancelleria di Berlino. Londra ha assunto un comportamento di perenne critica all'Europa, dal suo isolamento geografico cerca di intralciare ogni tentativo di maggiore unione, sopratutto politico economica, perchè gelosa del suo ampio margine di manovra, specialmente nelle speculazioni finanziarie. Questa forza inusitata, che usa per accrescere la propria ricchezza, spesso a scapito dei suoi stessi alleati, costituisce la barriera più forte che impedisce una azione comunitaria capace di sanzionare il Regno Unito. Eppure il modo ci sarebbe: costringere Londra ad uscire dalla UE, se l'Inghilterra insisterà nella sua posizione di contrasto allo sviluppo dell'autonomia delle istituzioni comunitarie centrali. Ciò andrebbe a costituire un precedente importante ed un monito severo, per chi intendesse proseguire su quella strada. Con queste premesse il programma di Barroso di trovare una intesa che possa soddisfare tutti i membri dell'Unione, appare un miraggio capace soltanto di rallentare decisioni che devono essere prese con rapidità per dare un segnale sia ai mercati, che ad un tessuto sociale continentale che si sta sempre più sfaldando sotto i colpi dell'eccessivo immobilismo e che langue in una condizione difficile a causa delle poche decisioni che vengono prese soltanto in nome di rigore sempre più eccessivo. Su questi temi si gioca l'effettiva tenuta della UE, che può andare avanti comunque grazie alla forza d'inerzia di chi ha convenienza al mantenimento dello status quo, che, però, rappresenta soltanto una visione di breve periodo che non può comprendere una risoluzione strutturale dei problemi del vecchio continente.

venerdì 16 novembre 2012

Israele miope di fronte al cambiamento internazionale

Le operazioni militari scatenate nella striscia di Gaza dall'esercito israeliano, hanno assunto la dimensione di carneficina elettorale, ad uso e consumo, non della nazione israeliana, dove non tutti sono concordi nella politica intrapresa dal primo ministro della coalizione al governo, di esclusiva raccolta voti. Si tratta, infatti, di una campagna elettorale improntata all'uso della forza contro il nemico palestinese, che deve evidenziare come il programma elettorale sia incentrato nella difesa del territorio. Ciò deve essere inteso anche in senso più ampio, quando si affronteranno situazioni analoghe, come il caso iraniano, che saranno risolte con l'impiego dell'azione bellica. Se questo è il programma politico interno, impresso sulle pallottole e sui missili anzichè sulla carta dei depliants, che sarà la linea della campagna elettorale della coalizione che siede già al governo di Tel Aviv, non è difficile pronosticare un isolamento internazionale ancora più spinto per lo stato che ha la stella di David nella propria bandiera. Infatti se in Europa ed anche negli Stati Uniti, insomma nell'occidente sempre tollerante con Israele anche quando ciò è chiaramente controproducente, le reazioni di sdegno sono unanimi anche sui giornali conservatori, ben diverse sono e saranno le conseguenze che questa azione a Gaza produrranno nel mondo arabo. La miopia politica, o la scarsa lungimiranza, come si vuole definire, sul piano internazionale, di Benjamin Netanyahu, appare disarmante per le conseguenze che si stanno abbattendo sugli equilibri regionali e sulla stabilità stessa del proprio stato. Provare a ripetere una operazione analoga a quella del 2008 significa non tenere assolutamente in conto del radicale mutamento avvenuto nella regione e nel mondo arabo in generale, con l'avvento delle primavere arabe. Israele, di fronte agli sconvolgimenti politici che hanno attraversato il mondo arabo, è sempre stato critico perchè individuava il pericolo della caduta di quello status quo, che gli permetteva, grazie alle alleanze con i dittatori in carica e sopratutto con Mubarak, un adeguata assicurazione sulla propria libertà di movimento ed una immunità alle sue azioni. La transizione democratica non era apprezzata in quanto tale, singolare per la nazione che si è sempre dichiarata l'unica democrazia del medio oriente, ma era avvertita, come poi si è puntualmente verificato, come l'instaurazione al potere di partiti di matrice islamica e quindi contrari ad Israele quasi per definizione. Il dialogo balbettante con i nuovi governi non ha permesso l'instaurazione di rapporti su basi nuove, perchè inficiati dal peccato originale della mancata risoluzione della questione palestinese. In questo errore, di cui più volte l'amministrazione americana ha giustamente sollecitato la riparazione, Israele ha continuato a perseverare praticando la politica, al di fuori degli accordi internazionali e quindi fuori dalla legge, degli insediamenti abusivi delle colonie, per quanto riguarda la Cisgiordania, e della repressione, al limite della ferocia, nella striscia di Gaza. La continuazione imperterrita di questa strategia è però avvenuta in un contesto troppo mutato per non cambiare l'approccio, che non poteva più essere consentito dal periodo storico attuale. Il cambio di atteggiamento egiziano, dopo i raid su Gaza, è il segnale più eloquente di tutta questa situazione. Se il Presidente egiziano invia il suo premier direttamente a Gaza per condividere la tragedia con quelli che chiama i propri fratelli ed apre i varchi al confine con l'Egitto, che Mubarak in ossequio a Tel Aviv teneva ben sigillati, siamo di fronte ad un cambiamento epocale nella regione. Aldilà della retorica usata dalle istituzioni egiziane, che devono rispondere ad un sentimento generale della popolazione, prima soffocato, di comunanza con i palestinesi, questi fatti dimostrano come Israele abbia agito, per le ripercussioni sullo scacchiere internazionale, in modo avventato e sia rimasto sorpreso dalla visita ufficiale del premier egiziano a Gaza, tanto da sospendere i bombardamenti programmati per non incorrere in un pericoloso incidente diplomatico con il paese delle piramidi. Ma ancor più preoccupante è la rabbia che è cresciuta in maniera esponenziale nei popoli arabi e sopratutto nei movimenti più estremi: i valichi con l'Egitto sono aperti nei due sensi: se verso Il Cairo viaggiano i profughi, verso la striscia potrebbero viaggiare armi o, peggio ancora, kamikaze disposti a tutto per immolarsi alla causa palestinese su istigazione di qualche potenza o movimento che non aspetta migliore occasione per dichiararsi come paladino della lotta contro Israele. Lo schema degli attentati contro i civili israeliani è una risposta tragicamente ben conosciuta da Tel Aviv, sopratutto dopo azioni dimostrative come quella appena compiuta. Non solo, dalla parte opposta Hezbollah potrebbe innescare un confronto che rischierebbe di impegnare Israele su due fronti contemporaneamente, senza tralasciare la questione siriana, che ha provocato lo stato di allerta nel Golan. Vista in questo modo l'imperizia del premier israeliano appare evidente, scegliere la via delle armi anzichè quella del dialogo, secondo la logica, dovrebbe essere fortemente penalizzante come elemento di valutazione in una tornata elettorale ormai prossima, se non fosse che Benjamin Netanyahu ha puntato tutto sulle paure ataviche dell'elettorato israeliano, sul quale, però si spera in una maggiore ragionevolezza.

