Politica Internazionale

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giovedì 28 febbraio 2013

Italia: il risultato elettorale indica all'Europa la fine della politica del rigore

Al non equivocabile segnale proveniente dalle elezioni italiane, si è aggiunta la relazione dei servizi segreti di Roma, che intravedono nell'attuale situazione economica, forti potenziali pericoli derivanti da una instabilità sociale sempre più evidente. Sono principalmente questi gli effetti della recessione imposta dal metodo tedesco: una austerità ed un rigore portato ad un grado di estremizzazione ormai insostenibile, sia dalle famiglie, che dalle imprese. Mentre in Europa si faceva finta di niente, grazie all'opera del governo tecnico italiano, che forniva risultati macro economici positivi, grazie alla compressione dei valori micro economici relativi alle parti più deboli del tessuto sociale italiano mentre la condizione della Grecia continuava ad essere snobbata in ragione della sua minore importanza, Bruxelles continuava a subire il dettato tedesco sull'economia continentale. Anche il malessere spagnolo e perfino quello francese venivano sottovalutati ampiamente in ragione dei buoni risultati del socio forte dell'Unione Europea. Tuttavia, se le elezioni di Parigi hanno portato una composizione di governo non molto gradita, ma comunque in grado di assicurare una stabilità adeguata, quello uscito dalle urne italiane è un risultato che rischia di contagiare tutto il continente, sia per la stabilità dei mercati, che per quella sociale. Nella Commissione europea inizia così ad incrinarsi la convinzione che l'impostazione così fortemente incentrata sul rigore abbia bisogno di qualche correttivo. Parigi, che con Hollande al governo non è più in sintonia con la Merkel come con Sarkozy presidente della repubblica, intende chiedere alla UE l'elaborazione di un nuovo modello economico, fondato su minor rigore e maggiore crescita, ma deve scontrarsi con una Germania, che, per la verità, pare sempre più isolata, convinta che l'area euro non è affatto uscita dall'emergenza. Questo è vero però solo in parte, nel senso che l'emergenza della moneta unica pare un ottimo pretesto da asservire alla commercializzazione dei prodotti tedeschi e non al reale interesse dell'Europa nel suo complesso, che, anzi, soffre proprio la stretta creditizia per sviluppare le economie degli altri stati membri, esclusa la Germania. La sensazione dominante nel vecchio continente è che dopo l'unificazione dei due stati tedeschi a seguito della caduta del muro di Berlino, pagata dall'unione europea, ora la Germania scarichi sugli altri stati, da un punto di forza particolare, i costi della propria inefficienza produttiva. La figura peggiore è però quella di Bruxelles, che risulta appiattita in maniera quasi servile alla politica tedesca ed ora, di fronte all'evidenza del fallimento della politica improntata all'eccessivo rigore, non sappia come cambiare rotta. Le previsioni economiche continuano ad evidenziare per la zona euro una piena recessione, chiaro segnale che la politica attuata fino ad ora è stata errata e può essere corretta soltanto con robusti provvedimenti destinati a stimolare la crescita, soluzioni non gradite a Berlino. Sulla sincerità europeista di Angela Merkel i dubbi sono ora più di uno: schiacciata dall'urgenza della prossima consultazione elettorale e dal soddisfare un tessuto produttivo che ha il suo maggiore sviluppo proprio in Europa e che quindi non è interessato a vedere crescere i concorrenti all'interno del suo mercato di riferimento, la cancelliera si arrocca sulle solite posizioni di estrema austerità che impongono soltanto sacrifici ai cittadini degli altri stati, senza però dare in cambio nulla, questo atteggiamento tedesco è stato individuato come un freno ad un maggiore contributo che Berlino potrebbe e dovrebbe fornire alla causa europea. La speranza di molti analisti era che arrivasse al potere in Italia un partito europeista ma capace di creare una alleanza, con Parigi e Madrid, in grado di controbilanciare il potere di Berlino. Il risultato di Roma, ancorchè negativo, risulta funzionale alla strategia di Hollande della necessità della crescita nel continente ed avvera per la Germania i suoi peggiori timori. Il governo tedesco sperava in una riconferma di Monti, che ha attuato come un soldato i dettami di Berlino, diventando il migliore alleato delle politiche economiche tedesche, tuttavia anche una vittoria di Bersani sarebbe stata preferita alla più completa incertezza attuale, che da forza alle posizioni di Parigi contro l'austerità totale, che possa permettere la maggiore occupazione, elemento necessario all'effetiva integrazione europea.

L'Iran vicino alla bomba atomica, per Israele torna in auge l'opzione militare

I negoziati del Kazakistan, per mettere fine alla determinazione iraniana di diventare una potenza militare nucleare, sono sostanzialmente falliti. Nonostante le sanzioni, Teheran continua ad andare avanti nel suo programma nucleare, anche a costo di sacrificare la propria situazione economica; questo aspetto risulta indicativo in maniera fondamentale nelle intenzioni iraniane di diventare una potenza atomica. Lo scorso 21 febbraio l'Agenzia dell'ONU per il nucleare ha espressamente affermato che Teheran è ora molto vicino, tecnologicamente, nella produzione del plutonio arricchito per costruire l'ordigno atomico, più nel dettaglio, secondo l'AIEA, il regime degli ayatollah avrebbe a disposizione l'armamento nucleare finito entro il termine del 2013. Le reazioni israeliane non si sono fatte attendere: Tel Aviv ha, ancora una volta, sollecitato i paesi occidentali a muovere un attacco contro gli impianti nucleari iraniani, da compiere nel lasso di tempo restante. Oltre alle rivelazioni dell'AIEA, sono state pubblicate dal quotidiano "Daily Telegraph" le immagini via satellite scattate sulla città di Arak, dove vi sarebbe un ulteriore impianto per la produzione di plutonio arricchito, che costituirebbe il piano di riserva iraniano, in caso di danneggiamento degli impianti principali. Questa notizia, ben conosciuta dai servizi segreti e fornita alla stampa serve allo scopo di guadagnare consensi anche tra l'opinione pubblica occidentale, che nella maggioranza, è contraria ad un attacco militare contro l'Iran, per le conseguenze difficilmente immaginabili che potrebbero scatenarsi. Tuttavia, dopo la riuscita dell'esperimento nordcoreano, nell'occidente e non solo, sale la preoccupazione per la nuova proliferazione degli armamenti nucleari, specialmente in paesi non sicuri e capaci, con il possesso di armi atomiche, di condizionare equilibri regionali già di per se molto instabili. Se l'Iran, sempre nel quadro della teocrazia che comanda il paese, dovesse arrivare effettivamente al possesso della bomba atomica, la regione mediorientale sarebbe soggetta ad un equilibrio del terrore molto precario, con due soggetti fortemente nemici entrambi militarmente dotati di forza nucleare. Uno scenario fino a poco tempo prima impensabile e troppo a lungo creduto impossibile da avverarsi. La politica degli USA, su questo argomento, è stata mossa da un atteggiamento prudente, Obama ha preferito usare l'arma delle sanzioni senza forzare troppo la mano, ma i risultati, sia a Pyongyang, che a Teheran non sono andati nella direzione voluta. La rielezione di Netanyahu, rafforza, però, l'ipotesi di intervento scongiurata lo scorso anno anche per la scadenza delle presidenziali americane. Terminati gli appuntamenti elettorali gli USA a questo punto dell'evoluzione della vicenda, potrebbero dare un tacito assenso all'opzione militare di Israele, dove la pressione per il pericolo iraniano si fa sempre più pesante. Anche lo scenario siriano, dove l'indebolimento di Assad, principale alleato di Teheran, sembra favorire l'intenzione di Tel Aviv di scegliere la possibilità di un attacco chirurgico in grado di azzerare la tecnologia nucleare iraniana. Alla fine dell'anno mancano ancora dieci mesi ma se Israele deciderà di intervenire non lo farà alla scadenza del 2013, più probabile che la pianificazione dell'attacco sia uno dei primi atti dopo l'insediamento del nuovo governo; se ciò sarà vero, verso fine primavera, inizio estate potrebbe iniziare l'operazione militare.

mercoledì 27 febbraio 2013

La UE non deve sottovalutare il caso italiano

Il risultato delle elezioni italiane deve essere interpretato come piu’ di un segnale di allarme da parte delle istituzioni europee. Roma, da sempre convinta appartenente delle istituzioni europee, si ritrova con il parlamento meno propenso all’Unione Europea del continente. Il fenomeno, prima circoscritto a nazioni meno importanti, o, se presente in quelle maggiori, confinato in zone regionali ben definite, in Italia assume un ora un valore di tutt’altro peso specifico. L’evoluzione dei prossimi giorni dira’ se il paese italiano riuscira’ a costruire un governo, capace, almeno di arrivare ad una nuova scadenza elettorale con una nuova legge per determinare il peso politico delle coalizioni, evitando le situazioni, come l’attuale, che determinano lo stallo del sistema. Ma a questo problema, pur importante per i delicati equilibri europei, vi e’ quello ancora maggiore che riguarda la lezione che Bruxelles deve capire affinche’ questa situazione non si ripeta, portando il pericolo della disgregazione europea a livelli fino ad ora mai raggiunti. Le forze che siederanno nel prossimo parlamento italiano, sono infarcite di un euro scetticismo che va dall’uscita della moneta unica, fino all’abbandono dell’Unione Europea, come soluzioni possibili alla grave crisi economica. Quello che si imputa a Bruxelles e’ di avere assecondato troppo le esigenze tedesche, che hanno determinato una contrazione enorme del reddito disponibile per famiglie ed imprese, alzando il valore del debito pubblico degli stati, sopratutto quelli dell’Europa meridionale. Il comportamento della Germania, condizionato da una visione miope e ristretta ha ridato fiato all’euro scetticismo piu’ spinto, a sua volta mosso, da programmi a brevissima scadenza. Detto cio’ se si verificasse, non proprio un distacco, ma soltanto un allentamento dei vincoli nei confronti dell’Europa, i primi a rimetterci sarebbero proprio i tedeschi, che hanno nell’area euro il loro mercato di riferimento. Il segnale greco per scongiurare i pericoli del populismo e della contrarieta’ alle istituzioni europee non e’ evidentemente bastato, ma ora quello che avviene in Italia, la terza economia dell’area euro, rischia di avere una portata ben maggiore, anche per il potenziale effetto di emulazione che potrebbe verificarsi. Chiaramente la colpa non e’ tutta della Germania o della UE, pero’ e’ un fatto che il governo Monti, definito tecnico, ha abbassato notevolmente gli standard di vita degli italiani, per soddisfare le richieste europee e mantenere in piedi un sistema bancario non in grado di sostenere i necessari investimenti. In un simile scenario il Partito Democratico, accreditato dai sondaggi della vittoria, e’ arrivato primo senza raggiungere la maggioranza necessaria per governare, subendo la rimonta di Berlusconi, responsabile dello sfacelo che ha determinato l’insediamento di Monti. Proprio il risultato deludente del premier uscente, che governava con l’assoluto favore di Bruxelles, rivela il basso livello di gradimento che il popolo italiano ha manifestato e che deve essere il principale motivo di riflessione per Bruxelles. Tutto cio’ ha favorito l’ascesa del Movimento Cinque Stelle, che pur partendo da motivazioni piu’ che valide, ha proposto in sede di campagna elettorale, una visione populista di facile presa, che, tuttavia, ha permesso di nascondere la pochezza delle proposte politiche. La UE non puo’ permettersi un’altro episodio simile e deve fare in modo che in Italia si creino le condizioni per fermare da subito l’antieuropeismo mediante ogni aiuto possibile per evitare una deriva capace di trascinare tutta l’impalcatura europea. Se cio’ non si verifichera’ l’unione politica sara’ irraggiungibile e sara’ la fine del sogno europeo, con il risultato che le singole nazioni del vecchio continente saranno preda di facile conquista di Cina e Stati Uniti.

venerdì 22 febbraio 2013

L'atomica della Corea del Nord potrebbe rappresentare un pericolo ancora maggiore

