Politica Internazionale

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giovedì 31 gennaio 2013

Israele mette in atto la politica di prevenzione in Libano e Siria

Pur non essendoci conferme ufficiali da alcuna parte, l'aviazione israeliana avrebbe compiuto i giorni scorsi una di quelle azioni definite come politica di prevenzione dal governo. Infrangendo i canoni del diritto internazionale Tel Aviv, ha compiuto, come già avvenuto in passato, una azione militare in territorio straniero senza la preventiva dichiarazione di guerra. In effetti il comportamento che sta seguendo il raid aereo è quello di assoluto silenzio, che non prevede ne smentite ne conferme, comportamento che collima con quello delle parti colpite, che non hanno denunciato alcuna violazione della propria sovranità, in quanto impegnate in azioni comunque al di fuori della normale prassi. Il fatto si può riassumere come una operazione volta ad impedire il rifornimento di materiale militare, dalla Siria alla fazione di Hezbollah presente nel Libano meridionale; gli armamenti distrutti dell'azione militare, dovrebbero essere stati missili antiaerei avanzati, i SA-17 russi ed apparecchiature elettroniche anti droni. Per gli hezbollah si tratta di armi tattiche, che dovevano contrastare i frequenti voli di controllo che l'aviazione militare israeliana compie proprio nella parte sud del Libano, dove sono situati i campi dei miliziani islamici. Israele si trova ora, così impegnato nella parte settentrionale del suo territorio, con un dispiegamento militare importante, che comprende, oltre alla flotta aerea, il dispiegamento delle batterie "Iron Dome". Questo stato di allerta indica la profonda preoccupazione con cui Tel Aviv segue l'evolversi della guerra civile siriana, sopratutto in relazione alle possibili destinazioni degli arsenali di armi chimiche; a questo riguardo il monitoraggio delle agenzie governative israeliane si è intensificato ed anche l'azione che sarebbe avvenuta in territorio siriano, con il bombardamento di un centro di ricerca governativo, situato nel Golan meridionale, si inquadra in questa strategia di difesa preventiva. I diplomatici di Israele avrebbero comunque avvertito preventivamente degli attacchi, sia gli USA, che la Russia, i primi in quanto alleati ed i secondi come uno degli ultimi stati in buoni rapporti con Assad e, sopratutto, con una flotta navale di stanza a Tartus, porto del Mediterraneo. Nella dottrina di autodifesa israeliana, non è questo il primo caso di politica preventiva, la Siria è già stata colpita nel 2007, con la distruzione di un reattore nucleare, a cui il paese arabo non ha opposto altro che il proprio silenzio, mentre, recentemente, nell'ottobre scorso ad essere distrutta fu una fabbrica di armi nel Sudan, che protestò per la violazione del proprio spazio aereo ed ancora prima, sempre nel paese africano, nell'aprile 2011 ad essere colpito fu un convoglio diretto a Gaza, che trasportava armi per i miliziani di Hamas. In tutti questi casi Israele ha mantenuto un atteggiamento distaccato non confermando ne fornendo smentite alle accuse per essere entrato in territorio straniero con i propri mezzi militari. Ma la situazione altamente pericolosa del conflitto siriano sposta in un'altra prospettiva il modus operandi delle forze armate israeliane, che pur con mille cautele, agiscono motu propriu al di fuori dei propri confini. Se, da una parte, si possono comprendere i timori israeliani dovuti al possibile e potenziale approvigionamento di armamenti sofisticati da parte di formazioni nemiche dello stato ebraico, dall'altra i concreti rischi di emulazione di paesi nemici alla potenza israeliana, si possono tragicamente concretizzare nella direzione opposta. Non va dimenticato, infatti, che l'Iran è sicuramente, anche se non ufficilamente, presente sul suolo siriano a fianco dell'esercito governativo, ed un possibile incidente, che coinvolgesse el sue parti avverse avrebbe sicuramente conseguenze nefaste, dopo le tensioni che hanno caratterizzato la seconda parte dello scorso anno, per la questione del nucleare di Teheran. Gli sconfinamenti israeliani possono quindi innescare quella diffusione del conflitto siriano tanto temuta dal mondo, nella regione più nevralgica del pianeta. Diventa, quindi, sempre più necessario affrontare il conflitto siriano in maniera sovranazionale, con un impegno concreto dell'ONU, per fermare i continui massacri ed evitare una guerra con conseguenze ancora maggiori.

martedì 29 gennaio 2013

Egitto: le forze armate possono esercitare un ruolo più importante nello stato

Nella condizione sempre più incerta, in cui si trova attualmente l'Egitto, è ancora l'esercito uno dei punti fermi dello stato. Malgrado i ripetuti tentativi di delegittimazione e la ristrutturazione imposta dal nuovo governo, le forze armate dimostrano di potere esercitare ancora un ruolo istituzionale di primo piano. Le dichiarazioni del Ministro della Difesa Abdel Fatah El Sisi, sono state molto significative al riguardo. Per i militari la crisi che sta perdurando nel paese, rischia di portare lo stato al collasso, il raggiungimento della stabilità appare lontano, per la condizione di continuo conflitto tra le diverse forze politiche e l'estremizzazione del trattamento della cosa pubblica, con l'imposizione di leggi e provvedimenti non condivisi, come la proclamazione della nuova costituzione, che si basa fortemente sulla legge islamica, escludendo la laicità dello stato. Il rischio concreto è la minaccia della sicurezza dell'apparato statale e l'unità della nazione, senza le quali il futuro delle giovani generazioni, ma non solo, appare fortemente compromesso. Tuttavia il ministro della difesa ha affermato che le forze armate resteranno un argine contro questa deriva, ed in quest'ottica va visto il dispiegamento dell'esercito per proteggere gli obiettivi più sensibili del paese, come il canale di Suez, considerato fondamentale nelle infrastrutture dello stato. Tra i militari è molto sentito il problema del diritto dei cittadini a manifestare il proprio dissenso e gli eventuali ordini impartiti alle forze armate per mantenere la sicurezza: il confine tra protezione e repressione appare in casi di esasperazione molto labile, ma nell'esercito vengono vissute con disagio le direttive che impongono l'uso della forza contro i manifestanti. Occorre dire che all'interno dei militari le idee di matrice islamica, che hanno portato al potere i Fratelli Musulmani, non hanno mai attecchito e che lo spirito delle forze armate è sostanzialmente laico. Proprio per questo i rapporti con i partiti al governo non sono dei migliori, l'apparato militare avrebbe preferito una vittoria di quella che ora è l'opposizione per una serie di ragioni sia di politica interna che estera. L'invasività nella vita civile dei partiti confessionali, incapaci di trovare una sintesi con le forze laiche, ha parzialmente isolato i militari dalla vita dello stato, dove prima svolgevano un ruolo da protagonista, confinandoli all'interno dei loro esclusivi compiti istituzionali, ma i militari, mantenendo una sorta di imparzialità durante la primavera araba, hanno evitato derive pericolose, limitando, anche se non del tutto, gli episodi di violenza. Grazie a questo comportamento credevano di avere meritato un ruolo più attivo nella costruzione del nuovo stato, sorto dalla fine della dittatura di Mubarak, ma la diffidenza dei vincitori della tornata elettorale, ben consci della loro laicità, ne ha limitato il raggio di azione. Soltanto la situazione attuale, sempre più incerta, che determina una sostanziale ingovernabilità, può ridare ai militari un ruolo di bilanciamento del sistema, che pareva perduto. Ciò è quello che teme la parte al potere e ciò che potrebbe auspicare quella all'opposizione: la trasformazione dello stato egiziano in una sorta di teocrazia, tra l'altro avvenuta in modo subdolo, può fare superare ai partiti politici sconfitti, eredi di quei movimenti laici messi fuori legge da Mubarak, la sfiducia nelle forze armate in quanto espressione dello svolgimento del ruolo di braccio armato del dittatore. Pur essendo vero che i militari, ad un certo punto della ribellione, hanno operato una inversione di rotta nei confronti di Mubarak, sostanzialmente abbandonandolo sotto la spinta della folla, dopo averlo inizialmente protetto, successivamente hanno dimostrato con i fatti la loro propensione verso la costruzione di uno stato non confessionale, come scelto dalla maggioranza degli egiziani. Anche nella politica estera, l'allontanamento dagli USA, non è ben visto dai militari, che potevano contare su forme di collaborazione e rifornimento di armi da Washington, ora sostanzialmente sospese, per l'indirizzo assunto dal governo de Il Cairo. Se un colpo di stato non è pensabile, appare però non improbabile la ricerca del riconoscimento di un ruolo meno defilato nella gestione dello stato, sopratutto in ragione di una effettiva impossibilità del potere politico di gestire il diffuso malcontento, che si sta materializzando sempre più spesso con manifestazioni di dissenso. Se le forze armate o la situazione contingente riusciranno ad obbligare le forze governative a trovare un accordo con i militari, l'indirizzo fortemente confessionale preso dall'Egitto potrà senz'altro essere mitigato, con aperture favorevoli anche per l'occidente in una parte nevralgica, per la pace nel mondo.

Il problema dell'indipendenza dei Tuareg come mezzo per eliminare il terrorismo islamico dal nord del Mali

L'evoluzione della situazione del nord del Mali potrebbe aprire le porte a nuovi scenari. Dopo circa un anno dalla ribellione dei Tuareg, a causa di una situazione ormai lunga di ingiustizie e per la rivendicazione di un proprio stato autonomo, la rivolta separatista si è trasformata in caso internazionale per l'intervento militare francese contro gli estremisti islamici, che nel frattempo si sono inseriti nella dissoluzione dello stato del Mali. La condizione iniziale che ha favorito la ribellione del popolo degli uomini blu è stata la fine del regime di Gheddafi, che ha liberato l'accesso agli arsenali libici e, nel contempo, ha causato la fuga dei miliziani fedeli al regime verso i territori desertici, ma non presidiati dello stato maliano. Questo aspetto ha, però, favorito l'inserimento nella questione dei gruppi Jihadisti, che, ha causa della forza insufficiente dei tuareg per sostenere la propria battaglia, hanno rappresentato per gli insorti un alleato naturale. Si è passati così da uno stato di anarchia ad uno dove l'imposizione più stretta della legge coranica, la sharia, ha preso il sopravvento, grazie all'emarginazione dei tuareg, in ragione della maggior forza militare degli estremisti islamici. La condizione del popolo del nord del Mali è subito peggiorata, perchè sottoposta ad atrocità ed abusi per mezzo di amputazioni, fustigazioni ed esecuzioni pubbliche, comminate spesso per reati di poca entità o addirittura inesistenti. In realtà lo stato di terrore imposto alla popolazione civile è servito per coprire le attività illecite dei fondamentalisti, che controllano il traffico dei migranti, il mercato delle armi e le vie della droga; ultimamente il business dei rapimenti di occidentali è quello che si è rivelato tra i più redditizi. Soltanto per questi motivi un intervento internazionale era auspicabile, la responsabilità delle nazioni più evolute non poteva permettere lo stato di pesante costrizione a cui la pacifica popolazione del Mali settentrionale era costretta. Tuttavia insieme alle ragioni umanitarie occorreva impedire la formazione di una entità autonoma, dotata di un proprio territorio, dove potesse svilupparsi una gigantesca base per il terrorismo islamico, per di più quasi sulle coste meridionali del Mediterraneo. L'azione francese ha supplito all'assenza del resto del mondo, nonostante esistesse un impegno preso da una risoluzione del Consiglio di sicurezza che approvava un intervento armato, senza, però, fissare una tempistica certa. L'avanzata dei ribelli verso il sud del paese ha così accelerato i tempi e la manovra di Parigi, che, senza essere sostenuta, in un isolamento colpevole, ha permesso al governo legittimo del Mali di riconquistare praticamente l'integrità della sua sovranità. Ma l'estrema povertà del Mali non consente al suo governo un dominio continuato sui suoi territori, la forte instabilità del paese, senza aiuti esterni, che in questa fase devono essere essenzialmente di tipo militare, potrebbe dare luogo ad una varietà molteplice di scenari, da cui la stessa capitale, Bamako, non è immune, per il forte disagio sociale e la violenza latente presente nella città. Quello che è in pericolo non è solamente l'integrità del paese ma le conseguenze, anche sui paesi vicini, di un possibile allargamento dell'influenza dell'estremismo islamico. Del resto la creazione di una vasta area dove estendere il proprio potere è uno degli obiettivi dichiarati di Ansar al-Din, il Movimento per l'unità e la Jihad in Africa occidentale (MUJAO) e Al Qaeda nel Maghreb Islamico (AQIM). Questi tre gruppi radicali, che mantengono forti legami tra loro, mirano a creare uno stato islamico governato dalla sharia ed ambiscono ad espandersi fino alla Nigeria, dove grazie agli atti dei radicali islamici compiuti contro i cattolici, possono trovare una accoglienza favorevole da gran parte della popolazione. Una possibilità per evitare il contagio dell'estremismo, potrebbe essere quella di eliminare la questione dei tuareg, che rimane irrisolta e pronta sempre a prendere ogni possibilità per raggiungere l'indipendenza, come i fatti recenti hanno dimostrato. Ma il problema non è di facile soluzione perchè i territori rivendicati dagl i uomini blu comprendono aree presenti, oltre che nel Mali, anche in Algeria, Libia, Niger e Burkina Faso. Il Movimento Nazionale per la Liberazione del Azawad (MNLA), il gruppo separatista che rappresenta le istanze dei tuareg, chiede la formazione di uno stato indipendente, per evitare la continuazione dell'emarginazione subita da anni da governi centralisti che non hanno mai compreso la vita nomade di questa popolazione. Peraltro si tratta di aree più o meno desertiche dove la maggiore ricchezza sono le vie commerciali che attraversano il deserto del Sahara. I tuareg non sono degli estremisti religiosi ed un loro stato non dovrebbe subire le influenze dell'islamismo radicale, inoltre potrebbero presidiare il territorio contro l'espansione di movimenti terroristici, anche grazie a forme di cooperazione con i paesi occidentali. Per il momento però questa soluzione appare remota, proprio per la compromissione delle tribù nomadi con i radicali islamici, anche se dovuta più che altro a ragioni funzionali e di opportunità. Ma il trattamento riservato al Movimento Nazionale per la Liberazione del Azawad, anche a causa di divisioni interne, dagli islamisti, che lo hanno praticamente espulso dalla loro zona di influenza, potrebbe costituire un mezzo attraverso il quale guadagnarsi la loro fiducia, certo dopo, avere concesso almeno qualche forma di autonomia. Pur non essendosi pronunciato ancora ufficilamente sull'intervento francese il Movimento Nazionale per la Liberazione del Azawad ha già denunciato, attraverso il suo rappresentante in Europa, i comportamenti repressivi degli islamisti, lanciando un chiaro segnale di avversione. che l'occidente dovrebbe sfruttare nella maniera più completa.