giovedì 15 novembre 2012

Lo sciopero europeo ed i suoi significati

Una Unione Europea che è partita, questa volta dal basso. Rimane questo il senso più profondo dello sciopero che ieri ha attraversato alcuni paesi del vecchio continente, contro le misure draconiane adottate contro un debito pubblico costruito in maniera distorta e che ha favorito gli istituti bancari ed i grandi capitali. Come si sa le misure scelte per combattere questa situazione debitoria, che ha trascinato i paesi del sud europa in una situazione di grave crisi, sono state prese a carico delle classi medio basse con l'innalzamento inconsulto della pressione fiscale congiuntamente alla riduzione del welfare pubblico, con il conseguente impoverimento generale della gran parte della popolazione. Sono stati, cioè, materialmente addebitati i costi di anni di scelte sbagliate ed avventate a quella parte del tessuto sociale che già durante la loro attuazione ne aveva iniziato a pagare le conseguenze. Questa scelta, univoca di tutti i governi coinvolti, fatta su indirizzo della Germania e della subalterna Unione Europea, ha letteralmente sovvertito la ragione d'essere stessa dello stato moderno in quanto tale. Con queste politiche il cittadino è regredito nei suoi diritti ad uno stato di sudditanza che nulla ha a che vedere con la moderna concezione dell'ordinamento statale democratico. La ragione del pagamento delle tasse, che doveva avvenire per contribuire al corretto funzionamento dello stato, inteso come organo supremo della comunità nazione, ma anche per ricevere in cambio servizi adeguati, nella sicurezza, nella sanità, nell'istruzione ed in tutti gli altri ruoli di competenza dell'amministrazione statale, viene stravolta per assolvere ad una funzione quasi esclusivamente riparatoria di ammanchi generati per distrazione di denaro pubblico, causa incapacità o malafede. A poco valgono le offensive giustificazioni di chi dice che le popolazioni coinvolte in questo processo hanno vissuto al di sopra delle loro possibilità, ciò rappresenta una menzogna assoluta facile da smentire con i dati economici dei periodi passati, contraddistinti da valori comunque già elevati di diseguaglianza sociale dovuta alla scarsa redistribuzione della ricchezza ed alla presenza di tassi di disoccupazione e precariato già preoccupanti. Se le piazze spagnole, portoghesi, francesi, italiane e greche si sono riempite, con eccessi minoritari senz'altro da condannare, il significato è che la base della cittadinanza di questi paesi, passata la fase dello sconcerto per le politiche subite, passa ad un livello successivo che oltrepassa il logico scontento intimo per renderlo finalmente pubblico. Difficile che i governi trovino strade alternative alla lotta al debito, perchè essi sono sostanzialmente espressione di quelle parti economiche, che oltre ad avere creato questa situazione di difficoltà, che hanno la necessità di non compromettere il loro patrimonio e la loro libertà di azione. Tuttavia il segnale presentato dalle piazze parla chiaramente alle istituzioni e presenta il conto di una tensione sociale da non sottovalutare perchè espressione di reale bisogno e difficoltà, che rappresenta la pressochè totale rottura di uno dei fondamenti dello stato: quello della coesione sociale. La spaccatura generata dalle politiche di recupero economico, che ha presentato il conto, caricandone della quasi totalità del costo, le parti più deboli della popolazione, può generare pericolosi fenomeni che possono minare la stabilità dello stato. La sempre maggiore affermazione dei partiti populisti e dei movimenti di matrice locale, giunti alla crescente avversione all'istituzione europea, che si contraddistingue sempre più come fenomeno trasversale che attraversa, non solo tutti i ceti sociali, ma anche quelli produttivi, può dilaniare, sia l'istituzione sovranazionale, che quella stessa nazionale, in una frammentazione di istanze capace di sgretolare i pochi elementi di unitarietà. Questo difetto discende dalle soluzioni calate dall'alto, dell'attività degli eurocrati che non si addentrano nelle specifiche situazioni e dal governo dei tecnici, che elaborano situazioni su dati macroeconomici nel breve periodo, anche esatti nel loro complesso, ma che non tengono conto delle molteplici sfacettature foriere di conseguenze ben peggiori sul lungo periodo. Uno stato non può guardare soltanto al risultato economico complessivo della sua azione, senza tenere conto delle ripercussioni dei costi sociali generati per raggiungerlo. Ma purtroppo è questo ciò che accade. Le ragioni di questo sciopero europeo, devono essere considerate in maniera importante, senza essere sottovalutate dai governi e dall'Unione Europea, il clima che si sta instaurando a causa del disagio deve essere bonificato con politiche che favoriscano l'occupazione, la redistribuzione del reddito e mantengano lo stato sociale, pazienza se qualche banca fallisce, anzi ciò può costituire un segnale positivo ed ottenere un effetto calmierante su di una piazza sempre più esasperata.

mercoledì 14 novembre 2012

I rapporti tra Germania e Russia potrebbero peggiorare

Il prossimo vertice tra Germania e Russia si annuncia teso, l'atteggiamento tedesco, verso l'ex impero sovietico, guidato da Putin, non è più benevolo come è stato fino ad ora. Dopo la caduta del muro di Berlino le relazioni tra i due stati si sono particolarmente rinforzate, grazie a rapporti sempre più stretti. La strategia tedesca è sempre stata imperniata sulla volontà di attrarre la Russia verso l'Europa mediante un fitto scambio commerciale, una politica di prestiti ed una stretta relazione sull'energia, tema molto sensibile per la Germania perchè Berlino importa gran parte del suo fabbisogno di gas proprio da Mosca. Lo scopo era quello di favorire un maggiore radicamento delle regole democratiche in un ambiente ancora condizionato dal lungo periodo caratterizzato dalla dittatura comunista. Ma l'atteggiamento tutt'altro che libertario del governo di Putin, improntato ad una negazione dei diritti civili, attraverso la repressione e l'intimidazione della società, ha causato una irritazione sempre più accentuata nel parlamento tedesco. Proprio il Bundestag ha richiesto al governo di Angela Merkel di essere maggiormente critica con la Russia, dopo che Putin si è nuovamente insediato al Cremlino. Ciò potrebbe aprire una discussione sulle relazioni tra i due paesi, che potrebbero potenzialmente patire un peggioramento, data la poca inclinazione ad accettare critiche sul proprio operato da parte di Putin. Inoltre queste critiche potrebbero essere interpretate come una ingerenza negli affari interni dello stato russo e non come un tentativo di perorare la causa democratica. D'altronde le perplessità sull'operato e sul comportamento dell'attuale governo russo attraversano in maniera trasversale il parlamento tedesco, essendo condivise sia dalla maggioranza, che dall'opposizione e rappresentano, perciò, il comune sentire del popolo della Germania. La Merkel non può non tenere conto di questi sentimenti e, probabilmente, si dovrà fare carico di presentare all'inquilino del Cremlino lo stato d'animo dei parlamentari tedeschi. Tuttavia dovrà anche cercare di non compromettere un mercato dove la penetrazione dei prodotti tedeschi risulta già avanzata, ma che ha ancora ampi margini di potenziale; Berlino è, infatti, il primo partner economico per Mosca e non può permettersi di perdere questo primato nell'attuale momento. Ma anche la Russia ha interesse a non incrinare troppo il rapporto con la Germania, perchè questa è il suo alleato più affidabile all'interno dell'Unione Europea e riveste quindi un ruolo strategico per Mosca. Difficilmente quindi, aldilà dei discorsi di prammatica, le reciproche convenienze ed opportunità saranno scalfite, anche se è difficile credere che la Merkel, come già dimostrato in altre occasioni, rinunci a muovere alcune critiche a Putin sul tema dei diritti in Russia.

Israele minaccia gli accordi di Oslo

L'avvicinamento alla data delle elezioni israeliane rappresenta una occasione, per la parte attualmente al potere, di aumentare le tensioni con i palestinesi, scegliendo la via ritenuta più redditizia, in termini di raccolta di voti presso un corpo elettorale in preda al panico da accerchiamento. Pur non sembrando opportuna, relativamente all'attuale scenario internazionale, la tempistica della scelta di scagliarsi, alzando i toni, contro l'Autorità Nazionale Palestinese, rappresenta la via scelta dal governo in carica a Tel Aviv, già completamente calato nella competizione elettorale. Ad Abu Mazen viene contestata l'intenzione di ottenere il riconoscimento della Palestina, come paese osservatore, presso l'ONU. Ciò non rappresenta una novità, Israele non ha mai digerito l'appoggio a grande maggioranza che l'assemblea delle Nazioni Unite assicurerebbe alla richiesta dell'ANP, che rappresenta uno smacco a livello internazionale per la politica israeliana circa la questione palestinese. La messa in una luce pessima del governo di Israele sul piano mondiale, potrebbe ritorcersi conto al momento del voto, per evitare tale contraccolpo negativo, Tel Aviv arriva a mettere in discussione gli accordi di Oslo del 1993. La motivazione con cui gli accordi vengono minacciati è oltremodo pretestuosa e pone chiaramente Israele in una posizione tale da potere essere considerato protagonista di una azione deliberata per arrivare ad un punto di rottura, forse non sanabile, con i palestinesi. Il ministro degli esteri Liebermann parla apertamente di una violazione degli accordi con la presentazione all'ONU della richiesta di riconoscimento ed arriva a dire che Abu Mazen non è un interlocutore affidabile per il semplice fatto di non rappresentare sia la Cisgiordania che Gaza, cioè l'interezza dei palestinesi, dato che i due territori sarebbero, di fatto, due entità scollegate. Le ragioni addotte dal ministro degli esteri israeliano sono però chiaramente pretestuose, intanto perchè non godono del principio della reciprocità, in quanto non contemplano le continue violazioni di Israele, che con la politica degli insediamenti abusivi in Cisgiordania ha più volte violato i patti esistenti, poi perchè Abu Mazen è stato riconosciuto anche da Hamas, fino a nuove elezioni, come presidente palestinese. Anche Netanyahu e da sempre su queste posizioni, perchè incolpa ai palestinesi la mancata ripresa delle trattative, preferite alla tattica del riconoscimento all'ONU. Anche su questa posizione vi è un chiaro vizio sostanziale, dato che il rifiuto delle trattative da parte di Abu Mazen è dovuto alla politica sempre più spinta della pratica degli insediamenti nelle zone palestinesi. Il comportamento dei coloni israeliani, incoraggiato dal governo in carica, ha messo a dura prova la pace nel territorio cisgiordano e l'azione pacifica di Mazen, concretizzatasi con la richiesta dello status di osservatore all'ONU, appare di gran lunga più responsabile delle soluzioni praticate da Tel Aviv. Tuttavia, pur muovendosi in un solco già tracciato, l'accelerazione impressa da Netanyahu alla questione è un chiaro segnale dato al proprio elettorato: la delegittimazione dell'ANP potrebbe consentire una nuova espansione in Cisgiordania; è un atteggiamento, che sul piano internazionale non potrà non creare forti imbarazzi, specialmente al rieletto presidente USA, da sempre fautore della soluzione dei due stati, ma che permetterà al primo ministro israeliano di avere sicuramente dalla propria parte anche i settori più integralisti della destra. Ciò è ritenuto fondamentale per avere quella maggioranza, che tra i suoi fini potrà avere anche la facoltà di colpire l'Iran per non consentire al paese sciita il possesso dell'arma nucleare.