Dopo il test nucleare effettuato dalla Corea del Nord e provato dalla registrazione di una scossa di terremoto di magnitudo 5, avvenuta a 100 chilometri dal confine con la Cina, continuano le misurazioni di radioattività da parte di USA, Giappone e Corea del Sud. Il fatto che non siano stata ancora rilevate tracce di radioattività non esclude certamente che la prova sia avvenuta, come hanno verificato i sismografi, ma pone interrogativi circa il materiale utilizzato per la bomba, che possono determinare, di conseguenza, i progressi nella ricerca e nel grado di tecnologia raggiunto da Pyongyang. Intanto una ipotesi della mancata rilevazione di particelle radioattive nell'aria, è che l'esperimento sia avvenuto all'interno di una sede protetta da formazioni rocciose ed in profondità. L'ammissione della Corea del Nord di avere fatto esplodere un ordigno miniaturizzato, quindi più leggero, ma con magiore potenza esplosiva, senza danni ambientali, incrociata con i dati del terremoto registrato in corrispondenza dell'effettuazione del test, fornisce una indicazione di massima agli scienziati, che consente di ipotizzare una potenza raggiunta di almeno 5 kiloton, superiore ai test nordcoreani precedenti, ma ancora lontano dai 20 kiloton raggiunti dalla bomba sganciata su Hiroshima. Tuttavia il punto cruciale è stabilire quale materiale ha effettivamente usato Pyongyang. Nei test precedenti si è certi che è stato usato plutonio, ma dalle indicazioni delle misurazioni questa volta all'interno della bomba potrebbe esservi stato uranio arricchito. Se ciò corrisponde al vero la notizia è preoccupante per due ragioni fondamentali: la prima costituisce la prova di un avanzamento tecnologico notevole, con potenziali implicazioni dell'esportazione della tecnologia raggiunta verso paesi interessati a dotarsi di armamenti atomici, fattore in grado di portare ulteriore instabilità nel mondo. La seconda è di ordine più strettamente militare, ma non meno preoccupante. Un ordigno costituito da uranio arricchito è più facilmente oscurabile ai satelliti spia e, come è stato detto, necessita di dimensioni minori, il che favorisce in maniera nettamente più facile il montaggio su missili a lungo raggio. Pyongyang dispone, in teoria, di testate missilistiche in grado di coprire 10.000 chilometri, un raggio sufficiente per arrivare a colpire il territorio statunitense; in pratica i test di questi missili non hanno mai raggiunto tale distanza esplodendo prima in volo, dopo essere stati colpiti. Nonostante questi insuccessi però, lo scorso dicembre utilizzando un missile analogo la Corea del Nord è riuscita a mettere in orbita un satellite. Tutti questi fatti hanno determinato un aumento della preoccupazione di Washington, che risulta essere il primo nemico della lista elaborata da Kim Jong-un, sulla base delle sanzioni inflitte al suo paese, proprio per la questione della nuclearizzazione nordcoreana. Con un paese ridotto allo stremo l'unica politica che il governo di Pyongyang è capace di elaborare, per ottenere gli aiuti necessari a mandare avanti la propria pur ridotta economia, è quello di dispiegare un apparato militare verso cui le risorse destinate appaiono sbilanciate rispetto al budget complessivo dello stato, un apparato militare che probabilmente è il vero detentore del potere nel paese e ne è la causa delle pessime condizioni di vita. Praticamente abbandonata anche dalla Cina, che non gradisce tale concentrazione mediatica ai suoi confini, la Corea del Nord sembra incrementare la sua politica di minacce come estrema risorsa di convincimento nei confronti dei soggetti che hanno decretato le sanzioni. Questa situazione ne costituisce un attore molto pericoloso, instabile ed anche imprevedibile, che crea allarme in una zona che ha assunto una importanza nevralgica nel commercio mondiale. Resta difficile credere che Obama resti indifferente ad una minaccia che è anche relativamente vicina al territorio americano, oltre a gravare anche su Giappone e, naturalmente, Corea del Sud. Il dispiegamento navale e le recenti manovre militari congiunte, che hanno visto la partecipazione dei marines americani, attorno alla Corea del Nord, vanno, appunto, viste in quest'ottica, anche se, probabilmente, non saranno che un anticipo di operazioni ancora maggiori. Gli USA, intendono così rispondere alle provocazioni nordcoreane, con una miscela di minaccia militare e l'aggravamento sanzionatorio, la tattica ha un alleato importante in Pechino, che intende risolvere la questione al più presto. Il pericolo, però, di un colpo di testa del regime di Pyongyang, maturato in un contesto fortemente instabile, rimane. Per Washington, che comunque è in possesso di tutti i sistemi di neutralizzazione antimissile, ora la corsa è contro il tempo, in modo tale da acquisire le conoscenze sufficienti sul grado di sviluppo della tecnologia della Corea del Nord, per adottare le adeguate contromisure.

giovedì 21 febbraio 2013

L'Italia a due giorni dal voto

Ormai prossimi alla scadenza elettorale italiana, cruciale per il paese, ma anche per l'Europa e l'intero occidente, la situazione nello stivale appare molto confusa ed il livello, sempre più basso, della campagna elettorale, contribuisce ad aumentare il senso di smarrimento nelle cancellerie. Partiamo dai sondaggi bloccati per legge da due settimane: fino a che sono stati resi pubblici si registrava un recupero dell'ex primo partito italiano e della sua coalizione di centro destra trainato dal ritorno sulla scena pubblica del leader della formazione Silvio Berlusconi, sulla coalizione favorita di orientamento di centro sinistra. Il premier uscente, Mario Monti, entrato nella competizione a sorpresa e contrariamente a quanto dichiarato, non pareva sfondare in un elettorato che lo ha percepito come autore di una politica vessatoria, malgrado gli apprezzamenti internazionali; la coalizione di centro capitanata proprio dal Presidente del Consiglio non era accreditata sopra il 12-15%, un risultato, che se confermato, sarà deludente per le attese di una fascia collocata al vertice della piramide sociale italiana, che confidava nella politica del governo dei tecnici, ma che potrebbe consentire un potere di ricatto nei confronti delle altre due coalizioni, in una posizione di ago della bilancia. Questa ipotesi apre allo scenario più probabile: la vittoria insufficiente del centro sinistra, che avrà bisogno della stampella di centro per potere formare il governo. Pare, invece, impraticabile la via alternativa verso una alleanza tra la formazione di Monti ed il centrodestra, sia per la presenza del partito a matrice antieuropea, la Lega Nord, sia per i toni accesi che hanno assunto reciprocamente Berlusconi e Monti, con lo scopo di guadagnare la fiducia dell'elettorato definito, spesso a torto, come moderato. Ma una alleanza tra il centro ed il centrosinistra, dove è presente una formazione più marcatamente di sinistra, Sinistra ecologia e libertà, guidata dal governatore della Puglia, Vendola, potrebbe causare la ripetizione dell'ultima esperienza del governo Prodi, quando per le incomprensioni per le componenti eterogenee dell'alleanza, l'esperienza di governo terminò anticipatamente, aprendo la strada all'ultimo governo Berlusconi, inviso ai maggiori paesi europei. Un tale quadro della situazione aprirebbe una fase di instabilità che non avrebbe altro epilogo che una nuova consultazione elettorale. Lo scenario fin qui presentato ricalca però la tendenza sia dei media, che degli istituti demoscopici italiani, che hanno sottovalutato la presenza degli altri movimenti in corsa ed in special modo l'impatto del Movimento Cinque Stelle, guidato da un comico, Beppe Grillo, capace di riempire le piazze con i suoi comizi, usando una strategia elettorale basata sull'uso del web ed, appunto, delle piazze, rifiutando il canale tradizionale della propaganda politica: la televisione. I programmi di Grillo non sono chiari, si tratta di un impasto infarcito di proposte populiste ed astio, ampiamente giustificato, verso una classe politica che ha dato ampie prove di incapacità e malgoverno, ma che, proprio per la facilità di comprensione del messaggio, stanno incrementando i consensi. Il Movimento Cinque Stelle rischia di diventare il terzo o addirittura il secondo partito del paese. Ad aiutare l'aumento del gradimento è stato lo svolgimento di una campagna elettorale, dove i partiti tradizionali hanno mantenuto il discorso sui programmi, solo nelle prime battute, per poi scadere di livello, trascinati in continui attacchi l'uno contro l'altro e promesse spesso antitetiche, quanto pittoresche, con quanto enunciato all'inizio della competizione. Si aggiunga che il coinvolgimento, seppure indiretto, in episodi giudiziari molto rilevanti, ha riguardato diverse formazioni politiche, andando ad accrescere e provare direttamente quanto sostenuto da tempo da Grillo nei confronti dei politici di professione. Nei sondaggi il Movimento Cinque Stelle pur accreditato di un 15-18% è stato probabilmente sottostimato, non è dato di sapere se per imperizia o ad arte, ma attualmente, secondo le impressioni di vari osservatori, avrebbe una percentuale ancora più rilevante. Beppe Grillo, il leader del movimento, ha sempre rifiutato qualsiasi possibile alleanza con le forze poltiche tradizionali, ed un suo eventuale successo rappresenterebbe un ulteriore elemento di instabilità del sistema, forse ancora maggiore, che un eventuale accordo tra centro sinitra e centro, già di per se poco stabile, quasi per definizione. Questa situazione, che è forse il risultato più probabile delle urne, è ben presente alla platea internazionale, che nutre forti preoccupazioni per i riflessi negativi sulla moneta unica derivanti dalla non governabilità della terza economia della zona euro. I risultati a livello macroeconomico del governo dei tecnici guidato da Monti, hanno avuto l'effetto di tamponare una crisi che poteva trascinare dietro di se la moneta unica, ma non hanno sistemato in maniera strutturale l'impalcatura sempre traballante dell'economia italiana. Le scelte di forte compressione dello sviluppo attuate mediante una tassazione applicata in maniera oltremodo feroce, che ha ridotto potere di acquisto e capacità produttive, non possono essere tollerate da una società sempre più portata verso il basso, dove le forti tensioni sociali ne hanno minato la coesione. L'antipolitica, dei movimenti populisti, sembra abbia occupato gli spazi liberi lasciati dal fallimento delle forze politiche, a questo fenomeno si deve sommare il grande livello di astensionismo ed allontanamento dalle urne, che costituiscono la forma più diffusa di protesta verso il sistema dei partiti, che resiste all'implosione grazie ad uno zoccolo duro di affezionati, che tende, però, ad una sempre maggiore erosione. Sostanzialmente è questo lo scenario italiano a poche ore dalle urne, uno scenario giustamente preoccupante.