lunedì 28 gennaio 2013

Israele teme il destino dell'arsenale chimico della Siria

Il timore che l'arsenale chimico siriano, o parte di esso, possa cadere nelle mani dei miliziani di Hezbollah o della parte islamica dei ribelli di Siria, sta provocando uno stato di allarme in Israele. Nell'immediato, batterie di missili "Iron Dome" sarebbero state schierate a nord del paese ed esisterebbe già un progetto per la costruzione di una barriera di sicurezza, lungo il confine siriano, del tutto simile a quella sul confine meridionale con l'Egitto. La preoccupazione è molto alta a Tel Aviv, dove la minaccia potenziale che potrebbe provenire dalla Siria viene considerata pericolosa al pari dell'Iran, per la stessa esistenza dello stato di Israele. Ciò che è molto temuto è l'inserimento di Teheran nella dissoluzione del regime di Assad e nella possibilità di impadronirsi delle tanto temute armi chimiche, l'Iran è il maggiore alleato della Siria di Assad e suoi uomini hanno combattuto o stanno combattendo a fianco dell'esercito regolare contro i ribelli, questa presenza sul territorio potrebbe permettere un facile accesso agli arsenali non convenzionali ed una conseguente distribuzione alle milizie degli armamenti. Israele guarda con preoccupazione a questi possibili sviluppi, tanto da definire la movimentazione delle armi chimiche il confine oltre il quale sarebbe altamente probabile un intervento diretto, volto a scongiurare tale possibilità. Malgrado le affermazioni ufficiali circa lo schieramento delle batterie "Iron Dome", venga definito come un normale avvicendamento, la tensione negli ambienti militari è palpabile, mentre si guarda allo sviluppo della situazione. Quando si parla di un possibile coinvolgimento diretto di Israele fuori dai propri confini è inevitabile analizzare la situazione negli Stati Uniti: Obama continua ad essere scettico in un coinvolgimento diretto delle forze armate USA in Siria; il Presidente americano deve valutare le conseguenze di un conflitto sia in rapporto all'impegno ancora esistente in Afghanistan, sia agli sviluppi della guerra civile siriana, le risorse americane, benchè ingenti, non sono infinite ed il timore di un nuovo impegno prolungato spaventa la Casa Bianca. Tuttavia se Tel Aviv decidesse di intervenire non sarà lasciato solo, la speranza a Washington è che si possa trattare di un'azione lampo circoscritta al solo scopo di impedire la distribuzione degli arsenali chimici. Ma la presenza iraniana sul campo rischia che da un episodio circoscritto si arrivi ad un confronto più ampio, proprio tra Tel Aviv e Teheran sebbene in campo neutro. Questo scenario sarebbe completamente nuovo rispetto alle tante congetture elaborate per un possibile attacco dei caccia israeliani ai siti dove si pensa venga costruita l'atomica scita. Difficile pensare ad una soluzione certa di tale confronto, se non una completa destabilizzazione della regione, la Siria potrebbe diventare un gigantesco campo di battaglia, dove andrebbe in scena non soltanto la guerra civile già in corso, ma un conflitto tra potenze straniere capace di alterare le alleanze e lo sviluppo del conflitto interno con conseguenze pericolose per i rapporti internazionali anche tra stati non direttamente coinvolti. La questione è seguita anche dalle altre cancellerie, in particolare il Cremlino, che mantiene la sua posizione pilatesca, che propugna la soluzione interna riservata al solo popolo siriano. La formula mira alla salvaguardia della persona del dittatore Assad, cui potrebbe essere riservato diritto di asilo e nel contempo che possa permettere a Mosca di mantenere la propria base navale, unica presenza russa nel Mediterraneo. Ma i negoziati che la Russia continua a promuovere tra le parti hanno ormai poca speranza di arrivare ad una conclusione, come poche possibilità sono ormai che Assad abbia ragione dei ribelli, i quali, però a causa delle loro divisioni non riescono a dare la spallata finale al regime, ma l'allargamento del conflitto potrebbe ridare speranze allo stesso Assad, a cui potrebbe giovare una situazione di maggiore confusione. In questa ottica, la presenza di piani per favorire tale degenerazione non sarebbe così improbabile, sopratutto in relazione alle parti che potrebbero avvantaggiarsene.

La Cina minaccia la Corea del Nord

La pazienza della Cina, nei confronti della Corea del Nord sembra finita. L'interesse principale di Pechino è che nella regione vi sia stabilità e la tensione che si è sviluppata in conseguenza del lancio del razzo da parte di Pyongyang ha provocato le dure reazioni di USA, Corea del Sud e Giappone, che sono culminate nelle nuove sanzioni a cui la dittatura ereditaria è stata sottoposta, proprio con l'avallo cinese. La Corea del Nord può contare solo sull'alleanza con la Cina, per il resto non intrattiene, praticamente relazioni con altri stati, tanto da essere stata definita stato eremita. Dal legame con la Repubblica Popolare Cinese provengono, in maniera esclusiva, tutti gli aiuti economici, che consentono al paese, seppure tra infinite difficoltà, la sopravvivenza. Questa situazione permette di comprendere come la Cina sia l'unico attore internazionale che possa esercitare una influenza concreta sulla Corea del Nord, tale da fermare l'escalation nucleare di Pyongyang. Si è arrivato così alla concreta minaccia della riduzione degli aiuti essenziali per il paese nordcoreano, se si verificheranno ulteriori test nucleari. Del resto mai, fino ad ora, la posizione cinese era stata più esplicita di adesso, con l'approvazione delle sanzioni Pechino ha formalmente censurato di fronte al mondo intero le velleità della Corea del Nord. Ma il passo successivo, della minaccia della sospensione degli aiuti, segna uno sviluppo ancora ulteriore nel volere esercitare l'influenza decisiva nei confronti dell'alleato, tanto che le relazioni tra i due paesi stanno attualmente vivendo il punto più basso della loro storia. Pechino ha più volte mostrato comprensione verso questo stato ed i comportamenti bizzarri dei suoi governi, sfruttandone in maniera funzionale ai suoi scopi le azioni estemporanee, in maniera di avere un mezzo di persuasione indiretto contro gli stati concorrenti della regione, come la Corea del Sud ed il Giappone. Ma il nuovo corso cinese pare ormai orientato ad un maggiore pragmatismo, da attuare soltanto trovando un rapporto il più redditizio possibile tra gli investimenti effettuati, anche in politica estera, ed i guadagni strategici ricavabili. Se questo teorema è vero l'inaffidabilità della Corea del Nord la pone al di fuori dello spettro degli investimenti potenziali cinesi, almeno finchè non manterrà una condotta più regolare. Nel passato parevano esistere progetti di Pechino sull'utilizzo della manodopera nordcoreana, senz'altro a bassissimo costo, ma non certo specializzata a causa dell'arretratezza sia dell'istruzione, che del livello di industrializzazione del paese. Tale situazione presupponeva investimenti massicci, sia in formazione, che in macchinari per rendere i prodotti finiti vendibili in mercati emergenti, con il vantaggio, per Pyongyang della creazione di un reddito capace di innalzare il livello di vita del popolo nordcoreano. Il cambio al vertice con il nuovo dittatore al potere, pareva incoraggiare questa apertura, tuttavia con il passare del tempo e l'intensificarsi degli episodi dubbi, non risultano più chiare le intenzioni del governo e gli effettivi assetti di potere e le ultime vicende possono essere la spia del peso sempre più crescente dei militari. La Cina, inoltre, non ha gradito le dichiarazioni nordcoreane, che anzichè apprezzare il proprio impegno per ridurre gli effetti delle sanzioni, ha bollato Pechino di avere subito l'influenza determinante degli Stati Uniti. Ma ciò non corrisponde al vero: Pechino ha ormai preso atto della assoluta necessità della denuclearizzazione della penisola coreana, allineandosi alle posizioni di Washington, Seul e Tokyo, per la stabilità regionale e per il fastidio di avere un paese confinante con un governo così fuori dai canoni, che dispone dell'arma atomica. Per Pyongyang la minaccia cinese non è da sottovalutare: l'interruzione degli aiuti getterebbe il paese nel dramma, creando una situazione totalmente insostenibile, il finale più probabile, quindi, è una retromarcia della Corea del Nord verso posizioni più miti, anche perchè la Cina non può accettare altra soluzione, dato che un isolamento ancora maggiore della nazione eremita, potrebbe determinare un esodo in massa, a causa della fame, della popolazione nordcoreana proprio entro il territorio di Pechino; esito fortemente temuto dal governo cinese, ma previsto in più simulazioni nel caso della caduta della dinastia comunista ereditaria nordcoreana.