martedì 13 novembre 2012

Politica estera e politica militare della Cina

La crescita economica cinese non ha sostenuto soltanto lo sviluppo, seppure contrassegnato da profonde differenze e diseguaglianze, della popolazione, ma è stato ed è tuttora funzionale ad un disegno più complesso che riguarda l'ambizione di grande potenza, con tutto ciò che ne consegue in termini di influenza sul piano internazionale, che deve essere sostenuta da un adeguato investimento per potere disporre di una forza armata sempre più equipaggiata. Va detto che, per ora, le velleità di grande potenza, capace di influenzare i processi diplomatici mondiali, sono rimaste frustrate più che altro, dallo stesso atteggiamento cinese, che non ha derogato dal proprio principio di non ingerenza negli affari interni degli altri stati. Va detto,però, che questo principio è stato rispettato maggiormente per le grandi questioni, sopratutto quelle che hanno investito il Consiglio di sicurezza dell'ONU, dove Pechino, forte del proprio seggio permanente, ha sempre negato, insieme alla Russia, qualsiasi forma di intervento, anche per ragioni umanitarie, in quei paesi interessati da guerre civili. Soltanto nel caso libico, grazie alla propria astensione, la Cina ha permesso l'intervento armato che ha messo fine al regime di Gheddafi. Va però detto che Pechino si quasi da subito pentita di questa decisione, accusando l'occidente di averla ingannata con la scusa della guerra umanitaria, che in realtà è stata usata per rovesciare il rais di Tripoli. Ma se questo è l'atteggiamento ufficiale, una politica estera cinese continua ad esistere ed estendersi in maniera ramificata, proprio grazie alla proprie disponibilità economiche ed in funzione delle sue esigenze energetiche, la Cina ha intessuto una fitta rete di relazioni con paesi poveri, ma ricchi di risorse, specialmente nell'area africana. In questa diffusione della propria influenza non è mai stato necessaria una presenza militare, se non in forme quantitativamente piccole e sopratutto discrete, perchè si è sempre trattato di rapporti basati sull'economia, che prevedevano e prevedono tuttora, uno scambio concordato con i governi locali. Esistono però altri scenari che necessitano di una forza armata capace di affrontare sfide potenziali di ampio respiro. Nell'ultimo ventennio il budget militare della Repubblica Popolare Cinese ha registrato un incremento per anno a doppia cifra, raggiungendo, secondo i valori ufficiali, ben 84.000 milioni di euro, anche se gli analisti americani ritengono tale cifra sia soltanto la metà di quanto veramente investito. Va ricordato che l'esercito cinese, numericamente è il più grande del mondo con i suoi 2,2 milioni di effettivi. Inoltre la Cina si è dotata di una prima portaerei, cui dovrebbero seguirne altre, dispone di una flotta di sottomarini nucleari ed ha sviluppato aerei da combattimento invisibili a i radar. Negli armamenti aerospaziali Pechino sta colmando il gap con le altre potenze ed è ormai in grado di distruggere i satelliti in orbita. Nella guerra informatica la Cina è all'avanguardia, come dimostrato in diverse incursioni praticate da suoi hacker. Tale dimensione e sviluppo enorme delle forze armate cinesi ha creato e sta creando in maniera sempre maggiore forti tensioni nell'area del Pacifico. La presenza cinese sta diventando sempre più ingombrante ed è fonte si preoccupazione per il suo possibile espansionismo, anche sollecitato dal continuo bisogno di approvigionamento a fonti di energia per sostenere la propria crescita industriale ed economica. La versione ufficiale, che Pechino continua a proporre, basata sulla crescita pacifica, non convince più nessuno e mette in allarme i paesi vicini, che sentono in pericolo la percorribilità delle grandi vie di comunicazione marina, percorsi fondamentali per il trasporto delle merci prodotte nella regione. Lo stato di tensione che si è venuto a creare con il Giappone, per l'arcipelago conteso, rischia di provocare un effetto a catena nell'area del Pacifico, dove la Cina intende affermare la propria supremazia e dove sono già coinvolti altri paesi; a fronte di questa situazione, che sta subendo un cambiamento in divenire, sopratutto a causa del mutato atteggiamento del colosso cinese, non è azzardato prevedere che la regione potrebbe subire periodi di grande instabilità, condizionata da continue situazioni al limite del confronto. Anche i numerosi missili puntati verso Taiwan, potrebbero segnalare la volontà della riapertura del confronto con una parte di territorio a cui la Cina non ha mai rinunciato. Tuttavia, per ora, la parte fondamentale e preponderante della politica cinese è rappresentato ancora dall'elemento economico, non sembra improbabile che Pechino continui, pure in una linea leggermente cambiata, a privilegiare i rapporti di scambio, tra cui fortunatamente, il Giappone è uno dei maggiori partner commerciali. Finchè questi rapporti saranno presenti le cannoniere saranno solo una presenza all'orizzonte. '

lunedì 12 novembre 2012

La Cina teme i gesti estremi dei tibetani

La strategia estrema dei tibetani sta creando non pochi problemi e molta irritazione alla Cina. La particolare attenzione mediatica mondiale, concentrata sullo svolgimento del Partito Comunista Cinese, offre una occasione ed una platea enorme per chi lotta per l'indipendenza tibetana. La forma di protesta è sempre tragicamente la stessa: immolarsi dandosi alle fiamme. Dall'inizio del congresso sono già stati sette i tibetani che si sono sacrificati contro l'oppressione cinese e per il ritorno del Dalai Lama. L'ultima vittima risale allo scorso sabato ed ha avuto come protagonista un ragazzo di appena diciotto anni, Gongo Tsering, bruciato di fronte ad un monastero nella provincia di Gansu. Il giorno prima nella provincia di Qinghai, le manifestazioni per la libertà del Tibet hanno assunto proporzioni forse mai raggiunte fino ad ora. Il governo tibetano in esilio, ha affermato che le proteste sono intensificate per inviare un esplicito messaggio alla nuova dirigenza cinese, che uscirà dal congresso, affinchè la questione tibetana sia trattata sotto una diversa ottica, che non contempli più la rigidità attuale. Le autorità cinesi si trovano sempre più spiazzate di fronte alle proteste non violente, se non verso se stessi, dei monaci tibetani, per l'eco che riescono a suscitare, sopratutto nell'opinione pubblica mondiale, in un momento in cui la Cina ha sempre più bisogno di consensi a livello internazionale. Molto temute sono le eventuali azioni dimostrative che potrebbero compiersi nel luogo simbolo della protesta cinese: Piazza Tiananmen, dove sono stati schierati stabilmente poliziotti dotati di estintori. Ma di fronte alla strategia dei tibetani, quasi settanta persone si sono immolate dandosi fuoco dal 2011, anche la potente Cina appare praticamente impotente e più di accusare il Dalai Lama di essere il fomentatore del fenomeno e di equiparare questi atti di ribellione ad azioni terroristiche Pechino non può fare. Tuttavia, se lo stato di disagio imposto dalla dominazione cinese obbliga a tali gesti estremi, la tanto invocata, dai burocrati del partito, armonia sociale, appare soltanto una formula priva di ogni significato. Nella scorsa settimana la Cina ha ricevuto una pesante valutazione ufficiale sul suo operato in Tibet: l'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Navi Pillay, ha parlato espressamente di "continua violenza perpetrata contro i tibetani che cercano di esercitare i loro diritti alla libertà di espressione, associazione e di religione", chiedendo la presenza di esperti dell'ONU nella zona. Ma già il mese scorso l'ambasciatore USA, durante un viaggio nella provincia del Sichuan, in pieno Tibet, ha invitato la dirigenza cinese a riconsiderare la propria politica nella regione, caratterizzata da troppe restrizioni. Pechino ha sempre reagito con rabbia a dichiarazioni di questo tenore, che, però, purtroppo non si discostano affatto da una realtà costituita da dominazione e repressione. Secondo il Dalai Lama, la massima autorità dei tibetani costretto a vivere in esilio, quello messo in atto dai cinesi è un vero e proprio genocidio culturale, praticato anche favorendo una emigrazione di altri gruppi etnici, con lo scopo di sgretolare l'identità e la cultura tibetana. Resta il fatto che spesso durante le sue visite all'estero il Dalai Lama sovente non è stato ricevuto dalle autorità locali, per non urtare Pechino e la sua grande forza economica, tacitamente avallando il comportamento cinese. Pare difficile che la Cina riesca ad avere ragione di un popolo così fiero, malgrado tutta la potenza messa in campo, sembrerebbe più ragionevole arrivare, tramite un nuovo atteggiamento, ad una situazione che sappia tenere conto delle esigenze dei tibetani senza insistere in questo processo di annessione perseguito con la ricerca della cancellazione delle tradizioni ed identità del paese. Ma senza una revisione globale che comprenda una maggiore apertura verso i diritti, questo auspicio resterà tale.