mercoledì 20 febbraio 2013

Israele: Tzipi Livni guiderà i negoziati con i palestinesi

In un Israele minacciato dall'Iran, dagli Hezbollah e dalla situazione siriana, l'incaricato a formare il nuovo governo, l'ex premier Benjamin Netanyahu, compie una scelta pragmatica per una possibile e sempre più necessaria soluzione della questione palestinese. L'incarico, che dovrebbe essere affidato, secondo gli ultimi accordi, a Tzipi Livni come Ministro della Giustizia, comprenderà anche la ripresa della conduzione dei negoziati di pace con i palestinesi. Si tratta di una scelta che può apparire sorprendente, la Livni ha avversato negli ultimi anni, l'azione di governo del Premier incaricato, dai banchi dell'opposizione, tuttavia per Netanyahu l'incarico alla nuova ministro è un passo obbligato per cercare di formare un governo che comprenda la maggior parte dei settori della società politica israeliana. Questa necessità è dettata dall'isolamento internazionale in cui il paese israeliano si è gettato, per le posizioni oltranziste ed oltremodo rigide, proprio tenute nei confronti della questione palestinese. La scelta della Livni, unita alla volontà dichiarata di mettere fine al conflitto con i palestinesi tramite la ripresa del processo di pace dovrebbe andare nella direzione tanto auspicata dagli Stati Uniti, di due stati per due popoli. Se le premesse sono queste il fatto è senz'altro positivo, anche se Benjamin Netanyahu ha spesso abituato a promesse non mantenute mediante sfacciati voltafaccia. L'attribuzione della direzione dei negoziati di pace ad un nuovo soggetto, rispetto agli assetti politici precedenti, come la Livni dovrebbe garantire però una intenzione sincera, non fosse altro che per la sopravvivenza del nuovo governo israeliano, necessaria per ridare stabilità ad un paese che ha il grande bisogno di risolvere le proprie questioni interne, legate all'economia in crisi e alla disgregazione del tessuto sociale a causa del declino della classe media, che soffre di una distribuzione del reddito sbilanciata. Ma la nomina della Livni, proprio perchè gradita ad Abu Mazen, USA ed Unione Europea, non è altrettanto apprezzata dai conservatori ed ultraortodossi, che restano comunque un alleato importante di Netanyahu. Il primo scoglio dell'azione della Livni sarà, infatti, la condizione essenziale posta dai palestinesi per riprendere i negoziati: la fine dei programmi di insediamento delle colonie nei territori palestinesi. Si tratta di un tema che suscita grandi reazioni in entrambe le parti e che Benjamin Netanyahu è ben felice di non trattare in prima persona e delegare ad altri. Su questa questione spinosa, potrebbe esserci la trappola per la Livni, che è pur sempre stata nel passato una rivale di Netanyahu e verso la quale l'ex capo del governo non può nutrire di colpo la piena fiducia, usata dal premier in pectore come soggetto sul quale scaricare un possibile fallimento dei negoziati e quindi riprendere la sua politica anti palestinese, con una piena giustificazione. Sulla reale sincerità di Benjamin Netanyahu sull'attuazione della definizione della questione palestinese da concludere con la formazione dei due stati, vi è infatti, più di un dubbio. Nella scorsa legislatura le occasioni, se non per concludere, almeno per arrivare ad un punto avanzato delle trattative ci sono state tutte, ma sono state puntualmente disattese con una politica repressiva ed arrogante contro i palestinesi, ampiamente sostenuta dai partiti ultraortodossi ancora presenti nella prossima coalizione di governo. Questa situazione di equilibri politici è però variata, grazie all'affermazione del nuovo partito di centro di Yair Lapid, meno propenso alle concezioni agli ultraortodossi. Il nuovo scenario politico israeliano riduce quindi i margini di manovra di Benjamin Netanyahu, che, tuttavia, potrebbe tentare qualche nuova invenzione per andare avanti nella politica degli insediamenti. Per capire le reali intenzioni del futuro capo del governo occorrerà attendere i reali spazi che saranno concessi alla Livni, tenendo presente che l'elettorato, pur guardando con attenzione alle questioni della sicurezza nazionale, ha espresso maggiore preoccupazione per i problemi interni, la cui soluzione passa anche attraverso la definizione della questione palestinese.

martedì 19 febbraio 2013

In Pachistan aumenta la violenza contro gli sciti

Gli episodi di violenza, che hanno provocato ben 89 morti, avvenuti in Pakistan, ai danni dell'etnia Hazara, di religione scita, annunciano un grave deterioramento all'interno dell'Islam, con conseguenze, che potenzialmente, possono provocare la deflagrazione di un conflitto di proporzioni immani. Gli autori degli attentati sono riconducibili ad aderenti al movimento estremista sunnita Lashkar-e Jhanvi, che non riconoscono gli sciti tra i componenti della fede musulmana. Nello scorso anno, in Pachistan, sono stati ben 400 i morti appartenenti all'etnia Hazara a seguito di attacchi causati dalla violenza settaria. Le persecuzioni si inquadrano in una strategia, che mira a conversioni forzate ed in ultima analisi alla trasformazione del Pakistan in teocrazia sunnita. In questo obiettivo al gruppo Lashkar-e Jhanvi, si affiancano Al Qaeda ed i Talebani, che godono di protezioni all'interno dello stesso governo di Islamabad. Occorre essenzialmente tenere presente due fattori che possono essere determinanti nella questione. La prima è il possesso di armamenti nucleari da parte del Pachistan. Si tratta di un aspetto fondamentale per gli equilibri regionali ed anche mondiali; il governo centrale, ancorchè corrotto ed inaffidabile, già ora, non riesce ad esercitare la piena sovranità sull'intero territorio sul quale esercita nominalmente il predominio legale; anzi ciò è vero soltanto nella zona immediatamente intorno alla capitale, nel resto del paese vi sono ampie porzioni di territorio in cui la legge è amministrata da bande locali o dai Talebani. In questa situazione trovano terreno fertile le azioni che puntano ad una legalità parallela, spesso fondata sul predominio etnico e religioso. Se queste pratiche dovessero diffondersi fino ad arrivare alle zone nevralgiche dei centri di potere, il pericolo che l'arsenale bellico cada in mano a gruppi radicali diventerebbe concreto. Il secondo fattore è che questi gruppi estremisti sunniti stanno intensificando la loro azione da circa un anno, per fare ciò hanno senz'altro avuto bisogno di finanziamenti, perlomeno per sostenere la lotta politica verso il regime teocratico. Trattandosi di sunniti non si può non pensare alle monarchie del Golfo Persico, che hanno ingaggiato da tempo una guerra non dichiarata contro l'Iran. Se questa influenza fosse malauguratamente vera sarebbe, altresì, impensabile la mancanza di una risposta da parte di Teheran, che ha fatto della tutela delle minoranze scite nel mondo, uno dei cardini della sua politica estera. Ecco delinearsi, quindi, il potenziale pericolo di un conflitto tutto interno all'Islam, che potrebbe coinvolgere una zona molto vasta che dall'Arabia Saudita, attraversa l'Iraq, l'Iran ed arrivi fino a Pakistan ed Afghanistan. Si tratta di un territorio strategico per l'economia mondiale perchè vi sono le più grandi riserve di greggio e costituisce un insieme di punti strategici per gli equilibri geopolitici. Difficile non credere che Washington guardi a questi episodi, che sono tutt'altro che avulsi da una visuale panoramica complessiva, senza la giusta preoccupazione. Del resto per gli USA, e per l'occidente, l'estremismo sunnita è ugualmente pericoloso di quello scita ed in una eventuale guerra di religione sarebbe veramente difficile assumere la scelta di un qualsiasi atteggiamento. Se si riduce, invece, la visuale, limitandosi al caso Pachistano, la comunità internazionale non può augurarsi l'instaurazione di una teocrazia opposta a quella iraniana soltanto perchè sunnita. Purtroppo le possibilità di riuscita che questo accada, perlomeno in parti singole del paese è molto alta: le elezioni in programma tra pochi mesi presentano un paese fortemente disunito, dove la povertà è fortemente aumentata in un contesto di difficile gestione della cosa pubblica da parte dello stato. Anche sul piano internazionale, l'alleanza con gli USA si è allentata per i ripetuti episodi di inaffidabilità delle istituzioni nella collaborazione nella lotta al terrorismo e l'inserimento cinese si è limitato ad insediamenti economici, senza abbracciare una visuale di collaborazione più complessiva, che non rientra nei piani di Pechino.

lunedì 18 febbraio 2013

L'Egitto distrugge i tunnel di Hamas

La politica inaugurata dal governo egiziano, del Presidente Mursi, di distruggere i tunnel sotterranei che comunicano con Gaza, pare muoversi in netta controtendenza, rispetto alle attese degli abitanti della Striscia ed ai pronostici degli osservatori internazionali, che prevedevano una politica preferenziale del paese egiziano verso Hamas. L'ascesa al potere dei partiti islamisti a Il Cairo, pareva indirizzarsi, seppure tra molti equilibrismi, in una direzione nettamente favorevole alla popolazione palestinese, suscitando la preoccupazione israeliana ed americana. In questo scenario l'apertura del valico, in superficie, di Rafah aveva già allarmato le forze armate di Israele per i possibili passaggi di armi. Parallelamente, però, il canale principale di comunicazione e, sopratutto, di passaggio delle merci, erano state le centinaia di tunnel, scavate con relativa facilità in un suolo particolarmente adatto allo scopo, presenti nel sottosuolo al confine tra Egitto e Striscia di Gaza. Costruiti durante il regime di Mubarak, i tunnel hanno permesso di aggirare il rigido embargo israeliano, che riguardava anche generi alimentari e medicinali, oltre ad altre svariate specie di materiali, tra cui quelli da costruzione e carburanti a prezzo decisamente minore da quello imposto da Tel Aviv. Si stima che le merci che giungevano dai tunnel rappresentassero circa un terzo del fabbisogno totale delgi abitanti della Striscia di Gaza. Chiaramente la natura del traffico di queste merci non era legale, trattandosi della violazione dell'embargo israeliano, si poteva inquadrare il fenomeno come una forma necessaria di contrabbando, conveniente, però a quasi tutti gli attori coinvolti nello scenario. I mercanti egiziani e palestinesi davano incremento ai loro guadagni, per le guardie di frontiera dell'Egitto era una fonte alternativa di guadagno e per Hamas una entrata fiscale vera e propria, in quanto le merci che attraversavano il sottosuolo erano soggette ad un regime di tassazione. Negli ultimi giorni, però, l'attività dei tunnel è stata fortemente compromessa dall'azione dell'esercito egiziano che ha provveduto a piazzare cariche di esplosivo, che ne hanno provocato il parziale crollo, assieme alla pratica di inondare le vie sotterranee, di fatto diminuendone la capacità del transito delle merci. La situazione economica di Gaza, già molto difficoltosa a causa di una disoccupazione che si aggira intorno al 50%, ha subito così un contraccolpo importante, che non poteva non essere stato valutato dal governo egiziano. Tali misure mettono in chiara difficoltà Hamas, che è al governo nella Striscia, e che aveva speso parole di elogio e di speranza per l'elezione di Mursi. Il Presidente egiziano, con questa mossa, pare, invece, avere sacrificato la parte più estremista, ma più affine al suo partito, del movimento per la liberazione della Palestina: Hamas. Le ragioni non paiono essere ben chiare, una motivazione potrebbe essere la pressione USA, dietro sollecitazione israeliana, di chiudere una via che possa permettere un passaggio di armi; in questo momento Tel Aviv è impegnata sul confine settentrionale a controllare la minaccia proveniente dalla dissoluzione siriana ed un eventuale risveglio militare di Hamas potrebbe creare problemi all'esercito per uno schieramento massiccio su due fronti contemporaneamente. I militari egiziani intendono mantenere buoni rapporti con gli USA e questo elemento potrebbe favorire la disponibilità con la quale si sono prestati al sabotaggio dei tunnel. Tuttavia, se queste ipotesi possono ritenersi concrete e verosimili, è altrettanto credibile che il presidente egiziano voglia accreditarsi sotto una luce particolarmente positiva alle potenze occidentali e filoisraeliane per distogliere l'attenzione dalla situazione interna del paese. Le feroci repressioni dell'opposizione, a causa dell'approvazione di una carta costituzionale fortemente sbilanciata verso posizioni di radicalismo islamico, hanno provocato parecchi dubbi sulla legittimità e l'affidabilità del nuovo governo dell'Egitto, peraltro democraticamente eletto. L'evoluzione politica interna del paese, ritenuto molto importante dalle cancellerie occidentali per l'equilibrio regionale, ha suscitato negli ambienti governativi de Il Cairo, un timore assoluto di essere relegato in un pericoloso isolamento dai paesi dell'occidente, condizione che aggraverebbe un tessuto economico già molto compromesso e che, è bene ricordarlo, è stato la causa scatenante della ribellione contro Mubarak. Mursi, che non vuole o non può cambiare la sua politica interna, sia per proprie convinzioni, che per essere ostaggio delle parti politiche più radicali, cerca di attuare strategie alternative che possano consentirgli accrediti ritenuti sufficienti presso la diplomazia occidentale. Con la distruzione dei tunnel il messaggio che si vuole fare passare è quello di combattere il terrorismo palestinese, ma se Israele potrebbe ringraziare per questa azione, è proprio dal fronte interno, nei movimenti più vicini al presidente egiziano, che possono venire i contraccolpi maggiori. La strategia è quindi di azzardo, perchè a Mursi potrebbe sfuggire il controllo dei gruppi contrari ad Israele, andando ad innescare un pericoloso cortocircuito proprio all'interno della compagine governativa.