venerdì 25 gennaio 2013

Le necessità dell'UNICEF ed una strada per riformare l'ONU

L'UNICEF ha presentato il rapporto Humanitarian Action for Children per il 2013. Il contenuto rivela lo stato di necessità dell'ente delle Nazioni Unite che si occupa dell'aiuto dell'infanzia, in particolare viene richiesto un impegno per una cifra di circa 1,4 miliardi di dollari. Non si tratta di una cifra esorbitante, che potrebbe essere facilmente raggiunta con una contribuzione volontaria degli stati più ricchi, che, aldilà, dell'aspetto umanitario potrebbe rappresentare un investimento per la pace e la stabilità mondiale. Le aree di crisi dove l'UNICEF stima di intervenire, a causa dello stato di emergenza presente di tipo umanitario, di carestia alimentare o per conflitti in corso, sono ben 45 in tutto il mondo. Nel periodo compreso tra gennaio ed ottobre 2012 i dati dell'attività dell'ente risultano impressionanti: è stato fornito l'accesso all'acqua potabile a 12,4 milioni di persone, permettendo così di limitare o addirittura fermare epidemie legate al consumo di acqua non potabile, i bambini vaccinati sono stati 38,3 milioni operando così una azione di prevenzione efficace che ha risparmiato ulteriori interventi, 2 milioni hanno ricevuto cure per combattere la malnutrizione permettendo di combattere il triste fenomeno della mortalità infantile, 2,4 milioni sono stati fatti oggetto di programmi di protezione applicati spesso nel campo dello sfruttamento minorile mentre a 3 milioni è stata fornita l'istruzione scolastica, collocata per ultima in questo elenco non certo per ragioni di importanza. La necessità del reperimento di nuovi fondi potrà permettere il proseguimento e l'ampliamento di questi programmi e, nel contempo, servirà per migliorare le capacità di risposta, in termini di qualità e velocità, dell'ente in relazione alle calamità, sia naturali che causate da guerre, riducendo le conseguenze dei disastri sull'infanzia. Le emergenze più rilevanti attualmente riguardano la situazione della Siria e dei paesi confinanti, oggetto della destinazione dei tanti profughi fuggiti dal conflitto, le zone del Mali e della Repubblica Centrafricana, dove è in corso l'ultimo dei conflitti aperti in ordine di tempo e dove l'influenza dei terroristi islamici sottopone la popolazione e quindi anche la parte infantile a violenze inaudite in nome della sharia. Restano, poi le zone dove la fame a causa delle carestie è una presenza ingombrante: il corno d'Africa e la regione al confine con il Kenya. Oltre a queste zone vi è poi una serie di nazioni dove la povertà espone l'infanzia ad esperienze traumatizzanti caratterizzate da violenze e sfruttamento, malattie ed abbandono. La necessità di una azione sempre più penetrante de l'UNICEF è anche dovuta alla crisi economica che ha colpito il mondo, le organizzazioni umanitarie faticano sempre più a reperire fondi ed il loro ruolo, fondamentale, rischia di subire una contrazione che si traduce in condizioni ancora peggiori per la parte più povera del pianeta. I programmi internazionali spesso si basano su volontari o organizzazioni che vivono grazie a sovvenzioni di privati o aziende. In questo campo l'azione degli stati, quelli più ricchi, è spesso insufficiente o troppo legata ad interessi politici od economici che ne condizionano l'efficacia. Una strategia più globale contro la povertà e l'indigenza manca, paradossalmente, in uno scenario mondiale condizionato dalla globalizzazione pressochè integrale. In un tale contesto, ancora una volta, manca il coordinamento delle Nazioni Unite, incapaci di elaborare, insieme a strategie efficaci anche forme cogenti ed allo stesso tempo incentivanti per i singoli stati; così tutto è lasciato praticamente ad una azione ancora troppo influenzata dall'interesse e dai secondi fini. Questa situazione, senz'altro negativa, può però fornire una via dalla quale partire per effettuare una riforma che porti ad una drastica revisione degli strumenti, anche legali, a disposizione delle Nazioni Unite. Se è difficile fare una riforma dell'ONU partendo dal Consiglio di sicurezza, potrebbe essere più agevole iniziare dalla programmazione, dal coordinamento e sopratutto dal reperimento delle risorse a fini umanitari: raggiungendo risultati concreti in questo campo, così delicato, la strada per migliorare i rapporti ed i regolamenti che determinano il funzionamento delle delle Nazion Unite potrebbe diventare, se non in discesa, almeno più pianeggiante.

La Corea del Nord minaccia gli USA

Dopo il lancio del missile a lungo raggio, il dodici dicembre scorso, presentato come semplice vettore per la messa in orbita di un satellite, la Corea del Nord sale di nuovo alla ribalta delle cronache mondiali. La decisione del Consiglio di sicurezza delle nazioni Unite di applicare nuove sanzioni contro Pyongyang, proprio per il lancio del razzo, ha scatenato la reazione nordcoreana, che ha percepito come un sopruso il provvedimento partito dal Palazzo di vetro. Nel mirino sono entrati gli Stati Uniti e la Corea del Sud, accusati espressamente di essere gli istigatori dell'ostilità dell'ONU. La Corea del Nord ha dichiarato che non parteciperà più ad alcuna discussione con i sudcoreani sul tema della denuclearizzazione della penisola e che intende rispondere con pesanti ritorsioni contro Washington e Seul. Inoltre, come ulteriore reazione alla risoluzione del Consiglio di sicurezza Pyongyang ha annunciato che eseguirà un nuovo test nucleare, che costituirebbe la terza prova, dopo quelle del 2006 e del 2009. Il fatto più grave resta la minaccia esplicita contro gli Stati Uniti, che diventano un obiettivo dichiarato dei missili a lungo raggio nordcoreani. La decisione del Consiglio di sicurezza è stata approvata anche dalla Cina, l'unico alleato del regime al governo nella Corea del Nord, e ciò rappresenta l'espressione della volontà di Pechino di non avere alle sue frontiere un paese confinante, che, seppure alleato, possa disporre di un armamento nucleare o soltanto in grado di potere avere nel suo arsenale missili a lungo raggio. Dietro ai timori cinesi vi è, sia la chiara inaffidabilità di Pyongyang, che si ostina a mantenere un atteggiamento ondivago, sia il completo interesse a mantenere lontano dalla regione la marina militare americana, che già in altre simili occasioni si è avvicinata minacciosamente alla Corea del Nord, dietro richiesta di Seul e Tokyo. In questa ottica si inquadrano le dichiarazioni ufficiali di Pechino, che è intervenuta nel dibattito chiedendo calma e moderazione tra le parti coinvolte per evitare una pericolosa degenerazione della situazione. La Cina ha ribadito la sua opposizione all'incremento del nucleare nella penisola e si è, anzi, detta favorevole al processo inverso che ha l'obiettivo di rendere denuclearizzato il territorio delle due Coree. Anche gli Stati Uniti, pur oggetto delle minacce, hanno mantenuto un basso profilo, invitando il regime di Kim Jong-un ad ascoltare gli inviti della comunità internazionale. Tuttavia Pyongyang è rimasta ferma nel suo atteggiamento di rifiuto di ogni confronto internazionale futuro sul tema della denuclearizzazione, scartata anche la ripetizione del già avvenuto incontro a sei con la partecipazione delle due Coree, degli USA, della Cina, di Giappone e di Russia, tenutosi nel 2009, che doveva arrivare ad un accordo sulla fornitura di aiuti economici, tecnologici, umanitari e la promozione di un maggiore coinvolgimento del paese più isolato del mondo nella comunità internazionale in cambio della rinuncia al programma nucleare. Il fallimento di quella trattativa diede corso al test del 2009, che avrebbe portato lo sviluppo tecnologico nordcoreano ad un livello tale da consentire la produzione attuale di circa 40 chilogrammi di uranio altamente arricchito, anche se ciò non dovrebbe essere ancora sufficiente per completare una testata balistica a lungo raggio. Resta da capire con quali scopi, un paese ridotto allo stremo, con problemi di approvigionamento alimentare tali da precludere le normali condizioni di vita per il suo popolo, continui nella sua politica di auto esclusione dal consesso mondiale. Alla Corea del Nord non si può imputare altro, se non la incapacità endemica ad uscire dal proprio stato di crisi. Risulta evidente che in caso di un malaugurato conflitto, l'esercito nord coreano potrebbe opporre ben poca resistenza e che le provocazioni di questi giorni, pur da non sottovalutare, possono essere scongiurate dai sistemi di difesa americani. Più in pericolo può essere la Corea del Sud, ma gli alleati americani assicurano una copertura sufficiente per fornire contromisure efficaci. Forse il governo a capo del paese non riesce a chiedere aiuti in altro modo se non con minacce, che sortiscono soltanto una allerta particolare, nel quadro di una regione già sottoposta a forti tensioni. L'unico attore che può intervenire in maniera sostanziale è la Cina, che finora si è contraddistinta per un attendismo esagerato, ma che con l'appoggio alla decisione del Consiglio di sicurezza, pare avere imboccato una strada più definita.

giovedì 24 gennaio 2013

La strategia inglese per uscire dalla UE

David Cameron, per mascherare i risultati insufficienti del suo governo rinforza il suo atteggiamento euroscettico, che, implicitamente, da le colpe alla UE, o meglio alle sue regole, della mancata realizzazione delle promesse elettorali del premier inglese. La decisione di indire un referendum sulla continuazione della partecipazione del Regno Unito all'Unione Europea, si colloca, quindi, in questo percorso, che ha anche la doppia valenza di cercare di intercettare il sempre più diffuso sentimento contrario all'Europa, presente nel popolo inglese. Il punto nevralgico, al di fuori delle questioni interne del Regno Unito, è però, che tale operazione rischia di portare maggiore divisione all'interno degli altri membri del consesso europeo. Non si può credere che ciò sia soltanto un caso: Cameron, per i suoi interessi di bottega, non esita a mettere a rischio i già precari equilibri di una unione sovranazionale alle prese con una gran quantità di temi da risolvere, senza, peraltro, avere a disposizione gli strumenti necessari. Solleticando gli altri membri che soffrono di scetticismo verso la UE, si può ragionevolmente pensare all'Ungheria o alla Polonia, o soltanto acuendo quelle differenze di visione, presenti nei membri più importanti e fedeli all'idea unitaria, come Francia e Germania, la strategia inglese punta a creare una situazione di caos ed incertezza, che possa permettere al governo inglese di guadagnare tempo per aspettare l'evoluzione della crisi economica ed il conseguente da farsi. L'ambiguità è il tratto caratteristico che da tempo contraddistingue l'azione inglese nei confronti della UE: sganciarsi dagli impegni più gravosi, mantenendo i migliori vantaggi dell'appartenenza ad una unione così vasta, ma mai come in questo periodo questo aspetto è stato esagerato nelle relazioni con Bruxelles. Per adesso Londra ha usato una politica sempre in equilibrio, tale da scontentare molti membri ma non spinta in modo tale da generare situazioni peggiori, tuttavia ora si ha l'impressione che la corda, troppo tirata, stia per spezzarsi. In Francia le speranze di tenere ancora ancorata alla piattaforma continentale l'isola britannica si scontrano, pur nella consapevolezza della necessità di mantenere lo spirito europeo nelle reciproche differenze, con il senso di fastidio per l'attesa delle concrete richieste inglesi, peraltro mai pronunciate. La Germania, viceversa, mostra un atteggiamento più pragmatico, mantenendo inalterata l'intenzione di procedere con il processo di unificazione senza aspettare le intenzioni del Regno Unito. Ma su questo aspetto rischia proprio di cadere la strategia di Cameron: il continuo ondeggiare dell'atteggiamento inglese, che minaccia il referendum, lasciando intendere la volontà di uscire dalla UE, senza presentare le sue richieste a Bruxelles, può creare la fine della pazienza del resto dell'Unione Europea. In realtà questo elenco di richieste non esiste concretamente ma è rappresentato dall'intenzione e probabilmente dalla necessità interna, di rinegoziare il trattato di Lisbona. Dal punto di vista legislativo, questo trattato può essere modificato in qualsiasi momento, a condizione che le modifiche siano approvate da tutte le capitali europee. Si capisce che una tale trattativa è troppo laboriosa, specialmente in un momento come quello attuale, dove la portata della crisi e le necessità politiche europee impongono scelte di veloce esecuzione (che comunque non sono garantite neanche col trattato di Lisbona); impegnare la UE in un tale sforzo significherebbe soltanto togliere energie per processi semplicemente più necessari. Non è possibile che Londra ignori queste esigenze è soltanto che, se venisse imboccata tale strada, le esigenze inglesi avrebbero tutto da guadagnare in un periodo di inevitabile immobilismo delle istituzioni europee. Infatti nessuno vuole riaffrontare quanto già deciso escluso il Regno Unito. La decisione negativa a questa richiesta inglese potrebbe però portare lo stesso ad un blocco dell'attività della UE, nel caso Londra non ne uscisse autonomamente e scegliendo una strada di ostruzionismo interno. Si tratta di una possibilità poco probabile, perchè il lavoro del membro più importate, la Germania e sostenuto dagli altri paesi principali, per cercare una unione maggiore, non potrebbe essere certamente vanificato dalle azion inglesi. A quel punto per Londra non ci sarebbe che l'uscita, per scelta o per esclusione, dall'Unione Europea ed il problema insorgente diventerebbero le relazioni tra Bruxelles e Londra. Alcuni hanno già pensato ad una forma di federazione morbida, che non permettesse un distacco traumatico tra le due parti, tuttavia, tale tipo di rapporto, la cui collocazione legislativa è tutta da pensare, dovrà essere vagliato sulla base del comportamento inglese. La reale intenzione di Cameron è quella di avere mani libere su aspetti che riguardano la finanza, principale fonte di guadagno del Regno Unito, se ciò potesse generare fonti di contrasto con la UE, quest'ultima dovrebbe assumere ritorsioni del caso, come arrivare ad imporre imposte più alte sulle operazioni finanziarie con l'Inghilterra. Si tratta soltanto di un esempio, che può fornire un possibile scenario futuro sui rapporti tra le due parti. D'altra parte, al momento attuale, una permanenza inglese dentro la UE è veramente difficile da pronosticare, i vincoli più stringenti sulla sovranità dei singoli stati saranno l'inevitabile sviluppo dell'avanzamento del processo di unificazione ed, a meno di una svolta totale nella direzione della politica e, sopratutto, dell'impostazione politica della Gran Bretagna, le strade tra Londra e Bruxelles sono destinate a dividersi.