Per Israele può aprirsi un fronte siriano?

L'esercito israeliano è pronto ad attivare tutti i propri dispositivi di difesa e di offesa contro la Siria, se le truppe di Assad tenteranno ancora di colpire gli avamposti di Tel Aviv presenti nel Golan. Questo è quanto sostanzialmente dichiarato da fonti ufficiali israeliane, dopo il colpo di mortaio sparato dal territorio siriano a cui sono seguiti colpi di avvertimento dai militari della stella di David. Dopo la Turchia, tra l'altro di nuovo colpita, la Siria prova ad allargare i confini del proprio conflitto coinvolgendo il vicino più pericoloso. La speranza di Assad di trascinare tutta la regione in un gigantesco tutti contro tutti, gioca la carta più pesante: il coinvolgimento israeliano. Ma da qui potrebbe aprirsi una porta di servizio per il confronto, ancora più pesante, tra Israele ed Iran. Non è un mistero che truppe iraniane, insieme ad Hezbollah, sono impegnate a fianco di quelle fedeli ad Assad contro le forze ribelli e che, quindi, sono pericolosamente vicine alle forze armate israeliane. Assad sta conducendo una tattica spregiudicata e pericolosa, ma anche da ultima spiaggia, per sperare di sopravvivere come capo della Siria. L'allargamento del conflitto, fin qui scongiurato, da un comportamento irreprensibile, nonostante le provocazioni di cui sono state fatte oggetto la Turchia e lo stesso Israele, potrebbe verificarsi proprio per la necessità di sopravvivere di Assad, sempre più compromesso sul piano internazionale. Occorre però analizzare se questa volontà proviene dallo stesso presidente siriano o, specialmente nel caso delle provocazioni verso Israele, non sia attuata da altri. In questo caso non sarebbe difficile individuare chi sta dietro questa strategia se non l'Iran, che avrebbe tutto l'interesse a deconcentrare Tel Aviv dalla questione nucleare e dal possibile attacco contro Teheran, sempre nei pensieri dell'amministrazione israeliana. Questo diversivo permetterebbe a Teheran di guadagnare ulteriore tempo, il bene più prezioso nella contesa, per avanzare nei progressi della ricerca atomica. Difficilmente, dal punto logistico, ma anche politico, Tel Aviv potrebbe reggere due conflitti contemporaneamente, per cui l'Iran potrebbe sacrificare, in questa fase, l'alleato siriano, oramai difficilmente controllabile e, sopratutto, sul lungo periodo poco probabilmente ancora in mano ad Assad. Ma anche senza scatenare un confronto aperto con la Siria, Israele dovrà concentrare maggiore attenzione su quel versante della propria frontiera, anche se da più parti si tende a minimizzare sull'accaduto, attribuendo ad un errore il colpo di mortaio diretto in territorio israeliano. Tuttavia, già in precedenza erano caduti colpi di arma da fuoco nella zona controllata da Tel Aviv, ma nel governo israeliano, questi fatti, non avevano scatenato le minacce di questi giorni. L'avvertimento di Israele, teso ad evitare fatti analoghi, denota quindi, un certo nervosismo, che giustifica il timore dell'apertura di un fronte non certo gradito, sopratutto in forza di una stabilità, su quel lato della frontiera, che dura ormai da quasi quaranta anni.

venerdì 9 novembre 2012

Le prossime sfide internazionali di Obama

I prossimi quattro anni che attendono Obama saranno densi di problematiche internazionali, nelle quali gli USA saranno chiamati al ruolo da protagonista, volenti o nolenti. Mentre l'euforia per la rielezione del presidente degli Stati Uniti non è ancora smaltita, gli impegni dell'agenda internazionale già premono in un contesto che si annuncia da subito ancora più complicato da quando l'inquilino della Casa Bianca ha lasciato i suoi impegni internazionali in secondo piano per dedicarsi alla campagna elettorale. Difficile che Obama devii dalla rotta già tracciata nei quattro anni precedenti, contraddistinta da un attivismo meno in prima linea, rispetto alle amministrazioni precedenti, ma comunque con una presenza costante all'interno dello scenario internazionale. Gli USA si sono confermati potenza globale e sopratutto hanno mantenuto la leadership mondiale, ma con uno stile nuovo, di profilo più basso, ma soltanto in apparenza. In effetti, messo da parte il protagonismo, quasi muscolare delle presidenze dei Bush padre e figlio, Obama ha optato per un approccio più morbido, che facesse tramontare la visione imperialistica dell'America. Questo non ha significato però prese di posizione decise ed anche una certa attività, praticata però lontano dai riflettori. Barack Obama ha messo come prima opzione il dialogo e l'uso di strumenti alternativi all'uso della forza dei militari ed anche quando questi mezzi di dissuasione sono stati scelti si è privilegiato l'utilizzo di mezzi di nuova tecnologia che riducessero al minimo l'impiego umano diretto. Non ci sono ragioni che possano indurre a credere ad una deviazione di rotta, anche se le nuove sfide che si annunciano sul tappeto, potrebbero, almeno in parte, obbligare a cambiare questa impostazione. Dal punto di vista strettamente militare le due questioni principali sono il confronto Iran-Israele e l'annunciata svolta della Cina, che intende affermare la sua potenza sul mare. Per il primo caso la linea di Obama è quella di scongiurare un confronto militare dagli esiti incerti e con ovvie ricadute sugli indici dell'economia mondiale, l'impostazione data al problema, che ha previsto l'uso massiccio delle sanzioni, ha fiaccato l'economia iraniana, ma non ha permesso del tutto l'isolamento di Teheran, che si è impegnato molto, sul piano diplomatico, a cercare nuove sponde di contatto, percorrendo sopratutto la via religiosa e quella dell'antiamericanismo. Il nervosismo di Israele, in parte tenuto a bada dalla competizione elettorale statunitense, ora potrebbe riaffiorare, sopratutto se la vittoria nella prossima competizione elettorale vedesse una affermazione netta di Netanyahu. I due stati, USA ed Israele, hanno preso direzioni politiche diverse ed i due leader sono personaggi dalle opposte caratteristiche, ma sono anche legati a filo doppio da una alleanza molto stretta: la domanda è come si comporterebbero gli USA di fronte ad un attacco unilaterale e non concordato di Israele all'Iran? Obama sa che può essere trascinato su questa strada anche contrariamente alla propria volontà e che in quel caso non potrebbe negare l'aiuto a Tel Aviv, ma sarebbe appunto, l'unico modo per coinvolgere direttamente Washington in una guerra fortemente non voluta. Israele, a quel punto, sarebbe di fronte all'opinione pubblica internazionale, il solo vero responsabile di una tattica scellerata. In ogni caso gli USA non sono impreparati ad una evenienza del genere, i continui segnali di spostamento di armamenti americani nel Golfo Persico ed in Giordania, indicano che nonostante le elezioni, l'apparato ha continuato a preparare il terreno per un possibile conflitto. La questione del protagonismo cinese non dovrebbe avere costituito una sorpresa per gli USA, anche Pechino è in una fase di passaggio di potere, ma le aspirazioni cinesi sui mari e gli arcipelaghi della regione sono noti, come è noto il continuo processo di rinnovamento del suo arsenale militare, anche in funzione della notevole accresciuta potenza economica. In questa vicenda, che contiene degli elementi potenzialmente pericolosi, la variabile impazzita è costituita dal Giappone, che può essere seguito da Vietnam e Filippine, che ha riaperto un confronto silente da anni, probabilmente più per motivi interni che altro. Gli USA non hanno interesse ad uno scontro con la Cina, malgrado la competizione economica ed anche, in futuro, di leadership mondiale, i rapporti tra i due stati sono profondamente legati a causa della grande quantità di liquidità cinese impiegata negli Stati Uniti, entrambe le nazioni non hanno alcun interesse ad incrinare i loro rapporti diplomatici. In questo frangente la paziente abilità dell'amministrazione Obama nel campo delle relazioni internazionali, può arrivare ad un equilibrio, magari non del tutto stabile, nella regione, che consenta una coabitazione tra i vari attori coinvolti, senza che si vada oltre l'esibizione dei muscoli. Anche i rapporti con la Corea del Nord potrebbero essere normalizzati grazie ad una azione congiunta con Pechino, mentre la Russia ha appena tirato un sospiro di sollievo per la mancata elezione di Romney e si trova, quindi ben disposta a continuare i rapporti, tutto sommato buoni, con Washington. Nella lotta al terrorismo, sopratutto quello fondamentalista islamico, è inevitabile la continuazione della strategia vincente intrapresa a tutto campo per stroncare definitivamente Al Qaeda ed i gruppi seguaci. Non si può non credere che Obama si adopererà per una soluzione definitiva della questione palestinese, cercando di arrivare, finalmente, alla costituzione dello stato della Palestina; anche se in vista dell'appuntamento elettorale vi è stata una frenata, dettata dalla prudenza di non scontentare l'elettorato ebraico, l'intendimento del presidente USa è sempre stato quello di riuscire a pacificare la regione con la formula dei due stati, il compito non è facile per l'attività di contrasto operata da Tel Aviv, ma un maggiore coinvolgimento anche delle Organizzazioni Internazionali, per prima l'ONU, potrebbe dare una svolta alla questione. Del resto ciò è anche funzionale al progetto di allacciare nuovi rapporti con gli stati arabi, specialmente quelli usciti dalle primavere arabe, ed una argomento come la riuscita della creazione dello stato palestinese costituirebbe un argomento di sicuro apprezzamento da parte dei governanti arabi. Ma Obama in politica estera non dovrà affrontare soltanto questioni legate agli assetti geopolitici, ma anche di natura più prettamente economica; in particolare sugli sviluppi della questione dell'euro, sarà fondamentale l'apporto che gli Stati Uniti vorranno concedere per la salvezza della moneta unica europea, un aiuto certo interessato, perchè l'area rappresenta il mercato di maggior pregio del mondo ed una sua debolezza avrebbe ripercussioni sull'economia mondiale. Per affrontare tutti questi problemi sarà determinante la nomina del nuovo Segretario di Stato e la collaborazione che si potrà instaurare con il Partito Repubblicano, che, sopratutto, per le questioni delicate non potrà commettere l'errore di praticare ostruzionismo. Il primo viaggio per Obama da presidente rieletto avrà come destinazione la Birmania per incontrare i leader di quel paese e con la leader dell'opposizione Aung San Suu Kyi, in un tour che comprenderà anche la Thailandia e la Cambogia, nei giorni dal 17 al 20 novembre.