venerdì 15 febbraio 2013

La prova del coinvolgimento dell'Iran in Siria

Il funerale di un generale delle Guardie rivoluzionarie iraniane, i cosidetti Pasdaran, l'ala militarista più fondamentalista del regime di Teheran, rischia di diventare un caso diplomatico. Il militare sarebbe rimasto ucciso in Siria, mentre stava coordinando il trasferimento di razzi ed altri armamenti dell'arsenale di Assad in Libano, durante il raid aereo compiuto dall'aviazione militare israeliana del 30 gennaio. Questa versione è quella presentata dal portavoce dell'Esercito siriano libero, Fahd al Masri, che ha affermato che il generale stava agendo, nel trasferimento delle armi, per conto delle forze armate iraniane. Se ciò corrispondesse al vero, come numerosi osservatori sospettano, la posizione iraniana sarebbe diventata difficile, perlomeno sullo stesso piano di quella israeliana, tanto contestata da Teheran, al punto di minacciare ritorsioni contro Tel Aviv per l'azione compiuta sul territorio del migliore alleato dell'Iran: la Siria. Nella versione ufficiale, accompagnata dalla solita retorica del regime, che incolpa della morte del generale i mercenari ed i sostenitori del regime sionista, il militare sarebbe deceduto martedì scorso ed il nome fornito dalla televisione iraniana di lingua inglese, Press TV, è stato quello di Hassan Shateri, mentre l'Ambasciata iraniana a Beirut a fornito il nominativo di Khoshnevis Husam. In realtà si tratterebbe della stessa persona, in quanto il nome fornito dalla sede diplomatica dell'Iran in Libano, sarebbe il nominativo di copertura utilizzato per ricoprire a Beirut il ruolo di presidente della Commissione iraniana per la ricostruzione del Libano, una associazione fondata da Teheran dopo il conflitto combattuto tra Israele ed Hezbollah nell'estate del 2006, identificata come la struttura incaricata di fornire gli estremisti libanesi di armi. La vicenda costituirebbe così la prova del coinvolgimento, sempre negato, della Repubblica islamica iraniana, nella guerra civile siriana al fianco di Assad, per la verità un segreto niente affatto tale. I sospetti dell'attivismo iraniano nella guerra in corso in Siria, sono stati, peraltro sempre suffragati, dall'azione diplomatica di Teheran, tesa a preservare il governo in carica, perchè punto chiave nella strategia della politica internazionale dell'Iran. Esiste anche un precedente che ha coinvolto 48 membri dei Pasdaran, presi in ostaggio dai ribelli siriani, ma identificati dalle fonti iraniane come pellegrini. La vicenda, comunque, alzerà ancora di più il livello dello scontro sotterraneo, mai chiaramente ammesso da ambo le parti, tra Israele ed Iran, che si innesta nel contronto armato ancora da più tempo in corso tra i due stati per la questione del nucleare iraniano. Dal punto di vista internazionale, invece, la conferma del coinvolgimento diretto dell'Iran nella guerra siriana, non rappresenta una novità, se non per le potenziali conseguenze che Teheran potrà potenzialmente patire in termini di censura diplomatica, nel caso l'ONU intenda procedere in questo senso.

giovedì 14 febbraio 2013

Seul risponde a Pyongyang

Dopo il test nucleare nordcoreano, Seul ha risposto con il lancio di missili da crociera, durante una esercitazione. La gittata di questi missili consente il raggiungimento di qualsiasi obiettivo nella Corea del Nord, avendo un raggio massimo di azione di quasi 1.500 chilometri, che equivale circa al doppio della lunghezza dell territorio nordcoreano. Lo scopo dell'esercitazione è duplice: da una parte vi è un motivo di ordine internazionale, consistito nell'evidenziare a Pyongyang la capacità di fuoco sudcoreana, peraltro ben conosciuta, dall'altra parte l'atto è stato quasi obbligato da ragioni interne, per mostrare ad una popolazione allarmata, le capacità difensive nazionali e la disposizione della propria forza armata alla difesa della nazione. Per altro, dal punto di vista internazionale vi è un significato ancora ulteriore, oltre al segnale diretto verso Pyongyang, ed è quello inviato alla comunità internazionale, comunque già molto sensibile al problema. Seul sta dicendo in modo chiaro di essere pronto ad intraprendere azioni militari sia in risposta al test nordcoreano, che contro eventuali minacce provenienti dalla stessa parte settentrionale della penisola della Corea. Anche la tempistica scelta per fare presente al mondo intero della disponibilità di tali armi missilistiche, avvenuta in un momento di massima tensione nella regione, aggiunge motivi di preoccupazione per il panorama internazionale. Contemporaneamente le forze armate sudcoreane hanno svolto quattro giorni di esercitazioni congiunte con gli Stati Uniti, che mantengono la presenza di 28.500 militari, da impiegare nella malaugurata ipotesi di un attacco proveniente dalla Corea del Nord. Questa attività militare ha provocato la precisazione di Pyongyang, che pur ribadendo la propria capacità a fare fronte ad eventuali attacchi esterni, ha insistito sul bisogno del rafforzamento del proprio deterrente nucleare, più che altro contro gli USA, che guidano le forze ostili al paese nordcoreano. Siamo quindi di fronte ad un soggetto che non solo conferma la propria appartenenza al club nucleare, ma che ribadisce la propria necessità ad ampliare il proprio arsenale: una situazione ben diversa da quella dell'Iran, dove il governo, ufficialmente, ammette soltanto richerche nucleari ad esclusivi fini pacifici. In entrambi i casi si è adottato lo stesso mezzo di dissuasione, le sanzioni, che pur avendo peggiorato notevolmente la condizione di entrambi gli stati, non hanno sortito gli effetti desiderati. Con la fine della guerra fredda la proliferazione nucleare ha avuto un incremento che provoca, non più crisi globali ma crisi regionali, moltiplicando i potenziali conflitti. Resta il fatto che nessuno, se non qualche paese arabo, condanna Israele quale possessore di ordigni atomici ed analogamente neppure Cina, India e Pakistan ricevono censure per avere nel proprio arsenale bombe nucleari. Se la Corea del Nord può essere pericolosa, cosa dire allora di un paese come quello pachistano, dove esistono, spesso anche negli apparati governativi, tendenze collimanti con il radicalismo islamico. Ed in ultima analisi quale è il diritto di possedere tali ordigni di USA, Francia Inghilterra e Russia? La verità è che non si è fatto abbastanza per mettere al bando le armi atomiche sia dalle nazioni principali che dagli organismi internazionali. Accettare come legittimo il possesso di questi armamenti per Washington e non per Pyongyang, ha certamente delle basi relative valide, ma non ne ha in senso assoluto.

mercoledì 13 febbraio 2013

Per l'Africa le attenzioni dell'Iran

L'Africa diventa sempre più centrale nelle strategie delle potenze legate al radicalismo islamico. L'Iran e lo Yemen, avrebbero, secondo gli osservatori delle Nazioni Unite, fornito armi alla milizia islamica Al Shabab, presente in Somalia e nemica del governo in carica. D'altro canto Teheran ha però finanziato per ben 43 milioni di dollari il paese africano, da destinare alla lotta alla fame. Va specificato che il rifornimento delle armi è avvenuto in violazione dell'embargo di cui la Somalia è destinataria e che ha suscitato più di una protesta proveniente dagli ambienti governativi, che non possono rifornirsi di materiale adeguato per combattere proprio le milizie islamiche. Alla luce di questi sviluppi l'Iran ha assunto, quindi, una condotta non univoca con il potere legittimo somalo, perseguendo una doppia strada che significa soltanto la ricerca assoluta del mantenimento dell'influenza sull nazione, qualunque sia, alla fine, la parte prevalente. Per Teheran l'influenza sulla Somalia, potrebbe rientrare in un quadro più ampio di controllo sia della costa del paese, importante via di transito marittimo commerciale, che come porta di ingresso verso il canale di Suez. Del resto esiste un rapporto delle Nazioni Unite fin dal 2006, che denuncia l'appoggio militare iraniano ai movimenti islamisti da cui è scaturito Al Shabab. Il rovesciamento delle fortune militari di Al Shabab, ad opera del Kenya, che non gradisce lo sconfinamento nel suo territorio delle milizie islamiche e per la reazione del governo di Mogadiscio, anche per proteggere l'attività delle Organizzazioni internazionali contro le carestie, ostacolate dai radicali islamici, hanno obbligato l'Iran ad un comportamento più duttile per essere accettato dal governo somalo. Ma le attenzioni del regime degli ayatollah per il continente africano è più esteso che alla sola Somalia. Sono, infatti, altri tre i paesi dove sono state inaugurate sedi diplomatiche iraniane: Gibuti, dove esiste una grande concentrazione di militari USA per la presenza del comando americano per l'Africa, il Sud Sudan, la nazione più giovane del mondo, nata dalla scissione con il Sudan, a maggioranza cristiana e ricca di giacimenti petroliferi ed il Camerun. Teheran, oltre a perseguire una politica che favorisca la parte islamica scita, spesso coincidente con i movimenti più estremi e violenti, sta attuando, di pari passo, in Africa, ma non solo, una azione diplomatica che mira a trovare nuovi contatti, in modo da potere rompere gli effetti sempre più pesanti delle sanzioni a cui viene sottoposta per la questione del nucleare. La scelta cade su nazioni chiaramente non allineate, che possano a loro volta sfruttare vantaggi, sopratutto di natura economica, intrecciando nuovi legami diplomatici. Resta però una caratteristica negativa dall'azione iraniana, che potrebbe dare seguito a nuove censure, sia dall'ONU, che dagli USA: le ripetute violazioni all'embargo sulla fornitura di armi, che riguarda ben sette nazioni africane (Repubblica Democratica del Congo, Costa d'Avorio, Eritrea, Liberia, Libia, Somalia e Sudan) e che Teheran avrebbe infranto con invii effettuati attraverso la terraferma. In alcuni casi questi traffici hanno anche scatenato le repressioni violente, per altro mai ammesse, di Israele e degli stessi USA, che hanno bombardato i convogli destinati a formazioni islamiche estremiste, con azioni dal cielo.