Israele: il nuovo scenario dopo il voto

La maggiore conseguenza della vittoria insufficiente di Benjamin Netanyahu e quindi del risultato elettorale israeliano è lo spostamento dal centro di quella che sarà l'azione politica del prossimo governo israeliano della questione internazionale verso una maggiore concentrazione sui problemi interni del paese, sopratutto di natura economica. L'accresciuto numero di votanti, fenomeno non atteso in queste dimensioni, che ha sostanzialmente determinato lo spostamento della centralità dei temi sui quali viene richiesta maggiore attenzione ha determinato nuovi equilibri all'interno del parlamento del paese. Benjamin Netanyahu, quale leader del partito che ha ottenuto il maggior numero di voti, sarà ancora il primo ministro di Israele, ma la sua forza politica non sarà la stessa ed i suoi obiettivi dovranno cambiare se vorrà assicurare stabilità alla compagine governativa ed al paese. Yair Lapid, il vero vincitore di questa tornata elettorale, a capo di una formazione di centro che si chiama "C'è un futuro" ha assicurato il suo appoggio al premier uscente per la formazione della nuova coalizione di governo, a patto, appunto, che il nuovo esecutivo si occupi della deriva della classe media, colpita dalla crisi economica, e dia un maggiore impegno sui temi sociali. Nel suo discorso, tenuto dopo la proclamazione dei risultati, Netanyahu ha dato poco spazio ai problemi con i palestinesi, lasciando spazio soltanto alla questione della bomba iraniana, che vede però Lapid contrario a qualsiasi azione unilaterale, ma la maggiore rilevanza è stata per i tre cambiamenti sostanziali, che intende fare in politica interna: il cambiamento dei metodi di governo, una maggiore eguaglianza ed una politica degli alloggi a prezzi più accessibili; questi argomenti ricalcano i punti principali del programma proposto da Lapid, che, a dire il vero, comprendeva anche la leva obbligatoria per i giovani religiosi ultra ortodossi, tenuti finora al riparo dalle formazioni di estrema destra presenti nei governi precedenti. Il risultato del voto, al fine delle alchimie della composizione del governo, ha determinato una situazione in cui non si può governare senza Netanyahu, ma neppure senza Lapid, ed è più il primo che ha bisogno del secondo, come ha già evidenziato la necessità di porre al centro le questioni interne. Il calendario politico dice, che dopo la pubblicazione ufficiale dei risultati, il capo dello stato Shimon Peres, avrà sette giorni per designare colui il quale dovrà cercare la maggioranza per la formazione del governo, verosimilmente Netanyahu, che, a sua volta, dovrà formare il governo entro quattordici giorni. Data la grave immagine internazionale di Israele, una delle possibilità è che proprio Lapid vada a sedere sulla scomoda poltrona di ministro degli esteri, anche se non pare sufficiente un volto telegenico per fare riacquistare credibilità ad un paese che ha ora necessità di compiere degli atti verso cui si è mostrato sempre restio. Israele può uscire dall'isolamento in cui si è andato a cacciare soltanto se intraprende un reale e sopratutto leale percorso di pacificazione con i palestinesi, il cui risultato finale deve essere l'accettazione ed il riconoscimento dello stato palestinese. Ma la presenza probabile di Netanyahu ancora al posto di primo ministro rende scettici gli ambienti palestinesi, anche se l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina ha dichiarato di essere pronta a lavorare con qualsiasi governo israeliano che riconosca lo Stato della Palestina. Ed in effetti sarebbe questo il primo passo atteso dalla platea del teatro internazionale da parte del nuovo governo di Israele, in modo da fare ripartire in modo concreto e, possibilmente, definitivo l'annoso e problematico processo di pace.

mercoledì 23 gennaio 2013

L'Egitto non approva l'intervento nel Mali

Nel Mali vanno avanti le operazioni militari, con l'avanzata congiunta delle forze governative e di quelle francesi, che hanno registrato la ripresa del controllo delle città di Diabalay e Douentza. Il prossimo obiettivo è quello di riguadagnare la sovranità su Timbuctu, sulla cui area sono iniziati i raid aerei, propedeutici all'avanzata di terra. Il principale effetto delle azioni dal cielo è stato il ripiegamento dei miliziani fondamentalisti islamici, che stanno arretrando le proprie posizioni nella parte più settentrionale del Mali, praticamente molto vicino al confine con l'Algeria. Se, da un lato questo fatto è il segnale dell'inizio della probabile sconfitta dei Jihadisti nel territorio maliano, la nuova situazione potrebbe aprire un nuovo scenario di guerra capace di coinvolgere ancor più direttamente l'Algeria, dopo il sanguinoso episodio dell'attacco al sito per l'estrazione di gas di In Amenas. All'interno dell'opinione pubblica algerina è in corso un dibattito, molto sentito, sui metodi e sulla gestione da parte del governo di Algeri della vicenda, sopratutto in relazione alla concessione, per la prima volta nella storia del paese, dello spazio aereo per l'operazione militare in Mali da parte delle forze armate francesi; si comprende molto bene che l'argomento sia delicato per il significato intrinseco dell'avallo all'intervento di Algeri e per la natura della Francia, quale ex paese coloniale proprio dell'Algeria. Uno dei sentimenti dominanti è il timore di essere coinvolti in una guerra capace di riaprire vecchie ferite nel rapporto con i gruppi oltranzisti islamici, che potrebbero ripetere, sotto forma di attentati, l'attacco terroristico dei giorni scorsi, facendo entrare il paese in una spirale di violenza e di tensione. Questi dubbi, però non riguardano solo l'opinione pubblica algerina, dubbi che, per ora, non riguardano il governo di Algeri, ben conscio che una possibile espansione del fenomeno terroristico rappresenta un pericolo da evitare, ma che sono stati espressi in forma ufficiale dallo stato egiziano. Il Presidente Mohammed Mursi ha espresso la sua contrarietà all'intervento militare, che potrebbe destabilizzare la regione grazie all'aumento della conflittualità e della possibilità della divisione dell'Africa settentrionale da quella centrale, isolate reciprocamente dal conflitto. Nella visione presentata da Mursi, manca, però, un disegno alternativo per dirimere la situazione e ciò rende le dichiarazioni del Presidente egiziano alquanto sospettose. Il legame sempre più stretto della massima carica de Il Cairo con i salafiti induce a pensare che la sua posizione, in relazione alle vicende del Mali, sia funzionale al tentativo di guadagnare influenza nel campo dell'islamismo fondamentalista internazionale adiacente all'estremismo islamico, dopo che le vicende interne del paese delle piramidi hanno dimostrato come si sia sviluppata una tendenza della parte al governo, sempre più affine a movimenti caratterizzati da ideologie teocratiche molto radicali. Un'altra possibilità è che le dichiarazioni di Mursi siano eterodirette dai gruppi che lo sostengono al potere, in ogni caso, una ipotesi non esclude l'altra. Quello che interessa rilevare è la sempre maggiore distanza dall'occidente di quello che è ritenuto il paese arabo più influente nella politica internazionale, anche l'Egitto dovrebbe essere preoccupato di una crescita dei gruppi terroristici operanti, alla fine, a poca distanza dai suoi confini. Ciò, però, non emerge dalla contrarietà dimostrata con le dichiarazioni di Mursi, che hanno riguardato l'operazione in se stessa e non , ad esempio, l'intervento di un paese occidentale che poteva richiamare gli spettri del colonialismo.

lunedì 21 gennaio 2013

Lo sviluppo in Africa del terrorismo islamico

Il ritorno del terrorismo islamico in Algeria, dove era nato, circa venti anni prima, non costituisce una coincidenza. Malgrado le smentite delle autorità algerine, il fenomeno, pur essendo ancora lontano dall'intensità degli anni novanta, quando il monopolio della violenza era esercitato dai Gruppi Islamici Armati ed il paese era sull'orlo della guerra civile, sta avendo un incremento non irrilevante. Tra il 2001 ed il 2012 sono stati ben 938 gli attacchi terroristici di matrice islamica, concentrati al di fuori delle grandi città, controllate dallo stato, ed in particolare avvenuti nelle montagne della Cabilia ed, in maniera minore nel deserto del Sahara. Ai Gruppi Islamici Armati è subentrato il movimento di Al Qaeda nel Maghreb Islamico, fondato nel 2006 e subito accolto nella galassia delle organizzazioni affiliate a Osama Bin Laden. Si tratta di gruppi di salafiti algerini comandati da Abdelmalek Droukdel, che li dirige probabilmente da qualche valle nascosta nelle montagne della Cabilia. Da lì la sua influenza si è diffusa nella gran parte del territorio del Sahel: in Mauritania, Niger ed in particolar modo nel Mali, dove, nella parte settentrionale del paese, i combattenti islamici sono stati spinti dalle offensive dell'esercito di Algeri. Questo territorio, dove non viene praticamente esercitata alcuna sovranità legale, ha permesso ad Al Qaeda nel Maghreb Islamico di incrementare notevolmente le proprie ricchezze, grazie ad attività illecite come il contrabbando, l'immigrazione clandestina, il traffico di droga ed, in ultimo, la pratica del rapimento di occidentali, rilasciati dietro sostanziosi riscatti, pagati dagli stati di appartenenza dei rapiti. Nella sua ascesa al potere il movimento di Al Qaeda nel Maghreb Islamico è stato favorito da fattori esterni alla sua azione, che ne hanno facilitato l'accresciuta influenza, come la guerra in Libia, che ha permesso di liberare notevoli quantitativi di armamenti, nascosti nei depositi di Gheddafi e la spinta autonomistica dei Tuareg del Mali, che ha permesso di stringere tra i due movimenti un'alleanza tattica, unendo le forze contro il debole governo centrale di Bamako. Quest'ultimo fattore ha determinato la conquista del nord del Mali, un territorio molto vasto ma scarsamente popolato, il cui controllo ha consentito una libertà di azione ancora maggiore nelle attività illegali. Proprio la volontà di aumentare la superficie controllata, con un'azione militare sventata dalle truppe del Mali, ha obbligato Parigi ad intervenire e ciò è stata la causa della rappresaglia consistita nell'assalto all'impianto di produzione di gas in Algeria. Il rischio che questi episodi si ripetano è altamente concreto, l'azione dei gruppi terroristici si muove in territori profondamente segnati dalla povertà, dove ottenere il consenso della poplazione è relativamente facile, anche se l'instaurazione della legge coranica, ha suscitato molta contrarietà, per la ferocia della sua applicazione. Ma l'intendimento di estendere a tutto il Shael l'influenza del terrorismo islamico è un programma di Al Qaeda nel Maghreb Islamico, anche se, proprio a causa della grande estensione territoriale, i gruppi terroristici dovrebbero subire una divisione cellulare, che potrebbe determinare la fine della struttura piramidale di comando; ciò significa andare incontro ad un minore controllo centrale, che in una potenziale fase repressiva potrebbe complicare la lotta al terrorismo, per la maggiore presenza di centri di comando, comunque differenti. Un'altro aspetto è la possibile corsa ad attentati ed azioni dimostrative per ingaggiare una sorta di lotta per avere una qualche supremazia di alcuni gruppi rispetto ad altri. Diventa così necessaria una azione di contenimento, che non può più, purtroppo, essere preventiva e che deve essere coordinata in associazione con i governi legittimi, dagli stati occidentali, per impedire il dilagare dell'estremismo religioso. La caduta del controllo dei gruppi terroristici dovuta al successo delle primavere arabe, con la conseguente caduta dei regimi che detenevano il potere politico nei rispettivi paesi, rappresenta il lato negativo dei processi di democratizzazione dei paesi arabi, non del tutto previsto dai paesi occidentali, che ora devono assolutamente correre ai ripari perchè la zona interessata è situata immediatemente dietro alla sponda meridionale del Mediterraneo.