giovedì 8 novembre 2012

La necessità delle riforme al centro del congresso del Partito Comunista Cinese

Le riforme sono l'argomento al centro dell'attenzione del congresso del Partito Comunista Cinese. I dirigenti riuniti a Pechino sono consci che senza un cambio effettivo nell'esercizio del potere, l'impalcatura su cui si regge la nazione potrebbe cadere, nonostante i successi in campo economico, che hanno portato il paese a diventare la seconda potenza economica mondiale. Una delle vie per riformare lo stato è incrementare la la lotta alla corruzione, che si è rivelato il fenomeno maggiormente dannoso per la Cina. Gli scandali che hanno attraversato il partito e che sono stati troppo spesso fonti di scioperi e proteste, hanno avuto anche un costo economico tangibile, impedendo una redistribuzione adeguata delle risorse, fattore su cui si era basata la politica interna elaborata nel congresso precedente. L'idea era quella di diffondere il benessere nel maggior modo possibile all'interno dello stato, per evitare proteste di tipo politico, come era stata Tienanmen, una sorta di baratto con il popolo cinese, per permettere una vita tranquilla alla forma del partito unico. L'esplosione della ricchezza, derivante da una politica economica spregiudicata, che non ha mai tenuto conto delle istanze, e dei relativi costi, sindacali, senza l'adeguato controllo di un apparato statale impreparato, ha generato forme di concentrazione della ricchezza, che si sono venute a creare in modo anomalo, grazie alla diffusa corruzione presente nei centri di potere. Questa anomalia, non prevista dall'elaborazione politica di dieci anni prima, non ha permesso al Partito di godere di quella libertà attesa senza subire contestazioni e manifestazioni. Questa analisi dei burocrati cinesi è vera solo in parte, la mancata distribuzione del reddito, su grande scala, creato dal grande balzo dell'economia avrebbe potuto limitare solo in parte le proteste, che non sono state solo di natura economica ma anche politica, proprio perchè la crescita del popolo cinese, ha reso indivisibili i due argomenti. La richiesta di una maggiore diffusione dei diritti politici e relativi al lavoro, è cresciuta di pari passo con la massiccia industrializzazione e l'aumento della ricchezza, ancorchè diseguale, non è bastato ai cinesi. Sono istanze che non sono sconosciute ai delegati del Partito, che hanno iniziato a proporre un incremento del mercato interno, che segnalerebbe una maggiore redistribuzione delle risorse e la ricerca di metodi per aumentare il reddito pro capite. Ma se queste misure riguardano l'economia, nel campo della politica si intravedono novità che costituiscono segnali tendenti a proporre un rinnovamento, seppure ancora timido. La necessità di separare il ruolo del Partito da quello dello stato, indica l'individuazione della necessità di coinvolgere maggiormente il popolo nella scelta dei capi, ma non significa ancora l'apertura ad un sistema multipartitico. Piuttosto la preferenza dei vertici dell'apparato preferirebbe una formula sulla falsariga di quella in vigore a Singapore, dove esistono piccole formazioni politiche ammesse alla vita pubblica, con essenzialmente il ruolo di controllori dell'attività dello stato e del partito maggiore. Si tratta di una forma autoritaria attenuata che ha il merito, agli occhi dei delegati comunisti cinesi, di potere rappresentare una forma di transizione molto controllata dall'attuale verso il futuro e che può consentire anche un controllo inverso sulla composizione e sulle intenzioni di queste formazioni minori. Tuttavia si tratterebbe sempre di una piccola apertura che potrebbe rappresentare un passo avanti ed un segnale di accoglimento delle istanze che provengono da chi richiede maggiore democrazia. Quale sarà la decisione che verrà scelta è comunque un dato di fatto, che il sistema politico cinese si è reso conto della necessità di un maggiore coinvolgimento della popolazione nella vita pubblica e ciò costituisce la presa d'atto di un fenomeno che per lento che sia sarà ineludibile: il paese andrà incontro, probabilmente con i dovuti tempi, a forme di democrazia che cambieranno l'impianto attuale del potere.

Per la Cina le questioni marine diventeranno fondamentali

Se quello affermato nel discorso di apertura del diciottesimo congresso del partito Comunista Cinese dal presidente uscente Hu Jintao, corrisponderà al programma futuro della Cina, il mondo andrà incontro a tensioni sempre più forti, specialmente nell'area dei mari orientali. L'intendimento è di fare diventare il paese cinese una potenza di mare, tramite il rafforzamento dell'arsenale militare, sopratutto della marina, per salvaguardare i diritti e gli interessi del paese sul fronte marino, affinchè sia consentito lo sfruttamento delle risorse presenti sotto gli oceani. La dichiarazione arriva in un momento delicato, contraddistinto da forti tensioni con i paesi vicini per le questioni della sovranità circa diversi gruppi di isole contesi. Se il principale confronto diplomatico riguarda le relazioni con il Giappone, si stanno aprendo fronti molto delicati anche con il Vietnam e le Filippine, per il controllo di arcipelaghi contesi, sotto le cui acque sarebbero presenti ingenti giacimenti di petrolio e gas naturale. Il gigantismo dell'industria cinese e la sua necessità di espansione sempre ulteriore, ha fatto diventare il paese uno dei più grossi importatori di materie prime appartenenti al settore energetico, ma l'occasione di sfruttare direttamente riserve vicine alle proprie coste rappresenta una occasione troppo ghiotta per non essere sfruttata. A questo scopo il presidente ha annunciato che, sul fronte militare, la Cina compirà investimenti importanti, tali da accelerare la modernizzazione delle proprie forze armate, funzionale alla difesa nazionale, dove per tale espressione si pare volere intendere anche a quelle porzioni di territorio contese con altri stati. Il ruolo delle forze armate diventerà quindi, quello di assicurare la soddisfazione delle esigenze dello sviluppo nazionale, intesa come missione storica per il paese. Sono dichiarazioni che non nascondono velleità di dominio e sopratutto di scontro con quei paesi che vorranno opporsi ai programmi cinesi. Tali affermazioni arrivano anche, con una tempistica perfetta, dopo che Giappone ed USA, hanno varato le manovre militari congiunte nel mare di Okinawa, che non poco hanno irritato il governo di Pechino e sono, pertanto destinate ad irrigidimento ulteriore dei rapporti tra questi stati. Ma la questione non riguarda soltanto la sovranità e quindi lo sfruttamento degli arcipelaghi contesi, altrettanto importante è la questione della percorribilità delle vie marittime, solcate quotidianamente da navi cargo che trasportano merci destinate a tutto il mondo; ed anche non secondaria è la questione della pesca, spesso altrettanto occasione di scontri accesi. Difficile non leggere nelle parole del presidente cinese un avvertimento diretto sia ai paesi della regione, che agli Stati Uniti, di un mutamento di rotta di Pechino di fronte alle contese in corso; se finora, tutto sommato, l'atteggiamento ufficiale del governo non è mai andato aldilà di proteste ufficiali, più o meno dure, ma sempre nell'alveo del confronto diplomatico, l'intenzione che sembra prevalere pare quella di effettuare un gradino successivo per affrontare le questioni in sospeso. Se così sarà potrebbe essere l'avvio di una guerra fredda in versione orientale, che avrà preoccupanti ripercussioni sull'andamento dell'economia mondiale.