martedì 12 febbraio 2013

La Corea del Nord ha eseguito il test nucleare

La Corea del Nord ha ufficializzato che l'esperimento nucleare, fonte di molte tensioni internazionali, è riuscito grazie ad un dispositivo di nuova concezione, con caratteristiche di minore peso, nonostante contenesse un maggiore quantitativo di esplosivo. Il test nucleare, secondo le fonti ufficiali, non avrebbe causato alcun danno all'ambiente. Il fatto ha scatenato la reazione immediato delle Nazioni Unite, che mediante il suo Segretario generale, Ban Ki Moon, ha condannato l'accaduto invitando il Consiglio di sicurezza ad assumere misure appropriate per sanzionare l'esperimento. L'atteggiamento sprezzante di Pyongyang, che ha insistito sulla propria linea, nonostante gli appelli e le condanne della comunità internazionale, è sentito dalla platea diplomatica come un vero e proprio atto di sfida. Il leader nordcoreano era stato sollecitato a non proseguire sulla strada della nuclearizzazione militare del paese, come base per instaurare un dialogo fondato sulla reciproca fiducia, con i vicini regionali. L'atto di sfida, che in verità era dato per sicuro nonostante la speranza che non venisse attuato, apre definitivamente a possibili nuovi scenari ed equilibri regionali, che saranno, comunque, contraddistinti da una fase molto probabile di forte instabilità. La prima conseguenza sarà l'inasprimento delle sanzioni, provvedimento che metterà ancora più in difficoltà una nazione alla fame. La seconda sarà il peggioramento ulteriore dei rapporti con la Cina, che con questo test è stata sfidata apertamente, malgrado gli avvisi ripetuti di Pechino a desistere dai piani nucleari di Pyongyang. Il grado di peggioramento dei rapporti tra i due stati non è prevedibile con sicurezza, si può andare da un semplice taglio ai fondamentali aiuti provenienti dalla Repubblica Popolare Cinese, fino alla rottura totale dell'alleanza. Questa eventualità rappresenta lo scenario peggiore, per la Corea del Nord significherebbe il più assoluto isolamento nel mondo, con ricadute quasi certe sulla stessa esistenza del regime. Ma ciò potrebbe anche provocare reazioni inconsulte, attuate senza il filtro di Pechino. Anche perchè la terza conseguenza che si attuerà come risposta al test nucleare sarà l'intensificazione delle manovre militari congiunte tra USA e Corea del Sud e forse anche del Giappone. A quel punto la Corea del Nord si sentirà circondata e vorrà mostrare i muscoli dando luogo ad una escalation di difficile previsione. Ma anche senza questo possibile confronto militare, che la Cina non gradirebbe perchè troppo vicino al suo territorio, sia marino che terrestre, il raffreddamento con Pechino rappresenta l'elemento più importante da analizzare. Se la condanna della Cina è scontata, come conseguenza ai tanti appelli disattesi ed in coerenza con il voto favorevole dato nella sede del Consiglio di sicurezza dell'ONU, fatto, peraltro, niente affatto consueto, Pyongyang perde in maniera molto rilevante la propria autonomia economica, dipendente in larga parte da Pechino. In questo caso l'implosione del regime diventa un fatto altamente probabile. La carenza alimentare potrebbe spingere masse di persone, ormai incontrollate, verso le opposte frontiere di Corea del Sud e Cina, creando una emergenza umanitaria di grande rilevanza. Questo aspetto potrebbe però essere anche pilotato da Pyongyang come ritorsione al regime sanzionatorio a cui verrà sottoposto il paese. In entrambi i casi si aprirà un problema ancora maggiore rispetto alla situazione attuale, circa la presenza di un fattore di così forte destabilizzazione della regione, rappresentato proprio dallo stato nordcoreano. Nel passato i tentativi di riunire le due Coree non erano ben visti sopratutto da Pechino, che temeva, non tanto di perdere un alleato di poca importanza strategica, quanto di incrementare un concorrente economico come la Corea del Sud. Tuttavia le attuali condizioni geopolitiche fanno propendere, per la Cina, la preferenza per una situazione di maggiore stabilità, sopratutto alle sue frontiere, nell'ottica di una maggiore facilitazione della propria attività commerciale. Se questo è vero non è però detto che la riunificazione delle due parti della penisola coreana sia l'unica soluzione possibile. Pechino potrebbe optare, al fine di mantenere Pyongyang nella propria sfera di influenza, ad un passaggio di potere in modo da rendere la Corea del Nord più funzionale ai suoi scopi, quasi uno stato satellite; in questo senso soltanto la Cina, per il grado di penetrazione nel chiuso stato comunista dinastico, potrebbe riuscire nell'intento. La situazione attuale si presente, comunque, in un continuo divenire difficile da prevedere con certezza a causa delle tante variabili presenti nella vicenda.

lunedì 11 febbraio 2013

L'incertezza del conflitto siriano potrebbe obbligare Israele ad un attacco militare

La minaccia più immediata per Israele è il conflitto che sta provocando la dissoluzione della Siria. La grande eterogeneicità della composizione delle forze che stanno combattendo contro Assad, con visioni anche diametralmente opposte tra di loro e quindi potenzialmente avversarie, determina profonda incertezza al confine con il paese israeliano. Comunque, quale sia il destino di una guerra ancora tutto da decidere, per Tel Aviv non si profila una soluzione congeniale. Da una parte il regime di Damasco, profondamente legato ai nemici di Israele, Iran ed Hezbollah, con i quali è in debito per gli aiuti forniti, in caso di vittoria, potrebbe vedersi presentare un conto costituito da azioni contro il paese israeliano, dall'altra parte, nelle forze ribelli, stanno emergendo sempre più due matrici confessionali in concorrenza tra di loro, si tratta di gruppi di opposizione sunniti nemici dei salafiti al potere e gruppi jihadisti provenienti dall'Iraq, che si definiscono sciti e quindi, presumibilmente sostenuti da Teheran. Per entrambi, però, Israele resta un nemico da colpire. L'azione di questi gruppi ha come teatro le alture del Golan, territorio immediatamente confinante con Israele. Una delle ipotesi fatte dagli analisti è che colpire la nazione israeliana potrebbe fare accrescere il prestigio tra le varie fazioni che si oppongono ad Assad. Vi è poi la questione degli arsenali di armi chimiche, che preoccupano pesantemente Tel Aviv; nei giorni scorsi un attacco israeliano ha già colpito un convoglio di armi destinato ad Hezbollah, scatenando le minacciose reazioni di Siria ed Iran a cui non vi è stato, per ora, seguito. Le forze armate israeliane, del resto, sono da tempo impegnate in manovre militari per evitare attacchi a sorpresa provenienti dal territorio siriano. Nel frattempo la guerra civile in corso in Siria assume destini sempre più incerti: se fino a poco tempo fa la sorte di Assad pareva sicuramente segnata, gli ultimi sviluppi hanno indicato una situazione meno definita. Le diserzioni dall'esercito regolare, che avevano assunto una dimensione elevata, si sono arrestate e l'offensiva dei ribelli contro la roccaforte del regime, Damasco, hanno avuto risposte adeguate, rendendo, almeno per il momento, la capitale inespugnabile. Israele potrebbe così cercare, mediante un attacco armato in grande stile, di prevenire, una volta per tutte, un attacco di cui potrebbe essere vittima proveniente dalla Siria. In questo momento il nemico non è quindi l'esercito regolare. ma formazioni ribelli occupanti le zone a ridosso della zona di confine. L'eliminazione di questi gruppi consentirebbe a Tel Aviv di scongiurare il pericolo dei traffici di armi e, nello stesso tempo, di evitare di essere nel mirino di formazioni fondamentaliste. Inutile dire che ciò andrebbe a costituire un favore ad Assad, che potrebbe vedere arrivare un aiuto insperato. Tuttavia una mossa del genere da parte dello stato di Israele potrebbe aprire una vasta zona di instabilità compresa tra la riva del Mediterraneo fino all'Iraq, paese di provenienza di diversi combattenti. In una visione più ampia, quello che si teme è che dalla scintilla provocata da un intervento militare di Israele, si determini lo stravolgimento stesso di alcuni stati in preda a forti tensioni opposte, che si materializzano nell'eterno confronto tra sciti e sunniti. Quello che Tel Aviv non sfrutta è un dialogo con gli stati sunniti, che dovrebbe sfociare in una qualche forma di alleanza. Ma senza la definizione dello stato di Palestina questa strada è impraticabile e ad Israele non resta altra soluzione che la strada delle armi per difendersi dai suoi nemici. Al contrario con la risoluzione del problema della Palestina, con la creazione dello stato palestinese ed il reciproco riconoscimento, l'apertura della porta diplomatica presso i paesi sunniti sarebbe una realtà, che determinerebbe la fine dell'isolamento israeliano e la possibilità di intraprendere soluzioni alternative all'uso della forza.

Le dimissioni del Papa

Benedetto XVI ha annunciato che lascerà il soglio di Pietro il 28 febbraio. Si tratta di un evento di portata storica, che non accade dal medioevo, e comunque mai successo con dimissioni causate da motivi di salute, come ammesso dalla stesso Joseph Ratzinger. La pubblica ammissione di non essere più all'altezza del proprio compito, fa di Benedetto XVI un personaggio caratterizzato da estrema responsabilità verso il proprio ruolo, preoccupato per le sorti della chiesa cattolica, che sta attraversando un momento particolare al proprio interno. Va detto che, nonostante il giusto stupore per la notizia, la possibilità delle dimissioni era già stata ventilata dallo stesso pontefice fin da due anni prima, quando inquadrava come un dovere lasciare la carica qualora non si fosse più sentito nella più completa disponibilità fisica e psichica. La decisione non deve essere stata comunque facile, perchè le pressioni per non compiere il passo devono essere state molto pesanti. A contribuire alla scelta di lasciare il soglio pontificio potrebbero avere influito anche le vicende del recente scandalo legato alle lotte di potere all'interno dello stato Vaticano. L'elezione di Benedetto XVI era stata vista come una tappa di passaggio, dopo il lungo pontificato di Giovanni Paolo II, che potesse permettere alla chiesa romana un periodo di assestamento, dopo un Papa di così grande spessore. Ratzinger, uomo mite e grande studioso, ha cercato di mediare tra le varie parti della chiesa, tra le più conservatrici e quelle più moderniste, anche in maniera energica, cercando di focalizzare aspetti importanti per la vita dei fedeli, come la questione del lavoro. Il conclave che si svolgerà presumibilmente da marzo, dovrà trovare, per eleggere il successore di Benedetto XVI, una sintesi non facile da raggiungere, anche se le manovre tra le varie fazioni della chiesa cattolica saranno già, probabilmente, cominciate. L'assetto dei cardinali che compongono il collegio dal quale uscirà il nuovo papa è caratterizzato ancora dall'impronta tradizionalista lasciata da Giovanni Paolo II, le possibilità che si affermino tendenze anti conciliari sono concrete. Vi sono, poi, le istanze delle chiese emergenti e delle comunità che subiscono le persecuzioni islamiche, che potrebbero incidere notevolmente sulla scelta del 266° papa di Roma. Occorre vedere come saprà reagire il corpo ecclesiale alla domanda di modernità lanciata dalla maggioranza dei fedeli, ma spesso lasciata inascoltata per abbracciare posizioni neoconservatrici. Mentre nell'occidente più ricco si assiste ad una diminuzione dei fedeli, che si allontanano da una istituzione che avvertono sempre più distante, nei paesi ex socialisti ed in generale in quelli più poveri, di matrice cattolica, vi è un incremento della religiosità popolare, anche per un impegno sempre costante dell'assistenza da parte del clero più basso. Ma nelle alte gerarchie prevale un istinto di conservazione a mantenere divisa la spiritualità dalle cose terrene. Questa sorta di protezione ha favorito la crescita di posizioni sui grandi temi ancora arretrate rispetto alla società civile. Il nuovo papa, qualunque sia la sua impostazione, dovrà, per forza di cose, affrontare tutte le questioni di grande rilevanza che il pontificato di Benedetto XVI lascia in sospeso, ma dovrà, sopratutto, sapere riportare l'istituzione vaticana al livello delle grandi emergenze mondiali, sia teoriche che pratiche, rispetto alla posizione attuale che appare sempre troppo distante e permeata soltanto di grande spiritualità.