Israele al voto: favorita la destra

Alla vigilia del voto israeliano, che eleggerà il diciannovesimo parlamento della sua esistenza come stato sovrano, i cinque milioni di cittadini chiamati alle urne potranno scegliere tra 34 partiti. Dopo otto settimane di campagna elettorale le previsioni forniscono un quadro possibile molto simile a quello attuale, caratterizzato dalla predominanza della destra. Se tale previsione risulterà veritiera Benyamin Netanyahu, l'attuale Primo Ministro, sarà riconfermato per la terza volta nella massima carica del paese. La principale novità nel panorama dei partiti israeliani, è costituita dalla potenzialità della nuova lista, che si colloca all'estrema destra, Habait Hayehudi, guidata da Naftali Bennett, ex consigliere di Netanyahu, che presenta un programma basato sulla costruzione del grande Israele basato sui confini della Bibbia, con la conseguente negazione dalla costituzione dello stato palestinese ed il rifiuto del processo di pace con gli arabi. Questa lista, pur essendo parte dell'alleanza che dovrà portare alla riconferma l'attuale primo ministro, ha già eroso consensi elettorali al partito di Netanyahu, presentandosi come un movimento di destra alternativa, contraddistinto dalla rigida intransigenza nei confronti dei rapporti con i palestinesi. Il successo accreditato ad Habait Hayehudi fornisce chiaramente il polso della situazione nel paese della stella di David: la maggioranza della popolazione non è sostanzialmente favorevole ad un processo di pace che sancisca la costituzione dello stato palestinese, la soluzione preferita dagli americani, con i quali si prevede, in caso di vittoria dell'attuale amministrazione insediata a Tel Aviv, rapporti più che pessimi, con sviluppi sulpiano delle relazioni internazionali difficilmente prevedibili. L'impronta data da Obama al suo governo, con le nomine principali non gradite ad Israele, promettono tempi difficili tra i due paesi, con relazioni, che, verosimilmente, subiranno ulteriori raffreddamenti. Tuttavia anche per Israele la questione palestinese sembra passare in secondo piano a causa della difficile congiuntura economica, a parte la parentesi dell'operazione di Gaza, compiuta a Novembre, le questioni economico sociali mantengono il primato nelle discussioni, e perfino la paura di un attacco iraniano è superata in nome della richiesta di miglioramento delle condizioni di vita della popolazione. Questo aspetto della campagna elettorale potrebbe aprire margini di prospettiva per il principale partito di opposizione, il Partito Laburista, guidato da Shelly Yachimovich, che punta in special modo sul voto femminile. Ma la crisi potrebbe essere anche una opportunità per Netanyahu, grazie alla quale difendere la sua politica in favore dell'espansione delle colonie nei territori palestinesi, per creare sviluppo a favore degli israeliani. Questa argomentazione usata più volte in modo latente potrebbe salire nell'importanza strategica della campagna elettorale, come dimostrato più volte dall'azione politica del primo ministro, che, a parte le dichiarazioni di facciata, per la verità sempre meno convincenti, ha sempre agito nella direzione opposta del processo di pace, non condiviso e neppure perseguito.

venerdì 18 gennaio 2013

L'occidente diviso di fronte al terrorismo

Un consuntivo sulle ragioni dell'affermazione del movimento terroristico islamico mondiale non è una priorità ma una necessità. I modi per affrontare il fenomeno inaugurati dalla presidenza Bush figlio, non hanno dato i frutti sperati; Obama si è ritrovato a gestire l'Iraq, l'Afghanistan con il corollario della questione iraniana, impostati in una logica già fuori dal tempo presente; ma nonostante l'uscita di scena delle truppe americane, già effettuata, in corso o programmata, la situazione dell'estremismo islamico pare in crescita, i risultati, cioè, sono andati nel verso contrario delle attese, malgrado i tragici bilanci in vite umane e lo sforzo economico sostenuto. L'errore di fondo è stato fatto in partenza: gli USA, nonostante la propria potenza, che resta la prima al mondo, non potevano sostenere da soli il ruolo autoassegnato di gendarme mondiale. La fine dell'equilibrio del terrore, che giustificava il conflitto est-ovest, con la caduta del comunismo ha spostato l'asse del confronto mondiale apparentemente di novanta gradi, creando il confronto nord-sud. Tuttavia questa disamina è troppo semplicistica, se era vero che prima della caduta dell'impero sovietico la monopolizzazione delle relazioni internazionali si poteva racchiudere in modo veritiero tra oriente ed occidente del mondo, la fase attuale, risultato di più sommovimenti internazionali, non può essere inquadrata soltanto nella banalizzazione del confronto tra settentrione e meridione del mondo, dove per settentrione si individuano i paesi ricchi o ad economia avanzata e per meridione i paesi poveri o con economia arretrata ed in via di sviluppo. La molteplicità delle situazioni che si sono venute a creare non può consentire un solo attore principale senza soggetti, che possano almeno coadiuvarlo o rimpiazzarlo in determinate situazioni. La Russia, che forte dell'esperienza internazionale maturata negli anni sovietici e con un apparato militare esteso, supportato da ingenti ricchezze economiche, poteva rappresentare un attore capace di giocare a tutto campo nella diplomazia mondiale, non ha saputo ritagliarsi un ruolo nuovo nel panorama internazionale dopo l'avvento della democrazia; Mosca si è chiusa in una sorta di isolamento tra quelli che erano i confini dell'URSS, limitandosi a diventare una potenza regionale. La Cina, la nuova vera potenza mondiale, è alle prese con la profonda trasformazione tutta puntata sull'economia, ha come linea guida in politica internazionale il principio della non ingerenza negli affari interni a patto che questi non interferiscano con le proprie mire economiche e comunque la statura diplomatica attuale è ancora ben lontana da consentirgli di recitare un ruolo di leadership mondiale. Della UE tanto è stato detto, la composizione dei paesi che la formano potrebbe consentire di ottenere un risultato potenzialmente consistente, se non dal punto di vista militare, certamente in quello negoziale e diplomatico, tuttavia le profonde divisioni sommate all'incapacità e all'inconsistenza di Bruxelles fanno dell'Unione Europea una grande incompiuta, un soggetto senza una autonomia che necessita sempre più della stampella della NATO. Non resta molto altro se non l'ONU bloccato da un Consiglio di sicurezza dove si arena qualsiasi pratica in arrivo, per l'assurda regola dell'unanimità ed ancora più paralizzato dalla mancanza di una riforma che modelli il massimo organismo sovranazionale sulle esigenze attuali e non su quelle del secondo dopoguerra. In questo quadro le tensioni generate dalle condizioni di miseria e povertà di cui soffrono masse enormi di persone hanno trovato sfogo incanalandosi nella religione; l'affermazione dell'Islam non è stata compresa ancora del tutto neppure ora, tra le potenze occidentali; basti vedere quanta speranza, mal riposta, è stata messa nelle primavere arabe che, anzichè democrazie, hanno generato specie di teocrazie riadattate sulle esigenze del paese dove si affermavano. Quello che era il sud del mondo e che il sistema coloniale e di sfruttamento continuato dopo la fine delle colonie aveva relegato ad una considerazione di minore attenzione e quindi isolato dalla crescita, ha covato a lungo un'avversione ed un astio verso l'occidente, che soltanto le dittature hanno potuto tenere a freno con politiche fatte di azioni di allontanamento ed avvicinamento verso i governi occidentali. La strategia di Obama, di seguire un indirizzo di basso profilo, pur giusta è ormai arrivata in ritardo e sopratutto non ha i giusti contrappesi, così in questo quadro vengono lasciate questioni a metà, come la Libia, che genera altri scenari conseguenti, mentre non si fa nulla per risolvere uno degli alibi fondanti, ma usato soltanto in maniera funzionale, dell'estremismo islamico consistente nella mancata creazione dello stato palestinese. I fatti del Mali discendono direttamente da questa situazione e purtroppo l'impressione è quella di essere soltanto all'inizio. La Francia ha cercato, forse maldestramente, di supplire all'assenza di una autorità più forte di quella di Parigi ed ha operato in un contesto di assoluta solitudine, mostrando così la reale debolezza occidentale di fronte al terrorismo: quella di un mondo occidentale che si presenta diviso ed in accordo soltanto a parole, un mondo che, per adesso, è sicuro tra i suoi confini, ma che è incapace di produrre una visione che vada oltre le proprie mura per accordarsi con movimenti sociali con i quali finirà inevitabilmente per scontrarsi.

India: il caso dei marinai italiani ad una svolta

La vicenda dei due italiani appartenenti alla marina militare, accusati in India di avere ucciso due pescatori dello stato del Kerala, durante l'esercizio delle loro funzioni di scorta armata anti pirateria su di una nave commerciale italiana, è ad un punto di svolta. Lo stato indiano, in palese violazione della legislazione internazionale, dato che il fatto era accaduto in acque internazionali, aveva costretto la nave ad entrare nelle acque territoriali indiane ed aveva arrestato i due militari. Sullo sfondo della vicenda, a prescindere da qualunque giudizio di merito sull'accaduto, erano presenti tensioni politiche interne allo stato indiano, che avevano probabilmente mosso il sistema giudiziario a prendere una decisione funzionale ad un uso politico. La questione non era irrilevante, un fatto colposo commesso in acque internazionali compete alla giurisdizione del paese per il quale la nave, teatro del fatto stesso, batte bandiera. Insomma all'Italia veniva sottratta in modo arbitrario una questione giuridica a lei esclusivamente competente. La pericolosità della creazione di un tale precedente, che nell'ambito del diritto internazionale non costituisce cosa da prendere alla leggera, è stata sottovalutata dagli organismi internazionali, che hanno lasciato la contesa ad Italia ed India. Nelle ultime ore la Corte suprema indiana ha, però, rovesciato, seppure in parte, l'indirizzo giuridico dato dal tribunale del Kerala. Intanto è stata dichiarata l'incompetenza della corte dello stato indiano ed il caso è stato trasferito ad un tribunale speciale di prossima costituzione, con sede nella capitale indiana. Questa soluzione si gioca su di un confine giuridico molto sottile: da un lato viene riconosciuto che il fatto è avvenuto in acque internazionali in maniera ufficiale, ma dall'altro lato viene negato il godimento dell'immunità sovrana per l'esercizio della funzione di sicurezza svolta dai marinai italiani sulla nave commerciale, fattore decisivo per l'applicazione della extraterritorialità e quindi l'applicazione della giurisdizione di Roma. Si capisce che l'India tenta di mettere riparo alla violazione palese del diritto internazionale perpetrata dai giudici del Kerala, senza però arrivare a sconfessare in modo toale la decisione, per non incorrere nell'alterazione di equilibri politici locali molto precari. La sensazione è che a Nuova Delhi, sede del tribunale speciale, la prassi del diritto internazionale possa essere ripristinata, ma in attesa del giudizio definitivo sarebbe necessario che a livello sovranazionale le questioni che possono alterare la consuetudine della legislazione internazionale potessero trovare una codificazione normativa più certa. Tale necessità va ben oltre la normale esigenza della certezza del diritto, ma in un contesto sempre più globalizzato diventa una esigenza politica fondamentale, sopratutto in relazione all'insorgenza, sempre più frequente di fenomeni, come la pirateria internazionale, che minacciano, anche indirettamente, la convivenza tra gli stati.