mercoledì 7 novembre 2012

Il risultato del voto americano restituisce un paese spaccato

Obama vince con un margine più ampio di quello previsto dai sondaggi, ma il quadro che il paese restituisce con il voto elettorale illustra una nazione spaccata. Il risultato delle urne dice, infatti, che il presidente ha ottenuto la riconferma grazie al voto della popolazione di colore, degli ispanici ed in generale delle minoranze etniche, sommate al voto femminile, mentre Romney ha avuto la fiducia degli uomini bianchi. Anche la divisione del voto per aree geografiche risulta molto netta, se le zone urbane hanno votato in massa per Obama con la percentuale del 62%, nelle zone rurali Romney ha vinto con il 59%, così come la fascia di età sotto i trenta anni si è espressa per il 60% per il presidente uscente, i più anziani, le persone oltre i sessanta anni, hanno votato per lo sfidante per il 56% del totale. Ciò era stato largamente previsto, ma ora che questa composizione del voto è ufficiale, la frattura sociale presente negli Stati Uniti diventa materia di ampia riflessione. Se è pur vero che l'analisi del voto non presenta una sostanziale novità, questo stesso elemento fa rilevare come gli Stati Uniti si comportino politicamente secondo clichè largamente appurati. Ciò significa che è mancata una mobilità politica nella popolazione americana, che, in definitiva, si è mantenuta su comportamenti costanti nel tempo. Probabilmente mai come in questa elezione la differenza è stata fatta dalla capacità di mobilitare il proprio elettorato a recarsi al voto, uno dei pochi elementi di novità di queste elezioni, che è stato determinante nella strategia vincente di Obama. Con un maggiore astensionismo la vittoria repubblicana era praticamente certa, ma, va detto con sicurezza, la bravura di Obama, oltre a quella della sua macchina elettorale, è stata quella di sollecitare il proprio elettorato grazie alla sensibilizzazione su temi molto legati allo stato sociale ed all'opportunità di una vita migliore, che Romney non sapeva ne poteva stimolare. Malgrado le promesse non rispettate Obama resta comunque una alternativa migliore, in alcuni casi anche la meno peggio, rispetto a chi si basa ancora esclusivamente sul libero mercato e sulla speranza dei suoi effetti positivi. Tuttavia amministrare una nazione divisa in modo così netto, non potrà essere agevole. I toni con cui è stata condotta questa campagna elettorale dai repubblicani, che in molti casi hanno sfiorato il livore, sono stati il segnale di corresponsione con il proprio elettorato più profondo, in Romney non è mai apparsa la volontà di conquistare voti oltre il proprio bacino elettorale, la sua tattica era improntata esclusivamente a motivare fino all'eccesso i suoi potenziali elettori, con argomenti spesso scontati e di scarsa prospettiva. Il fatto che il candidato repubblicano sia poi uscito sconfitto significa soltanto che la sua tattica è stata perdente, ma il suo elettorato resta ben convinto sulle proprie posizioni. Ma quello che vale per Romney, vale in modo speculare per Obama, anche se per motivi diversi. Il rieletto presidente USA, ha provato a sfondare nel campo avversario, ma soltanto fino ad un certo punto, poi vista la praticamente totale impermeabilità dei ceti conservatori, ha abbandonato il tentativo e per acquisire consensi si è gettato a capofitto nell'opera di convincimento dell'elettorato ispanico e più in generale verso quello che, tradizionalmente, poteva portare più suffragi alla propria causa. Questo richiudersi su se stessi, più di un ripiegamento tattico e più di una razionalizzazione delle forze, appare la presa d'atto della frattura insanabile che attraversa il tessuto sociale americano e, cosa più importante, vale per entrambi i partiti, i quali sono anche espressione di una concezione dello stato inteso come amministrazione della cosa pubblica. Quello che viene meno è uno dei caposaldi della politica americana, che viene insegnato nei corsi di scienze politiche: il sistema statunitense è caratterizzato da una alternanza costante, perchè le differenze tra i due partiti, protagonisti della vita politica nazionale, sono minime. Queste elezioni, invece, hanno decretato, in modo definitivo, che questo teorema non è più valido: le differenze non solo non sono più minime, ma sono aumentate a livello esponenziale, perchè riflettono le diversità, sempre più profonde, presenti nella società americana. Certamente non è un processo che è iniziato con questa consultazione elettorale, ma è incominciato ben prima, ma mai come ora ha raggiunto il suo punto più alto. Una delle cause è da ricercare nel liberismo sempre più spinto che ha caratterizzato il paese da Reagan in poi, che ha concentrato la ricchezza nelle mani di pochi, eliminando definitivamente quello che era definito il sogno americano, la negazione delle possibilità e delle opportunità estese a tutti. La caduta di questo assioma diventa per Obama un'arma fondamentale per la sua prima elezione. Ma le promesse non mantenute, sia per l'ostruzionismo parlamentare, sia per la ragion di stato, potevano costituire un boomerang per le aspirazioni di rielezione. Romney non ha saputo cogliere questa opportunità ed ha preferito rivolgersi ad un ceto elettorale in parte condizionato dal neo conservatorismo miope dei tea party ed in parte agli arrabbiati che vedevano nella politica di Obama addirittura derive di tipo socialista. Queste considerazoni, tuttavia non fanno che confermare uno stato oramai costituito da compartimenti stagni sia politici che sociali, dove il blocco degli ascensori sociali ha alzato barriere invalicabili nella società americana. Ora per Obama la sfida è fare ripartire la mobilità sociale attraverso la quale cercare una nuova coesione, che permetta di attraversare i fossati che dividono i ceti sociali, nel rispetto delle rispettive differenze ideologiche.

martedì 6 novembre 2012

Aspettando le elezioni USA

Continua a regnare l'incertezza anche alla vigilia del voto americano. Gli analisti sono convinti che mai come per questa elezione sarà determinante il numero di elettori che si recheranno alle urne, per fare pendere la bilancia per un candidato rispetto all'altro. L'esiguo vantaggio di Obama non permette una previsione certa e gli stessi esperti delle agenzie demoscopiche, parlano di scarto tanto piccolo da rientrare nell'errore di valutazione ammissibile. Sarà quindi una presidenza decisa dalle esigue differenze, probabilmente intorno alle poche migliaia di voti, che si verificheranno nei distretti chiave. L'obiettivo delle complesse macchine elettorali, esaurita la fase dei comizi, diventa ora quello di convincere i potenziali elettori dei rispettivi schieramenti, che sono titubanti a recarsi alle urne ad esercitare il diritto di voto. Il fenomeno dell'astensione, tradizionalmente, danneggia il candidato democratico in quanto l'elettorato repubblicano ha una base solida di votanti assicurata, rappresentata dai ceti più ricchi, dalle fasce di età più elevate e da chi ha un livello di istruzione più alto. Con queste condizioni, anche piccoli impedimenti contingenti, che non permettono all'elettorato democratico l'esercizio del voto, possono essere determinanti per il conteggio finale. A bilanciare la sicura partecipazione al voto dei repubblicani, il partito democratico può vantare una macchina organizzativa maggiormente funzionante, capace, cioè di una maggiore mobilitazione dei suoi elettori, che è stata determinante nel 2008, quando l'entusiasmo per il candidato Obama, proveniente sopratutto dall'elettorato giovanile, ne favorì l'affermazione. Ma in questo segmento elettorale vi è, attualmente, una grossa parte di delusi, che non voteranno certamente per Romney ma si asterranno facendo venire a mancare suffragi, che potrebbero rivelarsi decisivi. Non solo, sia gli elettori bianchi, che le donne avrebbero voltato le spalle al Presidente in carica, con percentuali rispettive del meno trentasette e del meno sei per cento previste, rispetto alle scorse elezioni. Non per niente nelle fasi finali della campagna elettorale, il partito democratico si è concentrato sull'elettorato ispanico, che rappresenta il grande serbatoio a cui attingere per colmare i vuoti che dovrebbero venirsi a creare; ma questo è un elettorato che tende a non esercitare il proprio diritto di voto, pur simpatizzando in maggioranza per Obama, diventa così essenziale l'opera di convincimento in cui i volontari democratici si stanno producendo strenuamente. Contro Obama, che per ora è in vantaggio, anche se esiguo, nei sondaggi effettuati su chi ha esercitato il voto anticipato, vi è anche una migliore organizzazione della macchina repubblicana, rispetto a quella che sosteneva McCain, sul quale pesava la scarsa convinzione del partito come candidato alla presidenza; prova ne è il dato riguardante la raccolta dei fondi per la campagna elettorale di Romney, raddoppiata rispetto a McCain. Sono quindi ore convulse quelle che attendono gli USA ed anche il mondo intero, il risultato delle elezioni presidenziali USA, mai come in questo momento sarà gravido di conseguenze in entrambi i verdetti possibili.