L'Iran potrebbe aprire a nuovi negoziati

Il discorso del presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, in occasione dell'anniversario della rivoluzione islamica del 1979, ha puntato sul risveglio dell'orgoglio nazionale ed alla difesa della dignità dell'Iran, con un elevato grado di enfasi e retorica. L'organizzazione delle marce, tenute nelle varie parti del paese, per festeggiare il 34° anniversario della caduta dello Scià di Persia, ha registrato, secondo le fonti governative, un grande numero di adesioni, che serviranno per testimoniare al mondo l'unità del paese. Che una gran folla, sopratutto a Teheran, abbia manifestato è vero, i manifestanti, dotati di bandiere iraniane, hanno gridato slogan a favore del regime e contro i nemici internazionali dello stato: USA ed Israele. La ricorrenza è stata anche l'occasione per i militari di sfoggiare i nuovi armamenti, usati anch'essi come strumento di coesione della cittadinanza. In realtà i manifestanti scesi in piazza non rappresentano l'intero paese, che sulle questioni interne patisce un impoverimento economico assoluto, che ha colpito prima di tutto la classe media, che ha visto, a causa delle sanzioni, ridurre il proprio tenore di vita. Gli espedienti del governo di Teheran per aggirare le sanzioni, sopratutto grazie alla vendita del petrolio iraniano alla Cina, non hanno permesso di recuperare reddito a causa delle politiche governative che hanno indirizzato i guadagni verso altri scopi. Tuttavia, grazie alle repressioni degli oppositori, ed un consenso guadagnato in maniera non sperata, proprio a causa dell'isolamento internazionale per la questione dell'atomica, il governo iraniano rappresenta la maggioranza dei cittadini del paese, mentre le minoranze politiche, rese impotenti dalle persecuzioni, hanno assunto un atteggiamento di rassegnazione, che contraddistingue, infatti, chi non appoggia con entusiasmo il governo in carica. Ma i problemi del paese restano evidenti ed il governo centrale dispone di sempre minori mezzi per combattere il malcontento derivante dalla depressione economica. I mezzi retorici, che ricalcano schemi sempre usati in casi come questo, possono permettere di fornire al mondo una immagine di untà, garantita solo dalla mobilitazione dei sostenitori più accesi. Tra le righe del discorso del presidente iraniano, si è potuto leggere, però una apertura a nuovi negoziati con gli USA, sulla materia del nucleare. Il discorso, seppure infarcito di minacce verso Washington, ha sottinteso che, a determinate condizioni, le trattative possono ripartire. Il fatto costituisce una svolta nell'atteggiamento iraniano, che può significare essenzialmente due cose, peraltro opposte tra di loro: l'impossibilità di arrivare alla costruzione della bomba o il vicino raggiungimento dell'obiettivo. In entrambi i casi, vi è comunque, la necessità di attenuare le sanzioni internazionali, i cui effetti hanno provocato una inflazione ormai insostenibile. Ragionevolmente pare, però, che l'ipotesi della reale capacità di costruire l'ordigno atomico non sia avallata dalle pur scarse notizie a disposizione. Nonostante la capacità di arrichire l'uranio degli iraniani si a assodata, l'intera tecnologia necessaria non sarebbe a disposizione di Teheran. Se ciò fosse vero, ed è la cosa più probabile, la tattica di Obama si sarebbe rivelata vincente, ottenendo un duplice risultato: costringere l'Iran a scendere a patti ed avere bloccato Israele dalle tentazioni di attacco militare. Resta chiaro che se Teheran vorrà riprendere i negoziati, dovrà rivedere il proprio atteggiamento di chiusura verso gli ispettori, aprendo tutti i siti che ha finora tenuto sigillato. Soltanto questa evenienza dirà se le intenzioni iraniane sono sincere o se si tratta dell'ennesimo tentativo per guadagnare tempo prezioso.

venerdì 8 febbraio 2013

Le primavere arabe si ripeteranno?

Lo schema delle primavere arabe mostra tutti i suoi limiti. La presenza di un dittatore, con poteri immensi, era la prima costante, in tutti i casi verificati ed anche in quello siriano la situazione è analoga; la seconda costante era che non esisteva una forza unica alternativa, capace di rovesciare il potere, era necessaria l'unione di più forze, che, tuttavia, prese singolarmente, erano addirittura opposte tra di loro. Il legame che manteneva uniti i movimenti che formavano la ribellione era unicamente, l'intenzione di rovesciare la dittatura. Il carattere di urgenza di popoli esasperati e spesso alla fame non ha permesso la necessaria elaborazione di un piano organico, sopratutto fondato su aspetti legali condivisi e fondanti, che sapesse prevenire una caduta generalizzata, in alcuni casi, ancora peggiore dell'oppressione da cui le nazioni arabe si erano liberate. Si è arrivati così ad un risultato che accomuna i destini di tutti i paesi in cui le primavere arabe hanno fatto il loro corso. Dai risultati elettorali è uscita, in modo omogeneo, la vittoria dei partiti confessionali, spesso espressione di un islam tutt'altro che moderato, incapace di conciliare la vittoria delle urne con i diritti delle minoranze politiche. La prevaricazione dei vincitori, giustificata con leggi costituzionali elaborate a loro consumo ed ispirate alla legge islamica, ha portato alla naturale reazione di quei movimenti che si erano impegnati per una rinascita politica, attraverso l'applicazione dei diritti civili prima soppressi, poi di nuovo soffocati da provvedimenti liberticidi, questa volta elaborati su base religiosa anzichè politica. Era impensabile che persone impegnate direttamente nelle piazze avessero interrotto la loro azione solo per la caduta di un regime sostituito da un'altra forma illiberale; il processo era ormai avviato ed era inarrestabile. Piuttosto resta l'errore di fondo che accomuna i partiti confessionali al potere nei paesi arabi, l'assoluta mancanza della capacità di elaborare un comportamento alternativo all'assolutismo religioso. Se poi si aggiunge che la situazione economica, che occorre ricordarlo molto bene, ha costituito la scintilla che ha provocato la deflagrazione delle ribellioni, non è cambiata con l'avvento dei governi eletti, ecco che il mix di cause si ripresenta tale e quale come si è presentato con le dittature al potere. Del resto anche i regimi dittatoriali all'inizio avevano i loro sostenitori che si battevano, anche fisicamente, contro gli oppositori; ora sono cambiati gli schieramenti, da una parte i sostenitori dei partiti vincenti dalle urne, connotati da un islamismo radicale, sono fortemente motivati dall'investitura che, credono provenga da Dio, anzichè dal popolo, ma che non sono che una piccola parte della società e non rappresentano in alcun modo la totalità di quelle persone che pure hanno contribuito a renderli vittoriosi, dall'altra parte i cosidetti laici, perchè non si riconoscono in partiti a regime confessionale, ma che speravano in una forma di governo, che aderisse alle regole democratiche classiche. Il confronto, pur essendo in corso da tempo, entra in una fase delicata, perchè ormai riguarda Tunisia, Libia ed Egitto, tra i paesi che sono riusciti a costruire un evento elettorale, e Siria dove la guerra civile rischia di trasformarsi direttamente da battaglia contro Assad a conflitto tra estremisti religiosi e movimenti partitici democratici. L'occidente, affascinato dalle rivoluzioni contro le dittature, non ha saputo, al momento giusto, elaborare un piano di aiuto concreto per sostenere l'affermazione della democrazia compiuta e non soltanto il verificarsi di un mero atto dell'esercizio del diritto di voto, a cui è mancato tutto il relativo seguito. I paesi arabi sono così daccapo, senza avere una parvenza di via di uscita da una impasse difficilmente risolvibile, dove l'ipotesi più verosimile è una ripetizione del corollario di violenze, questa volta perpetrato dai nuovi governi, i quali, detto per inciso, usano le identiche giustificazioni delle repressioni di chi li ha preceduti, rischiando di fare altrettanto identica fine.

giovedì 7 febbraio 2013

Egitto ed Iran si incontrano a Il Cairo

La visita egiziana del presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad ha avuto un notevole risalto sui media dell'Iran, a cui non è stata corrisposta pari esaltazione in Egitto. Ma Teheran ha bisogno di enfatizzare ogni possibile occasione che faccia uscire il paese dal proprio isolamento ed un incontro con una nazione simbolo dell'islam sunnita può rappresentare un valore molto alto in questa ottica. L'occidente, intanto, resta alla finestra, seguendo con attenzione ed anche apprensione gli sviluppi di un incontro bilaterale che potrebbe spostare equilibri consolidati nel confronto religioso tra islam scita e sunnita, che, però, può travalicare gli aspetti puramente confessionali ed abbracciare quelli politici. Comunque la stampa iraniana ha qualche giustificazione per definire storico l'incontro de Il Cairo, dalla rivoluzione di Khomeini, dal 1979, un presidente dell'Iran si trova, per la prima volta nella capitale egiziana, ed il colloquio avuto con il suo omologo Mursi, in attesa dell'apertura del vertice dell'Organizzazione della cooperazione islamica, ha avuto, come tema centrale, le relazioni bilaterali tra i due paesi. Lo scopo di Mahmud Ahmadinejad è quello di rafforzare le relazioni tra i due paesi, in realtà da riprendere dall'inizio, con l'intenzione di trovare delle convergenze comuni sulle questioni regionali ed internazionali. Per l'Iran, che sta perdendo il principale alleato nell'area, la Siria, diventa importante, se non vitale, trovare un nuovo canale, che possa potenzialmente, sostenere la sua politica contro Israele e rompere l'accerchiamento in cui si troverebbe con la caduta di Damasco. Se una intesa completa con Teheran pare impossibile, l'Egitto, incontrando in modo formale il presidente iraniano su questi temi, manda un chiaro messaggio agli USA ed allo stesso Israele, praticando una politica dell'equilibrio precario, fatta di virtuosismi pericolosi nelle relazioni internazionali. Ciò è ancora più vero se rapportato alla politica interna egiziana fortemente instabile. I sentimenti dell'esercito sono noti, gli ambienti delle forze armate prediligono un approccio politico più laico e nelle relazioni diplomatiche rimpiangono gli stretti rapporti con gli USA, che permettevano un livello avanzato degli armamenti ed una eventuale relazione tra Il Cairo e Teheran rischia di compromettere ulteriormente il rapporto con Washington. Anche gli ambienti religiosi non vedono di buon occhio uno sviluppo con il principale paese scita, il gran imam di Al Azhar, Ahmed El Tayyeb, vede come una intromissione indebita, il tentativo iraniano di inserirsi nelle nazioni sunnite, avvertendo i possibili pericoli del proselitismo sciita in un Egitto che, ultimamente, ha imboccato posizioni fondamentaliste. L'imam egiziano ricorda con preoccupazione le veementi proteste della minoranza sciita in Bahrein, temendo una ripetizione nel paese delle piramidi, già condizionato da grande instabilità, fomentate proprio dall'Iran. Inoltre il rapporto con Teheran non è apprezzato per le discriminazioni continue a cui è sottoposta la minoranza sunnita nel paese iraniano. Vi è, poi, un aspetto tutt'altro che secondario che riguarda il rapporto, molto conflittuale, dell'Iran con i paesi del Golfo Persico, vicini all'Egitto: il ministro degli Esteri egiziano, Kamel Amr, ha messo in chiaro che la stabilità e la sicurezza delle nazioni del Golfo è una frontiera che non deve assolutamente essere valicata, esclusivamente su questa condizione di partenza si possono sviluppare le relazioni tra i due paesi. Resta da notare come la fase storica attuale, sia per le relazioni tra i paesi arabi molto più fluida che in passato, il tentativo di avvicinamento tra Egitto ed Iran, segnala un nuovo fattore nello scenario diplomatico: il tentativo di Ahmadinejad di scardinare l'unità dell'area sunnita per aprirsi nuove possibilità, difficile, per ora che il tentativo abbia successo, ma l'avanzata dell'islamismo più radicale nei paesi della primavera araba, potrebbe determinare scenari completamente nuovi.

mercoledì 6 febbraio 2013

Provocazioni militari tra Cina e Giappone

Il pericolo di uno sviluppo imprevisto tra Cina e Giappone, per le isole Senkaku, si sta avvicinando sempre di più. Le scaramucce tra i due paesi stanno salendo di tono e finora non è successo nulla soltanto grazie alla freddezza degli equipaggi delle rispettive forze navali ed aeree. Gli ultimi casi riguardano una nave da guerra ed un elicottero giapponesi, entrati nei mirini di navi militari cinesi; il puntamento elettronico è ormai facilmente rilevabile dagli strumenti di cui sono dotati i mezzi da guerra moderni ed è ritenuto un atto ostile che va oltre la mera provocazione e che può causare una risposta preventiva. Tecnicamente quindi lo scontro a fuoco, da cui poteva divampare l'incendio, è stato molto vicino, ma in futuro, non è detto che una eventuale ripetizione dell'accaduto, non porti ad un fraintendimento o ad un malinteso, anche per lo stato di tensione senz'altro presente tra i militari delle due nazioni. Peraltro questo episodio rappresenta l'ultimo caso, conosciuto, di una serie sempre più lunga, con invasione di quello che il Giappone ritiene il proprio spazio aereo, inseguimenti di aerei militari ed arresti di equipaggi di pescherecci. L'ultima evoluzione della contesa sull'arcipelago delle Senkaku è la creazione, da parte del Giappone, di una forza navale riservata al controllo delle isole, formata da due portaelicotteri e coadiuvata dall'impiego di circa 600 uomini stanziati nell'arcipelago, che dovrà essere operativa entro tre anni. Nel mentre la Cina potrebbe, però, prendere delle contromisure per vanificare gli sforzi giapponesi di tutelare quello che considerano il proprio arcipelago, dando luogo ad una possibile escalation militare. L'aggravamento della situazione è maturato in un momento che pareva preludere ad una distensione diplomatica, per i segnali che provenivano da entrambe le parti, tuttavia le provocazioni avvenute hanno riportato lo scenario su tinte più fosche.

martedì 5 febbraio 2013

La Francia ha difeso il Mali per proteggere il Niger?