giovedì 17 gennaio 2013

La vicenda del Mali esempio di debolezza della UE

Quello che sta accadendo nel Mali rischia di avere implicazioni maggiori in Europa, all'interno dell'Unione Europea, piuttosto che in Africa, sebbene il conflitto armato sia in corso proprio nel continente nero. La decisione francese di intervenire è stata obbligata essenzialmente da due fattori uno recente, l'aggravamento della crisi locale, che ha portato al rischio concreto di una diffusione a macchia d'olio del terrorismo islamico, l'altro più antico, dovuto alla negligenza dei governi francesi precedenti a quello attuale nella politica verso le ex colonie. Tuttavia esistono anche due difetti di fondo che rischiano di mettere in luce tutta la debolezza politica dell'intervento: la mancanza di una spinta sufficiente al progetto di difesa comune, già evidenziata con Sarkozy che lasciò il comando integrato della NATO senza un progetto alternativo e la decisione, per certi versi precipitosa, di entrare in un conflitto annunciato, che lasciava ampi margini di tempo per la preparazione sopratutto politica, senza concordare una preventiva coalizione che sostenesse a tutti gli effetti l'operazione. In Francia, il dibattito interno si sta indirizzando ancora una volta contro la Germania, accusata di essere contraria al progetto di difesa comune e quindi contro l'unione politica, contrariamente a quanto annunciato più volte dalla Merkel. In effetti, dichiarazioni a parte, al paese tedesco sembra interessare più la parte economica dell'unione europea, ma tale atteggiamento può porre la Germania sotto una luce differente riguardo al processo dell'unificazione dell'Europa. Berlino, fintanto che si è trattato di assumere un atteggiamento dirigista nei confronti del fornire l'indirizzo alla politica economica ha sempre fatto la voce grossa, quella del socio di maggioranza: ne è scaturita una risposta alla crisi finanziaria improntata la rigore più rigido, che ha compresso le economie degli altri paesi, tranne appunto quello tedesco. A posteriori è più facile individuare, invece, una politica economica ad uso e consumo dell'industria tedesca, facilitata nella concorrenza continentale. L'autoisolamento della Gran Bretagna, la sconfitta di Sarkozy e la fine praticamente naturale della legislazione di Monti in Italia avevano già messo in crisi la leadership tedesca sottoposta a critiche fino ad ora provenienti soltanto dalla periferia, ma la vicenda del Mali ha fatto deflagrare il problema della mancanza di condotta univoca e sovranazionale dell'Unione Europea. E' evidente adesso che la Germania è un gigante economico ma si sta rivelando un nano politico, non essendo stata capace di assumere la leadership in un caso di emergenza come quello che sta combattendo la Francia. E' altrettanto vero che molti paesi alleati naturali di Parigi sono alle prese con una crisi economica stringente, che non permette la possibilità di un aiuto concreto, tuttavia si stanno già intravvedendo delle possibilità che possano aiutare la Francia in maniera più concreta del semplice supporto logistico. E' il caso dell'Italia, che dovrebbe offrire le proprie basi ed anche aerei militari e della Spagna, minacciata da vicino dalla possibile escalation del radicalismo islamico. Ma si potrà trattare pur sempre di aiuti limitati, che scateneranno l'euroscetticismo sempre più strisciante all'interno della società francese. Va detto che anche la NATO per il momento è rimasta fredda nei confronti dell'operazione nel Mali, pur essendo direttamente interessata a stroncare l'avanzata dei radicali islamici, su questo fronte probabilmente Parigi potrebbe ottenere maggiori aiuti di tipo militare, ma attualmente il problema pare più diplomatico, Bruxelles, intesa come sede dell'Alleanza Atlantica, ha vissuto con irritazione il precoce ritiro delle truppe francesi dall'Afghanistan e sembra intenzionata a fare pagare lo sgarbo ai francesi. Hollande si trova così imbarcato in una guerra che difficilmente potrà vincere soltanto con l'arma aereonautica, l'impegno sul terreno è qualcosa di più che la peggiore eventualità, ma rappresenta l'unica concreta possibilità di vittoria. Per un governo appena eletto, che metteva al centro del suo programma la ripresa economica, una guerra, che si annuncia lunga e senza il supporto degli alleati, costituisce un enorme problema, sia di consenso che di reperimento delle risorse necessarie. Anche la soluzione di accelerare ciò che era stato previsto dalla risoluzione del Consiglio di sicurezza dell'ONU, appare ormai un ripiego con poche possibilità di riuscita. La perdita di tempo del mondo occidentale di fronte al problema del Shael, la cronica incapacità di coordinamento dell'Unione Europea e le beghe con la NATO, non possono giustificare l'isolamento francese: a prescindere dal risultato del combattimento la perdita di credibilità della UE rappresenta un danno ben più grave, sia per la lotta al terrorismo, che per le speranze di un avanzamento del processo di unificazione.

martedì 15 gennaio 2013

La Francia isolata nella questione del Mali

Nell'operazione di polizia internazionale, che la Francia ha intrapreso contro i ribelli, che hanno occupato il nord del Mali, Parigi è rimasta sostanzialmente isolata. Aldilà di un appoggio politico proveniente da NATO ed UE, l'aiuto materiale si è limitato alla sola disponibilità logistica, nel trasporto di materiali da parte di Germania, Gran Bretagna, Belgio, Danimarca e Canada. La questione, invece, riguarda tutti i paesi occidentali e sopratutto quelli che si affacciano sul Mediterraneo, dato che si corre il grave rischio, che, immediatamente dietro la sponda meridionale del bacino, si vada creando una entità statale da iscrivere subito alla lista degli stati canaglia. L'insieme di forze eterogeneo che ha occupato il nord del paese africano del Mali è tenuto insieme in maniera molto forte dal comune sentimento religioso, che propende in modo netto verso il fondamentalismo islamico, tanto estremista da potere favorire l'insediamento dei terroristi radicali nel paese. Concretamente potrebbe crearsi una sorta di zona franca per l'estremismo religioso, capace di creare basi militari e logistiche insieme a centri di reclutamento ed addestramento, il tutto relativamente molto vicino all'Europa. Inoltre il ritrovamento di munizioni di fabbricazione iraniana, usate dai ribelli, costituisce un indizio sugli possibili sviluppi delle relazioni internazionali di questa entità, anche se ciò non costituisce una prova; tuttavia per Teheran, sempre alla ricerca di nuovi partner in appoggio alla sua strategia anti occidentale, la necessità di allacciare rapporti con queste forze potrebbe rimpiazzare la sempre più probabile perdita del suo principale alleato, la Siria, dove il regime pare avere ormai il tempo contato. Militarmente già ora gli occupanti del Mali settentrionale hanno dato prova di essere tutt'altro che sprovveduti, potendo contare su parte degli arsenali di Gheddafi, sulla profonda conoscenza del territorio, grazie ai ribelli Tuareg e sull'esperienza militare di Al Qaeda. All'inizio di questa vicenda questi elementi sono stati sottovalutati e nell'indifferenza generale l'autorità legittima del Mali ha perso il suo territorio. Una delle ragioni che ha indotto il governo francese ad agire èstato il tentativo dei ribelli di penetrare nella parte ancora in mano al governo legittimo, tentativo peraltro scongiurato dalla reazione delle truppe regolari; ma la condizione strutturale dell'esercito del Mali non assicura la certezza, che, nel caso di un nuovo attacco, possa reggere di nuovo alla forza d'urto dei ribelli. Tale eventualità potrebbe aprire la strada alla conquista dell'intero paese con ricadute ulteriori sui paesi vicini. Quella che potrebbe venirsi a creare sarebbe una situazione simile all'Afghanistan all'interno del continente africano. Questa possibilità dovrebbe allarmare prima di tutto le Nazioni Unite, l'Africa si trova al centro di uno sviluppo economico in crescendo ed anche la situazione sociale, pur entro i limiti di una difficoltà endemica, sta ottenendo dei risultati significativi. Al contrario un paese in cui vigono le leggi coraniche, applicate in modo ferreo ed ottuso, come accade nella parte settentrionale del Mali, dove le vittime per l'applicazione integrale della sharia stanno crescendo, rappresenta un pericolo ed un ostacolo per il progresso africano. Peraltro il Consiglio di sicurezza ha già approvato una risoluzione che riconosce la necessità dell'intervento militare contro le forze che occupano il Mali del nord, risoluzione che è però insufficiente perchè, innanzitutto non prevede una efficacia temporale, non fissando, cioè, il tempo esatto di intervento e poi perchè affida il compito militare esclusivamente a forze africane da formare ed armare. Dall'altro versante, se si può comprendere la titubanza degli USA, appena in procinto di uscire dalla palude afghana, meno chiara è la posizione dell'Unione Europea, che perde una occasione di dimostrare di essere un soggetto internazionale in modo completo. L'assenza di una politica unitaria, data da divergenze irrisolte su vasta scala, ma in questo caso specificatamente sulla politica estera e di organismi direttivi non coperti dal potere decisionale a causa di norme mai scritte, mette in evidenza come Bruxelles sia sempre più inadatta ad un ruolo internazionale di primo piano. Sulla Francia, per ora, resta così il compito esclusivo di fermare l'avanzata del fondamentalismo islamico vicino ai confini del vecchio continente. Resta la speranza di un impegno della NATO, che potrebbe essere ratificato i prossimi giorni, ma la lentezza con la quale è stato affrontato l'argomento rappresenta un brutto segnale per la tanto decantata lotta al terrorismo.

venerdì 11 gennaio 2013

Il Giappone aumenta il suo budget militare

Nonostante un debito pubblico che sfiora la quota del 240% del PIL il Giappone del nuovo premier Shinzo Abe, interrompe il congelamento della spesa militare, praticamente fermo da un decennio, investendo circa 45.000 milioni di euro nel bilancio per la difesa. Del resto, nelle intenzioni e nei programmi del nuovo capo del governo di Tokyo vi è anche la revisione costituzionale della norma, in vigore dalla fine della seconda guerra mondiale, elaborata con chiari intenti pacifisti imposti dagli Stati Uniti, della trasformazione delle forze di autodifesa in esercito regolare. Il bilancio militare giapponese, pur con i vincoli imposti dalla norma che si vuole modificare, era già il sesto più grande del mondo. Quella che viene impressa dal neo premier, espressione della parte politicamente conservatrice del paese, è una svolta militarista in gran parte annunciata, che, però sta subendo una accelerata sostanziale, in parte dettata per mascherare le grandi difficoltà economiche di natura interna ed in parte per sostenere, con i fatti, la natura nazionalistica del programma di governo, minacciata dalla questione con la Cina per le isole contese nel Mare Cinese Orientale, per il timore dell'escalation nucleare nord coreana e per l'ulteriore contesa territoriale con la Corea del Sud, ancora una volta per un piccolo arcipelago. Il confronto con Pechino è quello che più assilla il governo giapponese, limitato finora a diatribe diplomatiche, che hanno assunto però toni molto intensi, entrambi gli stati hanno, infatti, ribadito la propria sovranità sulle isole Senkaku o Diaoyu. Dalla parte cinese, va detto, che vi è una situazione ed un atteggiamento speculare: a Pechino si è insediato un nuovo esecutivo, che ha individuato nel dominio marino una chiave economica per il suo sviluppo, sia dal punto di vista dell'individuazione e dello sfruttamento dei giacimenti di materie prime, che del controllo delle vie di comunicazione. Per sostenere tale priorità anche la Cina ha imperniato la sua strategia sullo sviluppo delle sue forze armate con un consistente aumento del budget previsto, sopratutto per la marina militare. Questa linea non è sfuggita al Giappone che ha previsto l'ammodernamento del suo arsenale missilistico, degli aerei da combattimento e degli elicotteri da pattugliamento, tutti armamenti volti a contrastare dall'aria lo strapotere che la cina intende mettere in campo. Quella che si prepara è una guerra dei nervi, un equilibrio instabile dietro cui stanno due governi che non pare vogliano impostare le loro relazioni sulla pura dialettica, ma su di un dialogo imperniato sulle rispettive minacce. Per ora la diatriba è vissuta di scaramucce più che altro spettacolari, atti dimostrativi tesi a provocazioni, spesso fine a se stesse, ma l'ultima incursione di navi cinesi nelle acque delle isole contese ha innalzato una pressione già alta dietro le scrivanie dei rispettivi governi. La convocazione dell'ambasciatore cinese a Tokyo segna un nuovo gradino dello sviluppo di una questione dove i due esecutivi non pare vogliano cedere per non intaccare il loro prestigio interno.