La Cina irritata con il Commissariato ONU per i diritti umani per le denuncia sul trattamento dei tibetani

Dopo le dichiarazioni del Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, che hanno espressamente denunciato il governo cinese per la ripetuta e sistematica violazione di tali diritti, ai danni del popolo tibetano, la reazione di Pechino non si è fatta attendere. Complice l'attenzione mediatica a cui la Cina è sottoposta per la celebrazione del congresso del Partito Comunista Cinese, l'accusa del Commissariato ONU, ha assunto una rilevanza ancora maggiore, che è stata accusata molto dai dirigenti cinesi, come si comprende dal tono della risposta. Infatti Pechino ha opposto la più ferma opposizione, esprimendo delusione profonda per le accuse rivoltegli, affermando che la comunità tibetana gode di tutta la libertà politica, religiosa, culturale ed economica, come il resto dei cinesi. Se in altre occasioni sulle accuse rivolte all'azione repressiva sul popolo tibetano, Pechino ha, in molti casi, glissato o usato frasi di circostanza, tendenti a limitare la propria reazione per fare cadere la questione, la reazione di questi giorni è il sintomo di un nervosismo crescente tra le fila del governo, dovute, in parte all'attenzione rivolta da tutto il mondo alla transizione di potere ed in parte dovute al sempre più crescente interesse sulla questione tibetana, che rischia di essere la prima spina nel fianco della nuova dirigenza. Tuttavia lo schema difensivo ricalca quello classico usato da sempre: addossare la colpa delle dimostrazioni suicide dei monaci tibetani all'azione politica del Dalai Lama, il quale viene accusato di uso spregevole della vita altrui. Se la Cina crede di avere ragione sul suo comportamento in Tibet, risulta incredibile come possa difendersi con argomenti così poco convincenti, è chiaro che le dimostrazioni dei monaci stanno ottenendo una attenzione al problema tibetano, che Pechino ha troppo a lungo sottovalutato, sia dal punto di vista interno, che da quello esterno. La continua negazione dei diritti civili poteva essere attenuata con forme di riconoscimento della cultura tibetana, che potessero portare ad un compromesso sostenibile di convivenza per entrambe le parti, ma il rigido atteggiamento cinese ha portato all'esasperazione i tibetani, che, pur tra una censura molto ferrea ed impermeabile al passaggio delle notizie, hanno messo in pratica una protesta tremenda e tradizionale, capace di sensibilizzare l'opinione pubblica mondiale, già di per se molto attenta al problema, grazie all'azione incessante e pacifica del Dalai Lama. La politica che uscirà dal Congresso del Partito Comunista in corso dovrà per forza misurarsi e confrontarsi con la questione tibetana, che potrà essere anche un termine di paragone molto probante per valutare il grado di apertura che il nuovo direttivo vorrà concedere a tutte le popolazioni e minoranze etniche presenti sul suolo cinese. In presenza di una continuità contraddistinta da una rigidità come l'attuale, la Cina è destinata ad avere grossi problemi, se, viceversa, verrà attuata una politica di aperture, certo graduali, per Pechino sarà più agevole amministrare la questione dei diritti umani; ma ciò non vale soltanto per i popoli di etnia differente, ma deve essere esteso a tutta la platea del popolo cinese e non può non essere esteso al mondo del lavoro, dove, finora, i diritti sono stati calpestati in nome della produttività. Il Tibet non sarà l'unico fronte per i nuovi dirigenti cinesi, gli scioperi e le dimostrazioni per ottenere migliori condizioni di vita, sono in costante aumento e segnalano la volontà delle classi più povere di avere un miglioramento delle loro condizioni di vita. Questi aspetti, etnico, economico e della rivendicazione dei diritti, non sono slegati perchè fino ad ora hanno subito un trattamento analogo improntato alla negazione ed alla repressione, ma l'evoluzione delle coscenze dei cinesi non permetterà più a lungo uno stato di eterna sudditanza.

lunedì 5 novembre 2012

Giappone ed USA iniziano le esercitazioni militari, nonostante la tensione con la Cina

Sono iniziate le esercitazioni militari congiunte, che vedono impegnate le forze armate giapponesi e statunitensi, presso le isole di Okinawa, sotto cui ricade l'amministrazione dell'arcipelago delle isole di Senkaku o Diaoyu, per la Cina, fonte di disaccordo diplomatico profondo tra Tokyo e Pechino. Le manovre si svolgeranno fino alla metà del mese ed inizialmente dovevano anche includere un atterraggio di aerei militari su una delle isole di Okinawa, che è stato cancellato per non aumentare tensione con la Cina. Malgrado la consapevolezza giapponese che queste esercitazioni potranno aumentare i difficili rapporti con Pechino, Tokyo ha deciso di volere riaffermare la sua sovranità sulle isole contese, rafforzando la difesa delle sue isole meridionali e coinvolgendo in prima persona il suo principale alleato: gli Stati Uniti. Washington ha aderito alle manovre, incurante dell'esplicito avvertimento cinese, di qualche tempo prima, di restare al di fuori della questione, atteggiamento che alla conclusione del congresso del Partito Comunista Cinese, dovrà rendere conto a Pechino. Il dispiegamento delle forze appare imponente per affermare la sovranità su di un territorio di appena sette chilometri quadrati, infatti sono stati impegnati 37.000 effettivi dell'esercito nipponico su di cinque navi militari, coadiuvati da 10.000 soldati ed una portaerei americana, segnale eloquente per il paese cinese, al momento concentrato sul passaggio di potere dei vertici del partito. Tuttavia la scelta di effettuare le esercitazioni senza ammettere la presenza dei media, tradisce un certo nervosismo da parte dei nipponici, che intendono dare pubblicità alla cosa soltanto attraverso le dichiarazioni ufficiali. Non si comprende se ciò è dovuto a ragioni di riserbo di natura diplomatica o militare, ma è sintomatico che tale dispiegamento di forza, segua le esercitazioni cinesi effettuate a metà ottobre nel Mar Cinese Orientale, che hanno visto la partecipazione di undici navi da guerra e quattro aerei delle forze armate di Pechino. Questa altalena di manifestazioni di esibizione di forza militare, stanno portando la regione sempre più sull'orlo di una pericolosa instabilità, che si deve inquadrare nello sviluppo delle situazioni politiche interne dei paesi coinvolti. Se, come pare probabile, il Giappone, ma anche la Cina, che pure rinnoverà il suo gruppo dirigente, non cambieranno atteggiamento sulla contesa, diventerà fondamentale l'atteggiamento che vorrà tenere il nuovo Presidente degli Stati Uniti. Qualora alla volontà di mediazione di Obama, dovesse subentrare il meno attendista, secondo quanto da lui stesso dichiarato, Romney, la situazione potrebbe avere uno sviluppo deleterio. Se appare difficile un confronto armato tale da proporre scenari da guerra navale, un irrigidimento della questione potrebbe dare il via ad embarghi e blocchi sulle rotte dei mari orientali, tali da mettere in crisi più di un settore economico; inoltre gli USA non potrebbero che seguire il Giappone ed il confronto tra le due più grandi potenze mondiali potrebbe acuirsi su quei temi le cui rispettive posizioni sono di forte contrasto: come l'economia ed il commercio con l'estero. La soluzione miglore sarebbe ricorrere ad un arbitrato, o almeno una mediazione, delle Nazioni Unite che arrivasse alla decisione di porre in una sorta di neutralità, mediante una amministrazione diretta del Palazzo di vetro, le isole contese, con lo scopo di congelare una situazione che sta aumentando sempre di più il suo potenziale esplosivo. Tuttavia nella contesa il soggetto maggiormente rigido è rappresentato dal Giappone, che, interessi materiali a parte, con il suo governo pare deviare, mediante la focalizzazione su questioni internazionali come questa, la propria pochezza. Attraverso la naturale predisposizione nazionalistica della maggior parte del popolo nipponico, Tokyo ha avuto finora buon gioco a raccogliere i favori della sua azione nell'opinione pubblica; resta da vedere se la situazione dovesse aggravarsi quale sarà la risposta ed il gradimento della popolazione.