Vi è un'ottica particolare per leggere il significato dell'intervento francese nel Mali: proteggere il Niger dall'invasione islamica e di conseguenza, tutelare gli investimenti di Parigi nelle miniere di Uranio che sono nel territorio di Niamey. Una instabilità del Mali avrebbe grosse possibilità di allargarsi nel vicino Niger, quindi l'operazione nel paese maliano, oltre ai risvolti di politica internazionale, ne ha uno molto pratico di prevenzione contro attacchi analoghi a quello che si è verificato in Algeria, nell'impianto di produzione di gas di Amenas. Da solo l'esercito del Niger non può proteggere le installazioni presenti nel paese perchè dispone di soli 5.000 uomini, che dovrebbero presidiare gli 840 chilometri di frontiera con il Mali, senza alcun mezzo aereo ed elettronico per la sorveglianza della linea di confine. Il Niger è uno dei paesi più poveri del mondo, ma è il quarto produttore di uranio del mondo, ed è destinato a balzare al secondo posto entro sette anni. Il solo comparto dell'uranio rappresenta per il paese il 60% delle proprie esportazioni, tuttavia di tutta questa ricchezza resta ben poco al paese, circa 100 milioni di euro l'anno, che non permettono di elevare il tenore di vita della popolazione locale. Già nel periodo tra il 2007 ed il 2009, gruppi di indipendentisti tuareg, avevano scatenato una serie di attentati nel nord del paese, quello dove vi è la maggiore concentrazione di miniere, che era stata definita la guerra dell'uranio. Il malcontento, insomma, è presente e strisciante nel paese e può rappresentare un buon terreno di coltura per l'inserimento del fondamentalismo islamico, sulla base di uno sfruttamento delle materie prime nazionali che si eleva soltanto di poco dalle pratiche colonialiste. La Francia, che utilizza per la produzione del suo fabbisogno di energia elettrica ben 58 centrali atomiche, che producono il 78% del totale dell'elettricità consumata, preleva dal Niger, ex colonia francese, tra il 30 ed il 40 per cento dell'uranio consumato. La multinazionale Areva, di proprietà dello stato francese per l'ottanta per cento, gestisce direttamente ben due grandi miniere. Per Parigi, quindi, la stabilità della nazione nigerina risulta fondamentale e strategica per la propria economia. Ma non è solo la Francia ad interessarsi dell'uranio del Niger, anche la Cina, attraverso la China Nuclear Internazionale Uranium Corporation, gestisce una miniera, quella di Azelik, anche se è la più piccola del paese. Pechino però ha un maggiore sfruttamento del petrolio, grazie alla gestione del sito di Agadem, capace di una produzione di 2.000 barili al giorno. Gli investimenti cinesi hanno incontrato maggiormente il favore del governo, come in molte altre realtà africane, e ciò determinerebbe maggiori opportunità per Pechino nel futuro. Questa situazione potrebbe essere però fonte di scontro tra i due partner commerciali del Niger, intanto Pechino non ha collaborato alla difesa contro l'islamismo fondamentalista, se non con l'appoggio interessato tramite il parere favorevole alla risoluzione del Consiglio di sicurezza, che, in fin dei conti, ha permesso di sfruttare l'impegno militare francese a costo zero. Questo fatto non potrà passare sotto silenzio da parte di Parigi, che potrà presentare il conto sia alla Cina che al Niger. Nonostante ciò Parigi dovrà rivedere la politica economica nel paese africano, verosimilmente incrementando il gettito a favore di Niamey, sia per calmarne lo scontento del governo, sia per contrastare l'avanzata cinese nel paese e sopratutto per permettere di creare una maggiore diffusione del benessere tra la popolazione, che impedisca alle idee fondamentaliste di attecchire.

Nel Mali del nord è necessario sostituire l'economia criminale

Non rientra nelle intenzioni del governo del Mali trovare un accordo con i radicali islamici che hanno occupato il paese. La dichiarazione è ufficiale e proviene dal ministro degli esteri del paese africano, Coulibaly Hubert Tieman; la posizione del paese maliano è inconciliabile con coloro che hanno distrutto il processo democratico nella parte settentrionale del paese ed una pace con Al Qaeda nel Maghreb Islamico è quindi impossibile. Ma per evitare il ritorno dei jihadisti non può bastare solamente l'attuale fase militare, seppure vittoriosa, grazie all'appoggio determinante di Parigi. La gestione del periodo immediatamente successiva al conflitto è la più difficile perchè, oltre a mantenere il presidio del territorio, occorre analizzare e correggere le cause, che hanno portato alla sottrazione così veloce della sovranità nazionale. Se risulta essenziale un presidio armato sufficientemente attrezzato, formato, presumibilmente da una forza di caschi blu di origine africana, come auspicato dalla Francia, che impedisca nel breve periodo un ritorno immediato di Al Qaeda nel Maghreb Islamico, che avrebbe conseguenze terribili, sopratutto per la popolazione, la priorità nel lungo periodo è impiantare una economia che vada a sostituire l'insieme di traffici e contrabbando, che hanno permesso ai terroristi di conquistare la fiducia della popolazione, nelle prime fasi dell'invasione. La parte di territorio che era stata conquistata dai ribelli è contraddistinta da una povertà endemica all'interno di una conformazione geomorfologica che ha favorito un ampio sviluppo di un insieme di attività, che sono state definite come economia criminale. In effetti la ricchezza dei gruppi terroristici in questi pochi mesi di dominazione pare essere accresciuta in modo esponenziale, per avere assunto il controllo delle vie di passaggio, dove transitavano i migranti, la droga, il traffico di armi ed infine gli ostaggi occidentali, i cui riscatti pagati dagli stati di appartenenza consistevano in somme in euro a sei zero. Di tutti questi flussi di denaro per la popolazione locale restavano pochi spiccioli, che erano però somme molto alte se immesse in una economia di pura sussistenza. Il reclutamento nelle formazioni dei ribelli era pagato, infatti, dai 300 ai 600 euro al mese, stipendi quasi al pari dei precari occidentali, che permettevano un innalzamento immediato del tenore di vita. Si capisce allora come la penetrazione sociale, almeno iniziale, sia stata facilitata. L'instaurazione del regime del terrore dovuto alla applicazione integrale della sharia, avvenuto nella fase successiva ha raffreddato il rapporto della popolazione con Al Qaeda, tuttavia l'emergenza economica individuata dal governo del Mali resta una priorità da risolvere, per fare mancare a possibili ritorni dei radicali islamici, gli appigli con cui entrare in sintonia con il tessuto sociale. Non secondaria, poi, è anche la questione prettamente della sicurezza, del controllo territoriale e della lotta alla criminalità, che ha diverse ricadute anche sul piano internazionale. Sono, infatti, per primi ad essere interessati i paesi occidentali che si affacciano sul Mediterraneo affinchè sia stroncato il traffico di droga e di armi e la tratta degli esseri umani, che transitano nelle vie del deserto del Sahara, come altrettanto lo sono le organizzazioni internazionali ed umanitarie. Il Mali non possiede i mezzi per affrontare da solo tutte queste emergenze, che sono anche un investimento per l'occidente. La necessità di investimenti occidentali si scontra con lo stato di crisi delle economie più ricche, tuttavia se si vuole salvaguardare la sicurezza europea ed occidentale, occorre elaborare dei piani che assecondino la volontà del paese africano ad esercitare una sovranità completa sui territori del nord, che non deve essere soltanto militare ma sopratutto sociale.

lunedì 4 febbraio 2013

La Corea del Nord vicina al terzo test nucleare

Le linee guida illustrate nel fine settimana, durante un incontro del Partito dei Lavoratori della Corea del Nord, la formazione egemone nel paese, Kim Jong-un ha illustrato le linee guida per il rafforzamento delle strutture militari al fine di proteggere la sovranità nazionale. Secondo gli esperti il linguaggio criptico dei burocrati nordcoreani, significa che il temuto test nucleare di Pyongyang sarebbe imminente. Anche nella Corea del Sud si ritiene che i preparativi siano completati e che la Corea del Nord stia per fare esplodere il suo terzo ordigno nucleare, dopo quelli del 2006 e del 2009. Per Seul la decisione su come affrontare la questione è ormai di natura politica. Ma nel frattempo sono iniziate le manovre navali congiunte con gli Stati Uniti, mentre sulla terra anche gli eserciti dei due paesi stanno effettuando esercitazioni comuni. Si tratta della risposta, in tempo praticamente reale, alle intenzioni nordcoreane, che costituisce una prova di forza destinata ad aumentare una tensione già di per se molto elevata. Ma per Pyongyang il test nucleare è diventato un passo obbligato, sopratutto in risposta alle sanzioni, che colpiscono un paese già duramente provato economicamente a causa della sua arretratezza, imposte dal Consiglio di sicurezza per il lancio di un missile, che ufficialmente doveva mettere un satellite in orbita, mentre in realtà era il test per un razzo a lunga gittata. Da valutare le reazioni di Pechino, sia alle esercitazioni militari, mai troppo gradite, che alla perseveranza della Corea del Nord, già ripresa nei canali ufficiali e non dalla Repubblica popolare cinese. Altrettanto problematica potrebbe essere la gestione della situazione al momento dello scoppio dell'ordigno, con la Corea del Nord praticamente accerchiata, sia dal mare, che dalla presenza dei 28.000 marines americani attestati sul confine nel 38° parallelo. Per Obama la regione orientale è diventata preminente per i suoi risvolti economici e, pur mantenendo per scelta un basso profilo, sopratutto in sede diplomatica, la posizione americana è quella di non concedere alcunchè alle pretese di Pyongyang, sopratutto sul versante nucleare, posizione in cui Pechino ha dimostrato di essere d'accordo per avere accordato il proprio sostegno alle sanzioni ONU. Per la Corea del Nord potrebbe essere arrivato il fatidico momento di avere passato il segno, con un futuro immediato sotto stato di assedio, mentre nel lungo periodo, senza anche gli aiuti cinesi, il regime potrebbe implodere sotto se stesso.