mercoledì 9 gennaio 2013

Sulla tensione tra India e Pachistan incombe l'estremismo religioso

Il processo di pace tra India e Pakistan è in concreto pericolo per i fatti accaduti al confine tra i due paesi, nella zona del Kashmir, territorio conteso tra i due stati fin dal 1947. Sulla regione vige da più di dieci anni un equilibrio precario, che, seppure contrassegnato da un cessate il fuoco abbastanza duraturo, ha visto intensificarsi nelle ultime settimane l'aumento degli incidenti sulla zona di confine. Entrambi i paesi, storicamente rivali, sono impegnati in un processo di pace lungo e laborioso, che, tuttavia, non è mai stato abbandonato per la reciproca convenienza della instaurazione di uno stato di equilibrio permanente. L'episodio che rischia di incrinare le relazioni tra le due nazioni contiene, però, dei lati insoliti: in seguito ad una incursione in territorio indiano da parte dei pachistani, due militari di Delhi sarebbero stati uccisi e mutilati, in particolare uno avrebbe subito la decapitazione. Aldilà delle reciproche accuse di avere attraversato il confine sconfinando nello stato vicino, la dinamica degli eventi porta a presumere la presenza, nell'occasione, di jihadisti, individuabili appunto nelle mutilazioni inferte ai soldati indiani. Il problema dell'infiltrazione di estremisti islamici nelle forze armate, nei servizi segreti ed in generale nella burocrazia pachistana è all'origine dei pessimi rapporti con gli USA, che hanno operato, sia nella lotta al terrorismo, che nelle zone di confine con l'Afghanistan, spesso scavalcando gli apparati statali in aperta violazione del diritto internazionale. Il tasso di penetrazione dei radicali islamici nei posti chiave di Islamabad è diventato tale, che il governo pachistano è ritenuto inaffidabile da Washington e, peraltro, è un fatto ormai assodato che non riesca a controllare tutto il suo territorio, dove sono presenti ampie sacche dove il potere legittimo è del tutto inefficace. Queste porzioni territoriali sono spesso in mano a gruppi estremisti che costituiscono vere e proprie enclave all'interno dei confini dello stato. Ma il Kashmir non rientra in queste zone di dubbia giurisdizione, e le mutilazioni inferte ai soldati indiani hanno generato forte imbarazzo nell'esercito pachistano. La vicenda potrebbe essere letta come un tentativo o di fare fallire le trattative per la pace o di allargare l'influenza islamica radicale in una zona comunque sottoposta a grande tensione. I jihadisti, la cui presenza in zona pare sicura, potrebbero fare leva sul nazionalismo pachistano della regione per creare una nuova zona di conflitto in cui inserirsi per guadagnare consensi, in quest'ottica va ricordato, che il Pachistan mal sopporta i successi economici indiani a cui fa da contraltare uno stato di perenne sottosviluppo ed anche i ripetuti contatti allacciati, nel campo del commercio e dell'economia, con la Cina, avversaria dell'India nella corsa alla crescita economica, testimoniano di un sentire comune naturalmente avverso ai vicini, che può sembrare facilmente sfruttabile anche per altri scopi. L'incidente, poi, arriva in un momento delicato per entrambi i paesi, che devono affrontare l'appuntamento con le elezioni: il Pachistan nella prossima primavera e l'India nel 2014 e l'incertezza dell'esito del voto può essere un fattore ulteriore capace di contribuire a raffreddare un processo di pace che necessita, invece, di essere rilanciato. Q

In Egitto il vertice per la riconciliazione palestinese

Nella capitale egiziana è previsto un incontro che potrebbe dare una svolta alle divisioni palestinesi, per affrontare uniti il processo di costruzione dello stato della Palestina. Sotto il patrocinio del presidente egiziano Morsi, infatti, il presidente palestinese Abbas si riunirà con il leader di Hamas, in esilio, Khaled Meshaal. Alla luce della nuova nomina del segretario delle Difesa USA, notoriamente a favore del dialogo tra Israele ed Hamas, questo incontro assume una valenza differente rispetto ai tentativi precedenti di riconciliazione delle due parti in cui è diviso il mondo palestinese. Anche il ruolo di Morsi, dopo le recenti polemiche sul fronte interno, che hanno accompagnato l'approvazione della tanto discussa nuova costituzione egiziana, mira a recuperare consensi, grazie al suo ruolo di mediatore, sia nel mondo arabo, che nei confronti degli Stati Uniti, molto guardinghi sullo sviluppo intrapreso dal paese egiziano dopo la primavera araba e le elezioni che hanno portato al potere il partito confessionale dei Fratelli Musulmani. La questione della riconciliazione palestinese è un tema fondamentale nel processo della costituzione del nuovo stato, senza questo passo sono impensabili passi avanti. Pur nelle reciproche diffidenze il processo di distensione tra le due anime del mondo palestinese sembra procedere, sopratutto dopo l'autorizzazione data a Fatah per festeggiare il suo 48° anniversario nella striscia di Gaza, governata da Hamas, che dopo la sua salita al potere nella striscia, aveva sempre osteggiato le manifestazioni pubbliche della controparte araba. Entrambi gli schieramenti sono consci della necessità di trovare un accordo per elaborare una linea comune nei confronti di Israele, sopratutto a livello politico internazionale, la via, che con il riconoscimento ONU della Palestina come membro osservatore nell'assemblea, pare dare i maggiori risultati. La necessità americana di chiudere la questione con la soluzione dei due stati non può essere dietro all'incontro, con gli Stati Uniti rivolti verso l'estemo oriente dare una maggiore stabilità all'area risulta essenziale, tuttavia i due schieramenti dovranno superare l'ostacolo maggiore, rappresentato dalle resistenze israeliane, sopratutto se le previsioni elettorali che danno la coalizione già al governo, vincente nella prossima consultazione. I tentativi di Tel Aviv di mantenere divisi due principali gruppi palestinesi, sono stati ripetuti nel tempo, nel nome della logica di imporre così un maggiore controllo sugli attivisti palestinesi. In ripetuti episodi si sono notate coincidenze che concorrevano a mantenere divise le due fazioni, sicuramente alimentate dagli israeliani, va detto che spesso, se non quasi sempre, il torto del mondo palestinese è stato quello di cadere in queste trappole e di arrivare diviso ad appuntamenti importanti. Ma in questo senso si è mossa, con giudizio, l'azione di Abbas che ha saputo ottenere il maggiore riconoscimento internazionale nella storia del movimento palestinese, con mezzi non violenti. La simpatia e la presa d'atto della maggior parte delle nazioni circa la causa palestinese ha già relegato Israele nell'angolo di un isolamento pericoloso, in relazioni ai possibili e potenziali sviluppi che la politica internazionale potrà prendere. Anche il voto contrario alle Nazioni Unite, sul tema del riconoscimento dello status di osservatore, degli Stati Uniti, è parso dettato più da ragioni elettorali, che come reale espressione dell'amministrazione in carica, che è poi stata riconfermata dalla consultazione elettorale. Sono maturate quindi, le condizioni per un progresso nella costruzione dello stato, che potrebbe essere coincidente con un avanzamento del processo di pace tra israeliani e palestinesi, fortemente voluto da Washington e dalla maggior parte delle nazioni mondiali. Se le due parti sapranno resistere alle pressioni endogene provenienti dalle ali estreme e non cadranno nelle provocazioni, di cui saranno senz'altro fatte oggetto, la pacificazione costituirà un concreto progresso verso la creazione dello stato di Palestina.

martedì 8 gennaio 2013

Mali: i radicali islamici tentano l'offensiva

La situazione del Mali sta subendo un peggioramento a causa dell'avanzata degli estremisti islamici che hanno preso il nord del paese. Il tentativo di sfondamento della immaginaria linea di demarcazione dove si sono attestate le forze antagoniste è stata ripristinata per la risposta delle truppe governative di stanza a Mopti, ma ciò non è bastato all'esercito regolare per guadagnare posizioni, giacchè i radicali islamici sono riusciti a mantenere le proprie posizioni. L'azione degli estremisti era iniziata fin dai giorni scorsi per attaccare Mopti, che costituisce l'ultimo baluardo delle forze dell'esercito regolare, le colonne sono formate dai combattenti salafiti di Al Qaeda nel Maghreb Islamico (AQIM), il Movimento per l'Unità di Jihad in Africa occidentale (Muyao) e Ansar Dine (Difensori della Fede), che si contraddistinguono per la rigorosa applicazione della legge coranica. Malgrado il ripristino delle posizioni precedenti allo scontro la situazione resta carica di tensione e non sono da escludersi altri combattimenti nei prossimi giorni. La ripresa degli scontri è da ascrivere, principalmente, allo stallo delle trattative in corso ad Ouagadougou, capitale del Burkina Faso, tra il governo del Mali, Ansar Dine ed i ribelli Tuareg del Movimento di Liberazione Nazionale Azawad (MNLA), a causa del mancato accordo sull'applicazione della legge coranica, la sharia, in tutta la nazione maliana, considerato prerequisito fondamentale, dai radicali islamici, per continuare il negoziato, ma condizione sempre rifiutata dal governo di Bamako. Nel Nord del Mali, territorio sotto il controllo degli estremisti islamici, la situazione sociale è profondamente deteriorata proprio per l'applicazione della sharia, applicata in modo violento ed integralista; sono già diverse le vittime uccise per futili motivi, così come le mutilazioni praticate soltanto a causa di semplici sospetti ed in generale l'aumento delle punizioni corporali a riguardato una serie di infrazioni diventate tali solo grazie ad una lettura distorta del Corano. Anche i monumenti ed i documenti del paese hanno subito gravi danni per questi motivi. Tutto ciò malgrado una risoluzione del 20 dicembre del Consiglio di Sicurezza, che, finalmente autorizzava l'intervento armato internazionale per debellare i gruppi integralisti; ma la risoluzione risulta viziata nella forma dall'assenza di una scadenza temporale, che vanifica una delle poche decisioni che potrebbero avere effetti concreti da parte del Consiglio di Sicurezza. Romano Prodi, l'ex premier italiano, che ricopre la carica di inviato speciale per le Nazioni Unite per il Sahel, prevede che le operazioni militari non potranno iniziare prima di settembre per le croniche carenze sia economiche che militari dell'esercito del Mali.

Obama incontra Karzai

Nell'agenda di Obama l'Afghanistan torna da protagonista con la visita del premier Karzai, che si recherà a Washington il prossimo venerdì. I piani del ritiro delle truppe USA, previsto per la fine del 2014 non sono cambiati, ma alla luce della grande instabilità del paese occorre pianificare la gestione della transizione in ogni suo punto. In particolare le due delegazioni affronteranno il futuro di una collaborazione che sia sostenibile politicamente, ma sopratutto economicamente per gli USA e che possa garantire a Kabul il presidio di almeno gran parte del territorio. Oggettivamente, però, questa possibilità pare di difficile attuazione: già con la presenza dell'esercito NATO esistono numerose zone, specialmente le valli impervie al confine con il Pakistan, dove l'autorità del governo afghano non è affatto vigente. Il pericolo concreto per Kabul è che queste porzioni di territorio, senza il presidio dei militari americani, si estendano fino a mettere in concreto pericolo il governo afghano in carica. Insieme a questo rischio vi è la potenziale ripresa dell'estremismo islamico, con il suo contenuto di odio verso l'occidente. Quello che più spaventa Washington è la possibilità della creazione di nuove basi da cui fare ripartire l'azione terroristica. Attorno a queste visioni, reciproche e praticamente simmetriche, verteranno i colloqui per assicurare la sicurezza del passaggio di potere anche attraverso il rafforzamento delle forze armate dello stato afghano ed i negoziati con i talebani, mai decollati ma neppure conclusi definitivamente. Karzai ed il governo afghano si è più volte detto contrario al ritiro delle forze USA, ben conscio di un possibile deterioramento delle condizioni di sicurezza dello stato, ma Obama ha rivolto verso ancora più verso oriente il centro della sua azione militare; ciò ha decretato la necessità di uno spostamento di risorse, anche in ragione del continuo stallo nel paese afghano, dove la situazione è stata giudicata, sebbene sempre problematica, di difficile risoluzione definitiva. Tuttavia, proprio in ragione dei pericoli di una nuova offensiva dei talebani o di Al Qaeda, le due parti potrebbero concordare il numero dei soldati USA ancora presenti sul territorio afghano. Questo provvedimento potrebbe essere inquadrato, appunto, in una misura di sostegno dell'esercito afghano, giudicato ancora non del tutto adatto a presidiare il proprio territorio, ma occorre concordare tra i due stati in maniera esplicita e definita sia il ruolo che lo status giuridico di questi militari americani presenti sul suolo di Kabul. Verosimilmente il numero dei soldati americani potrà essere compreso dai 3.000 ai 9.000 uomini, tale entità, se paragonata agli effettivi attualmente presenti, circa 100.000, fornisce la misura di quello che potrà essere l'impegno statunitense: un compito di affiancamento ed istruzione, forse anche di presidio attraverso l'impiego di mezzi elettronici, ma certo non un impegno equivalente a quello attuale. Dopo il 2014 per l'Afghanistan si prospetta una situazione di minore sicurezza, soltanto in parte mitigata dai possibili sviluppi che le relazioni con gli USA riusciranno ad evolvere.