Un intervento militare in Mali è questione di tempo

Il timore della comunità internazionale, per un avanzamento dell'estremismo islamico nel nord del Mali, spingono la diplomazia ad accelerare la strategia di pressione sul gruppo tuareg Ansar Dine affinchè rompa la sua alleanza con Al Qaeda. La situazione nella parte settentrionale del Mali è caratterizzata da gruppi armati che applicano in modo integrale la Sharia e quello che viene temuto è un'espansione dell'influenza di questi gruppi nei paesi confinanti: Algeria e Burkina Faso. Proprio nei giorni scorsi in Burkina faso ci sarebbe stato un vertice con i leader di Ansar Dine, con il chiaro scopo di allontanarli, tramite la rottura con le organizzazioni jihadiste, AQIM (Al Qaeda nel Maghreb islamico) ed il Movimento per l'unità e la jihad in Africa occidentale, dall'influenza di Al Qaeda e raffreddare, così la tensione della regione. Inoltre colloqui si sarebbero svolti anche ad Algeri, con i rappresentanti di Ansar Dine, che avrebbero sottolineato la loro indipendenza dalle volontà dei movimenti legati ad Al Qaeda. Se queste premesse possono fare sperare in un isolamento di Al Qaeda, dalla contesa, eliminando una potenziale alleanza pericolosa, non scongiurano la possibilità di un intervento militare, a lungo studiato e preparato dai paesi dell'Africa occidentale con il sostegno logistico di USA e Francia, finalizzato a restaurare l'autorità della capitale del Mali, Bamako, sul proprio territorio e sopratutto infliggere un colpo definitivo all'estremismo islamico presente nel paese attraverso le formazioni legate ad Al Qaeda. Per l'occidente questo fronte sta diventando importante, perchè eliminare la presenza qaedista da questi territori, che non sono facilmente controllabili, significa eliminare basi logistiche e di addestramento per i terroristi islamici e, sopratutto, impedire uno sviluppo dell'influenza, anche politica e non solo militare, di Al Qaeda, che potrebbe, in un futuro prossimo, diventare punto di riferimento di un progetto più ampio della diffusione dell'estremismo islamico. Per Al Qaeda al contrario, dopo le ripetute sconfitte ricevute, l'affermazione, sotto forma di sovranità, in un territorio fisico determinato può significare un punto da cui ripartire per la propria riorganizzazione. Ma la strategia dei sostenitori dell'azione militare non può basarsi su interventi isolati, ma deve essere costruita attraverso la creazione di una rete di alleati locali ben radicati sul territorio, in modo da garantire che gli effetti dell'intervento siano durevoli nel tempo, ripristinando le condizioni di sicurezza che impediscano la rinascita di Al Qaeda nella regione. In quest'ottica è così da inquadrare la trattativa con il movimento Ansar Dine ed il suo leader Iyad ag Ghaly. Tuttavia un attore fondamentale nel teatro in cui si svolge la questione, l'Algeria, non è mai stato favorevole ad un intervento militare immediato, ciò riduce i margini di manovra dei piani occidentali, giacchè senza Algeri, od anche senza il suo appoggio più convinto, la riuscita di una azione bellica sarebbe fortemente compromessa, perchè verrebbe a mancare l'esperienza dell'esercito algerino e la conoscenza della sua diplomazia, che ha gestito in precedenza i complicati rapporti con il Gruppo Islamico Armato, formazione da cui è derivata Al Qaeda nel Maghreb. Algeri, infatti, propende, in una prima fase, per un maggiore coinvolgimento dei Tuareg più nell'azione politica che in quella militare, in maniera di isolare i gruppi terroristici, da colpire in una seconda fase. Risulta chiaro che l'elemento fondamentale è però il tempo, gli occidentali stimano che la situazione richieda una risoluzione più rapida, perchè temono che il contagio dell'estremismo si propaghi ad una velocità superiore a quella necessaria per risolvere la questione con gli intendimenti algerini. Su di questa divergenza si giocherà il futuro, immediato e no, della zona del Mali ora sottomessa alla sharia.

venerdì 2 novembre 2012

Londra sempre più lontana dalla UE: per Bruxelles è tempo di prendere una decisione

La crisi in cui si trova il governo britannico del conservatore Cameron, relativa al voto contrario del parlamento di Londra sul bilancio dell'Unione Europea, potrebbe portare la sesta economia mondiale fuori da Bruxelles. Attualmente l'effetto immediato generato dal voto contrario è di avere acuito l'isolamento in cui il Regno Unito sta patendo dentro la UE, una condizione di emarginazione voluta dagli stessi britannici poco disposti a cedere quote di sovranità, in nome dell'unificazione finanziaria e politica del vecchio continente. E' una posizione, di fatto, voluta dal premier in carica, Cameron, che con il suo atteggiamento chiaramente euroscettico, ha tenuto una condotta tale da prendere i vantaggi dell'appartenenza all'Unione, rifiutandone le scelte scomode che hanno cominciato ad essere sempre più frequenti per combattere la crisi. Infatti se questo comportamento era ancora sostenibile dagli altri membri e dal complesso dell'Unione Europea in assenza delle problematiche legate al sopraggiungere della crisi, con il peggioramento dell'economia mondiale ed in particolare dell'area dell'euro, la condotta britannica, troppo staccata dalle politiche comuni sempre più pressanti, non pare essere più sostenibile da Bruxelles. Del resto anche il comportamento dello stesso Cameron ha più volte evidenziato la ricerca di spazi liberi per attrarre capitali a discapito degli alleati, riempiendo gli spazi che si erano venuti a creare in maniera scorretta, che hanno sottoscritto regole e politiche economiche più severe. L'eccessiva protezione della finanza londinese, teatro di grandi speculazioni che hanno contribuito alla crisi della moneta unica europea, il rifiuto dell'applicazione, conseguente, della Tobin tax e l'isolazionismo monetario hanno decretato per il Regno Unito la patente di inaffidabilità alla causa europea, già prima di questa ultima votazione negativa. Tuttavia sembra di essere vicini ad un punto di non ritorno, lo stesso premier, appare preoccupato per le conseguenze del rifiuto del bilancio europeo e negli stessi euroscettici, la prospettiva di essere fatti uscire dall'Unione Europea, è vista con timore. I motivi espressi per giustificare l'ennesimo rifiuto all'Europa, paiono scuse di facciata, che non possono fornire adeguate spiegazioni ad una eventuale richiesta da parte di Bruxelles. Affermare che la ragione principale del voto contrario è la difesa del contribuente britannico sembra, oltre che una banale scusa, una visione troppo a corto raggio della situazione e sopratutto della sua evoluzione, tanto che, insieme a chi è realmente convinto di questa motivazione, vi è anche chi stato preso in contropiede da un risultato denso di troppe incognite. Se per Londra il bilancio europeo è fonte di spese esagerate, ed inoltre ciò rappresenta soltanto l'ultima politica economica europea con cui si è in pressochè totale disaccordo, deve essere coerente con la sua idea, prendere atto che la maggioranza degli stati membri della UE ha deciso in una direzione opposta ed uscire dall'Unione Europea. Bruxelles non ha ancora espresso una posizione ufficiale, ma Londra risulta ancora più lontana con il verificarsi di questo episodio, che però non desta sorpresa e si colloca in un solco già abbondantemente segnato proprio dal Regno Unito. Piuttosto sarebbe da prendere in considerazione la possibilità di una esclusione dalla UE del paese britannico su impulso del Parlamento Europeo, quale atto politico fondante di una unione basata sulla piena condivisione ed accettazione di regole comuni capaci di fornire quella unità politica ormai irrinunciabile. Per lo scetticismo di Londra, nella casa comune europea, non deve esserci posto, la velocità della crisi impone scelte, che possono sembrare dolorose, ma che appaiono necessarie e funzionali per il raggiungimento dell'obiettivo dell'unificazione. Una tale scelta avrebbe implicazioni negative da ambo i lati, potrebbe cadere la libera circolazione di persone e merci ed i flussi di denaro che sono andati anche verso l'isola a nord della Francia cesserebbero di prendere quella direzione. Probabilmente Londra non ha valutato bene, specialmente sul lungo periodo, gli effetti di una esclusione dalla UE, anche se il timore che si respira negli ambienti politici ed economici londinesi pare prendere sempre più coscienza di un evoluzione portatrice più di aspetti negativi. Con la rottura vicina, però il governo lascia aperto uno spiraglio per cercare di convincere il partito di maggioranza, lo stesso del governo, a cambiare atteggiamento: ma sarebbe il momento giusto per Bruxelles per fare un atto clamoroso, capace di presentare la UE come protagonista al mondo intero e decidere l'esclusione del Regno Unito, provvedimento che servirebbe come monito ad altri campioni dello scetticismo europeo.