Siria, Iran e Turchia condannano l'azione militare di Israele

Damasco rompe la prassi consueta di mantenere il silenzio dopo essere stata vittima di una azione militare israeliana. Tale comportamento, nel passato, è stato giustificato da atteggiamenti o azioni compiute in segreto e che risultavano inamissibili agli occhi del panorama internazionale e che non consentivano, quindi, di richiedere una censura pur giustificata. Ma la situazione interna, dove la guerra civile ha preso il sopravvento ed il regime di Assad si trova in grande difficoltà, autorizza il dittatore siriano ad annunciare rappresaglie, anche se dietro il bombardamento di Tel Aviv, vi era la presunta fornitura di armamenti e strumenti di controllo elettronici al gruppo estremista libanese Hezbollah. Nella situazione caotica della Siria, ogni cautela di tipo diplomatico viene abbandonata ed anzi, per convenienza, l'attacco contro il convoglio in territorio siriano, da parte della forza aerea di Israele, viene sfruttato per accusare Tel Aviv di seguire una strategia volta a destabilizzare il paese e spostare, quindi, l'attenzione dalle vicende interne a quelle estere. Insieme alle accuse sono arrivate anche le minacce di Assad, che ha affermato che l'episodio sarà seguito da una risposta di pari tenore. Si tratta di minacce a cui difficilmente seguirà una attuazione pratica, le condizioni dell'esercito siriano sono quasi allo stremo, anche se episodi disperati e fuori dalle logiche previsioni non possono essere escluse. Israele si è premunito da tempo contro le potenziali minacce provenienti dalla Siria, schierando le batterie antimissile "Iron Dome" al suo confine settentrionale. Di ben altra valenza, però, sono state le minacce iraniane: il Comandante del Corpo della Guardia Rivoluzionaria Islamica dell'Iran, il generale Mohammad Ali Jafari, ha espressamente dichiarato che l'attacco di Israele non potrà avere una risposta, perchè la ritorsione violenta è l'unico modo possibile per relazionarsi con Tel Aviv. Teheran usa il rapporto preferenziale con Damasco come mezzo per minacciare direttamente Israele, reo ufficialmente di tramare per una destabilizzazione della regione, attraverso la tattica di colpire la Siria. Se per Teheran è fondamentale sottolineare l'alleanza con la Siria, sopratutto agli occhi del mondo scita, è ancora più importante fare confluire nella maggiore quantità possibile l'indignazione dei paesi musulmani, per l'azione militare in territorio straniero di Israele, a proprio vantaggio, come paese capofila contro quella che lo stesso Mahmud Ahmadinejad, ha definito come l'entità sionista. Nella questione è molto importante la situazione di tensione, mai sopita, tra i due paesi, che ha raggiunto i livelli massimi da quando l'Iran pare vicino alla costruzione della bomba atomica, con la conseguenza di un potenziale intervento armato contro i reattori iraniani da parte dei bombardieri con la stella di David, per ora, fortunatamente, evitato, grazie all'azione di Obama. Resta il fatto che, sia la Siria, probabilmente insieme all'Iran ed Israele hanno compiuto degli atti contrari al diritto internazionale. Ma se quello di rifornire di armi, gruppi terroristici, stanziati in un paese terzo, il Libano, rappresenta già una gravità elevata, l'invasione di un territorio straniero con le proprie forze armate, senza una dichiarazione ufficiale, costituisce una violazione ancora maggiore. In questa ottica la dichiarazione del premier turco Erdogan, che ha definito l'operazione israeliana come terrorismo di stato, esplica in modo chiaro il sentimento internazionale, presente anche in alcuni paesi occidentali, che temono una escalation della pericolosa situazione regionale. L'atteggiamento della Turchia deve essere valutato in maniera tutt'altro che superficiale: ex alleata di Israele, Ankara ha praticamente interrotto i rapporti con Tel Aviv in seguito ai fatti che hanno riguardato una azione militare da parte delle forze armate israeliane su di una nave turca, quindi anche qui in regime di extraterritorialità, che portava aiuti umanitari nella striscia di Gaza. La Turchia, che è protagonista di un notevole exploit commerciale sia per le sue esportazioni verso i paesi asiatici di religione musulmana, sia per la presenza sul suo territorio di molte industrie europee, ha percorso, negli ultimi anni una strategia di affermazione internazionale tale da assumere sempre più rilievo nella regione ed oltre, assumendo, ad esempio un ruolo quasi di guida nei confronti di alcuni paesi che hanno vissuto la primavera araba. L'influenza turca verso una buona parte del mondo arabo è stata dovuta anche alla ragione che al potere vi è un partito di ispirazione islamica, che ha introdotto, sebbene in forma più blanda rispetto ad altre nazioni, elementi confessionali nella vita pubblica, ciò ha permesso di accrescere il prestigio e la considerazione dello stato della Turchia, che viene considerato da molte entità un possibile modello da seguire per conciliare la forma di governo democratica con l'Islam. L'azione israeliana ha così già determinato conseguenze niente affatto irrilevanti sicuramente su di una visione prospettica a medio lungo periodo, che gli effetti della distruzione del convoglio di armi per Hezbollah, potrebbero non riuscire a bilanciare. Quello che risulta più preoccupante nell'immediato è il possibile concretizzarsi della minaccia iraniana, che potrebbe dare luogo ad una situazione in cui uno scenario di guerra non risulta affatto improbabile: occorre considerare la situazione interna iraniana alla vigilia di un voto che non si preannuncia scontato, sopratutto per gli effetti delle sanzioni sull'economia e la condizione interna della società, che, tuttavia, pare appoggiare in massa la scelta nucleare dello stato. Per il governo in carica spostare l'attenzione dai temi nazionali a quelli internazionali, dove gode più consenso, potrebbe essere una strategia da percorrere anche andando incontro ad evoluzioni pericolose. Ancora una volta l'unica soluzione sarebbe pacificare la situazione siriana, con l'estromissione dal potere del dittatore Assad: si fermerebbe la carneficina provocata dalla guerra civile e Teheran resterebbe senza un alleato fondamentale e senza appigli per provocare Israele. Serve però un accordo tra USA e Russia, su di una soluzione che dia possibilmente uno sbocco pacifico alla crisi. Mosca pare però avere mutato la sua posizione, ammorbidendola, essendo conscia dell'impossibilità per Assad di uscire vittorioso dalla guerra civile. Il governo russo avrebbe già fatto le sue mosse con l'opposizione siriana, per potere mantenere la propria base navale di Tartus, unica nel mediterraneo per l'armata di Mosca, considerata di importanza altamente strategica.

venerdì 1 febbraio 2013

L'ONU potrebbe inviare i Caschi Blu nel Mali

L'ONU potrebbe decidere di inviare i caschi blu nel Mali; l'argomento sarebbe in discussione al Palazzo di Vetro di New York e potrebbe entrare nell'ordine del giorno del Consiglio di sicurezza. La decisione potrebbe essere presa anche se l'intervento francese, per liberare il paese africano dagli estremisti islamici, non fosse ancora concluso. Parigi ha mostrato di essere favorevole alla decisone, anche se ha espresso alcune perplessità circa il dispiegamento della forza di pace in una situazione non ancora del tutto stabilizzata. Questo perchè i caschi blu potrebbero essere obiettivo di attentati da parte delle ultime formazioni che oppongono resistenza. Ciò potrebbe determinare un intralcio allo svolgimento delle operazioni. Diverso il caso di un impiego con l'esclusivo scopo di mantenimento della pace in uno scenario liberato dai terroristi. Questa soluzione solleverebbe, almeno in parte, i francesi dai compiti seguenti ai combattimenti. In ogni caso per Parigi, una tale decisione sarebbe una vittoria sul piano internazionale e determinerebbe la fine dell'isolamento nell'impegno nel paese maliano, rappresentando un riconoscimento tangibile dell'operato eseguito, aldilà delle dichiarazioni di simpatia, che hanno seguito l'intervento. Tuttavia, paradossalmente, anche una decisione favorevole del Consiglio di sicurezza potrebbe non bastare senza l'avallo e l'appoggio dell'Algeria. La decisione dell'ONU, comunque, sarebbe il logico seguito alla risoluzione del Consiglio di sicurezza che riconosceva la pericolosità del fenomeno del terrorismo islamico nel nord del Mali, ma prevedeva l'invio di una forza armata soltanto alla fine del 2013. Si stima che il fabbisogno di uomini si aggiri su di un numero entro il raggio compreso tra le 3.000 e 5.000 unità, due sono le possibilità che si profilano: la prima una forza costituita da soldati provenienti da paesi non africani, senz'altro maggiormente preparati ed armati, ma forse, invisi alla popolazione, la seconda una forza formata da militari di origne africana, con il sostegno logistico delle nazioni Unite e, verosimilmente, istruttori occidentali; questa scelta, che gode dell'appoggio dell'Unione Africana e della Comunità degli stati dell'Africa Occidentale, pare, dal punto di vista diplomatico, più facilmente percorribile, anche se esistono dei dubbi sull'operatività di questi militari e sul rispetto dei diritti umani che potrebbero assicurare. Questo aspetto è molto sentito dalla comunità internazionale, che vuole risparmiare alla popolazione civile, eventuali nuovi soprusi, dopo quelli patiti dall'applicazione della sharia da parte dei miliziani islamici radicali.

La Turchia minaccia di entrare nell'Organizzazione di Shangai

Le resistenze all'ingresso della Turchia nell'Unione Europea potrebbero determinare una curiosa scelta di campo per Ankara. Il governo turco avrebbe, infatti, intenzione di diventare membro, per ora soltanto osservatore, della Organizzazione di Shangai per la cooperazione. Il premier turco Erdogan ha individuato questa possiblità in alternativa all'ingresso nella UE, come possibile sbocco della ricerca dell'allargamento delle forme di cooperazione internazionale per il proprio paese. Il persistere dell'ostinato atteggiamento, per la verità in parte giustificato, di diversi paesi membri della UE all'ingresso turco nell'unione, spingerebbe Ankara verso l'Organizzazione di Shangai, considerata da osservatori turchi addirittura potenzialmente più potente della UE. Questa visione, in realtà pare una estremizzazione, il percorso di unione, seppure rallentato e irto di ostacoli, compiuto da Bruxelles, è molto più avanti sull'integrazione, che, tra l'altro, non figura tra gli obiettivi dell'Organizzazione di Shangai. Resta comunque vero che una unione che comprende: Cina, Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan, come membri permanenti ed India, Mongolia, Iran e Pakistan, come osservatori ha effettivamente delle grosse potenzialità, che però restano distanti dai vantaggi immediati che potrebbe assicurare l'ingresso nell'Unione Europea. Per la Turchia uno dei vantaggi maggiori a fare parte dell'organizzazione di Shangai, sarebbe la comunanza con la lingua di molti stati, fattore che potrebbe assicurare una maggiore integrazione. Tuttavia i fini istituzionali dell'Organizzazione di Shangai sono molto differenti da quelli dell'Unione Europea, nata per motivi di sicurezza, dettati dalla necessità di bilanciare il potere e l'azione militare, che gli USA hanno sviluppato a livello mondiale dopo l'undici settembre 2001, l'organizzazione di Shangai promuove anche la cooperazione economica, specialmente relativamente ai settori energetici, e culturale. L'assenza di forme democratiche nei governi che compongono l'Organizzazione, costituisce un elemento di forte critica in Turchia verso questa soluzione, quello che si teme nel paese è che Erdogan effettui una virata verso una forma dittatoriale del proprio governo, anche se l'assetto democratico del paese, sebbene influenzato da forme più o meno accentuate di commistione con la religione islamica, pare immune da una tale deriva. Ma l'aspetto più curioso è che l'Organizzazione, militarmente, è alternativa alla NATO, mentre la Turchia è un membro dell'Alleanza Atlantica, considerato strategico dagli Stati Uniti; infatti Washington osserva con attenzione questo processo che potrebbe creare una situazione paradossale, e spinge, dietro le quinte, per l'ammissione del paese turco dentro l'istituzione europea. Al netto di tutte queste considerazioni, la maggioranza degli osservatori considera però, l'interesse mostrato dalla Turchia per l'Organizzazione di Shangai soltanto un metodo per costringere l'Unione Europea ad accelerare il processo di adesione di Ankara. La Turchia, forte del suo sviluppo economico, maturato negli ultimi tempi nonostante la crisi mondiale, ha la necessità di entrare dalla porta principale nel mercato più ricco del mondo per espandere il suo ciclo produttivo, di contro, la UE, sottoposta ad una fase di compressione economica, avrebbe necessità di un nuovo membro capace di aumentare la ricchezza comune e di portare dati confortanti capaci di incrementare il mercato interno. Mai come in questo momento il verificarsi di queste due condizioni, potrebbe favorire le aspirazioni turche e quindi la teoria della minaccia di andare verso un'altra organizzazione sovranazionale risulterebbe esclusivamente funzionale a fare cadere le resistenze per entrare in Europa.