lunedì 7 gennaio 2013

USA: un ex repubblicano sarà il nuovo Segretario della Difesa

Nella nomina a Segretario della Difesa degli Stati Uniti, da parte di Obama, nella persona dell'ex senatore del Nebraska Chuck Hagel, si riassumono, in maniera interessante, i punti controversi della fase attuale della politica americana, sia interna che estera. Per quanto riguarda il versante interno la nomina di un uomo, che pur conservando sempre la propria indipendenza, è appartenuto al Partito repubblicano, non può che significare il tentativo di trovare terreni di intesa per l'apertura di una via nuovo per il dialogo con il partito avversario di quello del Presidente in carica. La necessità di trovare soluzioni condivise che possano permettere alla nazione statunitense di uscire da una pericolosa impasse burocratica, sul versante dell'economia, non potrà che essere apprezzata dall'opposizione americana con la nomina di un uomo a lei molto vicino, in una posizione di forte prestigio internazionale e di fondamentale importanza per lo scenario politico del paese. Tuttavia, sul fronte della politica internazionale, le posizioni del nuovo Segretario della Difesa non sono propriamente ortodosse per il Partito Repubblicano. Hagel, secondo fonti repubblicane molto vicine alla comunità ebraica USA, potrebbe essere il Segretario alla Difesa più antagonista per Israele, inoltre vi sono altri aspetti da cui si può desumere l'indirizzo che assumerà la Difesa USA: in passato, infatti, l'ex senatore aveva richiesto tagli al bilancio militare americano e fu critico con l'invasione dell'Iraq. Il nuovo Segretario sembra, quindi, essere in linea con gli intendimenti del Presidente Obama, che forte del suo successo elettorale, vuole reimpostare il rapporto con Tel Aviv, per riportarlo entro confini ben delimitati, che mettano al centro il rispetto del territorio palestinese della Cisgiordania, con il fine ultimo della creazione dei due stati sovrani; del resto la posizione dell'ex senatore del Nebraska è che Israele deve trattare con Hamas, in quanto soggetto legittimato dal voto elettorale palestinese, una posizione singolare all'interno degli stessi democratici. Hagel, inoltre, non è un militarista ma propende per soluzioni più ragionate, l'identikit ideale per gestire la crisi iraniana, che pur vivendo un periodo lontano dai riflettori, è ben lontana da una risoluzione; significativo, in questo senso, che il suo voto sul tema delle sanzioni contro Teheran è stato contrario. Anche per questo motivo il nuovo Segretario alla Difesa, dovrebbe essere accolto dagli iraniani in maniera meno dura, in vista di possibili contatti diplomatici per la questione nucleare. L'unica perplessità potrebbe essere la grande indipendenza sia di giudizio che di azione dimostrata da Hagel nella sua vita politica: in caso di dissidio con il Presidente, anche per Obama potrebbe essere difficoltoso gestirlo.

venerdì 4 gennaio 2013

Hollande prova un nuovo modello economico per la Francia e per l'Europa

Schiacciato dal peso dei dati economici e dall'abbassamento repentino degli indici di popolarità e con la concreta esigenza di ridare fiato al paese, il Presidente francese François Hollande, prova a rilanciare la sua azione di governo con l'elaborazione di un nuovo modello francese, che serva anche a fare da battistrada per una Unione Europea più unita e coesa di fronte ai problemi dell'economia. Il modello sarà imperniato su sviluppo, ecologia e popolazione e dovrà creare i presupposti per risolvere la disoccupazione, specialmente quella giovanile, che affligge il paese. A sostegno di queste politiche dovrà essere trovata una sintesi efficace nella strategia degli investimenti pubblici e privati capace di creare posti di lavoro a tempo indeterminato per interrompere la precarietà, fenomeno endemico di questa fase storica caratterizzata dall'incertezza derivante dalla crisi. Il modello che verrà a crearsi dovrà essere alla base della risoluzione dei problemi dell'economia ben oltre i confini francesi, ma dovrà rappresentare un possibile esempio anche per l'intera Europa, dove la tanto perseguita politica di crescita dovrà avvenire senza lo stravolgimento delle regole sociali, cosa, peraltro, in parte già abbondantemente avvenuta. Per Hollande il binomio Francia-Europa è fondamentale, il Presidente francese è un convinto europeista, ma si pone come alternativa alla Germania della signora Merkel per una futura leadership, più favorevole a politiche espansive e che sappia guardare, sempre entro certi limiti, meno favorevolmente all'eccessivo rigore fin qui imposto da Berlino. Del resto sono questi temi, che in campagna elettorale lo hanno contrapposto a Sarkozy, che gli hanno permesso di arrivare alla carica più alta dell'Eliseo. Il richiamo ai valori tradizionali della repubblica francese, quali: libertà, uguaglianza, fraternità, solidarietà e giustizia, cui fare riferimento nell'estensione del nuovo modello in costruzione, non pare un esercizio retorico ma un ribadire i punti fermi dai quali ripartire. Tuttavia per una affermazione continentale, senza dare per scontata la riuscita del programma all'interno dei confini nazionali, Hollande dovrà trovare delle sponde nei maggiori governi europei. Lasciando perdere la Gran Bretagna, che sta praticando una politica ostruzionistica nei confronti dell'Europa e che ha agito scorrettamente proprio nei confronti del governo francese in carica, promettendo grande accoglienza per i contribuenti ricchi in fuga da Parigi, saranno decisivi i risultati elettorali in Italia e Germania nelle prossime consultazioni politiche. Il risultato di Berlino è obiettivamente il più importante per l'intera Europa: se si dovesse affermare una nuova linea, opposta a quella della cancelliera in carica, che potesse essere meno rigida, l'azione di Hollande troverebbe una maggiore facilità di applicazione, viceversa una conferma della Merkel acuirebbe le differenze con Parigi, con pesanti ripercussioni sulla politica comunitaria. In questo senso una affermazione del centro sinistra in Italia, potrebbe aiutare la Francia ad operare un bilanciamento dell'azione tedesca. Ma i pronostici sono ancora troppo difficoltosi, la legge elettorale in vigore in Italia non permette molte speculazioni e finchè lo scrutinio non sarà completato sarà ben difficile avere delle certezze. Anche sul fronte tedesco, però vi è profonda incertezza la scadenza elettorale prevista per autunno lascia aperte ancora tutte le possibilità, malgrado nelle ultime tornate i favori della Merkel siano stati in calo, la paura che una nuova ondata di debito potenziale si abbatta sull'Europa a causa di una attenuazione del rigore, potrebbe favorire in extremis l'attuale cancelliera. Nel frattempo, però Hollande non può aspettare gli eventi, la necessità di agire per risollevare un paese in difficoltà metterà alla prova il modello che dovrebbe ridare respiro alla Francia. Se ci riuscirà sarà uno spot elettorale enorme per i movimenti ed i partiti affini alla sinistra francese che parteciperanno alle elezioni negli altri paesi europei.

La contesa delle isole nel mondo, elemento di potenziale peggioramento delle relazioni internazionali

Insieme alle dispute dei mari orientali asiatici, che riguardano piccoli gruppi di isole contese da potenze più o meno grandi, come Cina, Giappone e Corea del Sud, in questi giorni torna alla ribalta la questione delle isole Falkland o Malvinas, grazie ad una lettera inviata dalla Presidentessa argentina, Kirchner, al premier britannico Cameron, in cui se ne richiede la restituzione a Buenos Aires, in ragione della risoluzione ONU del 1960, che invitava le nazioni membro a cessare il colonialismo. Secondo l'Argentina le isole le furono strappate con la forza proprio con un atto tipico del colonialismo ottocentesco, cui non è mai stato messo riparo e che pregiudicato la continuità e l'integrità del paese sud americano. In verità un referendum è previsto a Marzo tra gli abitanti delle isole ed il suo esito appare scontato in favore della Gran Bretagna, che, proprio facendo leva su questo risultato atteso, rifiuta qualsiasi negoziato senza l'avvallo dei residenti. Il precedente degli anni ottanta dello scorso secolo, rappresenta però, un pericoloso antefatto: la giunta militare argentina, nel tentativo di distogliere l'attenzione dai problemi interni del paese, invase le isole con una forza militare che diede origine alla risposta inglese, dando il via ad un conflitto che causò la morte di 255 militari britannici e 649 argentini e si concluse con la vittoria di Londra ed aprì la strada alla caduta del regime insediatosi a Buenos Aires. Le analogie con la situazione attuale sono evidenti: il governo argentino in carica è alle prese con problemi interni, principalmente di natura economica, ma che riguardano anche la corruzione della classe al potere, sui quali tenta di sviare l'attenzione seguendo uno schema classico degli esecutivi in difficoltà, che puntano a temi di politica estera per creare temi di attenzione, spesso sovrastimati, in grado di distogliere l'attenzione e la concentrazione dell'opinione pubblica da problematiche più pressanti, sulle quali è necessaria una maggiore libertà di azione lontano dai riflettori della stampa e dei media. Ma a queste motivazioni se ne aggiungono anche altre di ordine economico, non è un caso che il risveglio delle rivendicazione nazionalistica sia avvenuta in coincidenza con la volontà britannica di effetuare perforazioni nel mare intorno alle isole per la ricerca del petrolio. Peraltro le Falkland o Malvinas non sono l'unico territorio conteso tra i due stati: esiste una ampia porzione del territorio antartico, che recentemente è stata denominata "Queen Elizabeth land" da Londra e che è da tempo rivendicata da Buenos Aires, anche in questo caso i ricchi giacimenti di materie prime, sono senz'altro all'origine della contesa. Come si evince dalla successione di questi fatti, esistono segnali preoccupanti che indicano che gli equilibri presistenti in tante parti del globo, spesso intorno ad isole o arcipelaghi poco più che disabitati e spesso posti in posizione defilata, sono alterati da nuove rivendicazioni generate da necessità politiche interne, è appunto il caso argentino, ma anche quello del Giappone nella contesa con la Cina, o potenzialità economiche fino ad ora non solo non sfruttate ma, in certi casi, neppure prese in considerazione, dove l'elemento energetico è spesso preponderante o almeno in concorso con l'elemento strategico di natura militare o mercantile e, non ultima, anche la risorsa ittica concorre ad essere una ragione del contendere. Questo trend delle relazioni internazionali è stato finora troppo sottovalutato, ma merita una attenzione molto rilevante ma perchè potenzialmente rappresenta un fattore di rischio molto alto nella dialettica tra gli stati, con oggettive possibilità di degenerare in qualcosa di più grave che accuse espresse nelle note ufficiali dei governi. I rischi di conflitti marini, con evidenti ripercussioni sui commerci e la produzione e quindi sui costi di produzione, devono allertare tutte le diplomazie mondiali affinchè venga trovata una strada risolutiva univoca, che tracci una soluzione generale preventiva. Il silenzio, veramente assordante, delle organizzazioni internazionali e sopratutto dell'ONU, che è assente nella sua funzione essenziale di organismo sovranazionale supremo, perchè asservito a logiche tutt'altro che internazionali, non può che suscitare viva preoccupazione. Non sono soltanto le grandi potenze che si devono attivare nell'ambito generale dell'argomento, ma anche le medie potenze possono adoperarsi per una azione di convincimento e sopratutto di regolamentazione, che sappia creare condizioni universali cui attenersi. La prevenzione di qualsiasi focolaio di contesa diventa essenziale in una economia, principalmente, ma anche in una politica internazionale, sempre più globalizzate, dove la riduzione della potenzialità conflittuale è necessaria ad evitare quelle ripercussioni meccaniche sugli indici finanziari, capaci di creare situazioni di crisi oggettive. In conclusione non si può che auspicare l'apertura di una conferenza internazionale che possa gestire anticipatamente queste questioni, impedendone il loro potenziale sviluppo negativo.